I problemi con le Ai che fanno musica (e un'alternativa “etica”)

Pietro Minto

Le due startup Suno e Udio, vbersioni audio di ChatGPT in grado di generare musiche e canzoni, sono state denunciate da alcune case discografiche. E per provare a superare la questione della violazione dei diritti è nata Jen, ancora in fase di sviluppo

Una persona che non ha mai sentito “Johnny B. Goode” di Chuck Berry potrebbe mai comporla per caso? E se al posto di quella persona ci fosse un modello linguistico, ovvero un’enorme scatola piena di testi e documenti di vario tipo, che vengono scansionati e analizzati da reti neurali? Sembrano domande strane, e forse lo sono, ma sono al centro di una causa che interessa due startup del settore delle intelligenze artificiali, Suno e Udio, che sono comparse online pochi mesi fa come versione audio di ChatGPT.

 
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In pratica, chiunque può inserirvi una descrizione della musica che vuole ottenere (una canzone rock sui pinguini, ad esempio) e le AI sputano fuori nel giro di pochi secondi un brano generato – anche piuttosto credibile. C’è però un problema che fin da subito alcuni utenti hanno notato: con il giusto prompt (ovvero l’input testuale dato all’AI) è possibile generare musiche e canzoni che ricordano davvero molto brani originali protetti da copyright. Ad esempio, la citata “Johnny B. Goode” ma anche “American Idiot” dei Green Day.

  

Le due startup sono quindi state denunciate da alcune case discografiche, tra cui la troika delle major – Sony, Universal, Warner –, che hanno dimostrato di poter ottenere plagi di brani esistenti senza troppi sforzi. La causa si aggiunge a una lunga lista di procedimenti in corso che interessano molte aziende che si occupano di AI generative (tra tutte, quella tra il New York Times e OpenAI) ed è interessante perché al centro di tutto non c’è il prodotto finale, ovvero le canzoni generate e ritenute copiate da altre, ma la fase del training.

 

Queste tecnologie, infatti, non nascono nel vuoto. Sistemi come quelli di Suno e Udio si basano sull’allenamento di modelli linguistici, che a loro volta hanno bisogno di materiale da studiare e analizzare, in modo da migliorarsi. Ed è questo il punto, perché gli avvocati delle major vogliono dimostrare che l’unico modo che Suno ha di generare – dopo aver ricevuto un prompt di poche parole – una canzone-clone di Chuck Berry, Mariah Carey, gli ABBA e molti altri artisti, è di essersi formato su queste canzoni, che sarebbero state usate senza autorizzazione.

 

Sull’onda di questa causa, nelle ultime settimane è nata un’altra AI musicale, chiamata Jen, che è attualmente in “alfa” (è quindi in fase di sviluppo ed è ancora incompleta). Jen si presenta come alternativa “etica” ai Suno e Udio di questo mondo: secondo Wired, infatti, Jen sarebbe stato allenata su “40 cataloghi musicali” (non si conoscono i dettagli sui brani e artisti inclusi ma pare non ci siano nomi grossi) e promette di verificare che le proprie creazioni non violino il copyright di altri artisti. Insomma, quelli di Jen si sono posti tutti quei problemi che le altre startup hanno preferito aggirare, e i risultati si vedono: pare che le sua creazioni siano meno interessanti della concorrenza e per di più senza voci.

 

Jen avrebbe quindi dimostrato quanto le stupefacenti capacità di Suno e Udio fossero dovute a un uso piuttosto libertino dei cataloghi altrui. Siti che si erano diffusi online perché permettevano di generare canzoni assurde e divertenti, nascondono in realtà una minaccia reale per il settore musicale – e non solo. A circa venticinque anni dal caso Napster, altra realtà digitale che fu sommersa di denunce e finì comunque per cambiare per sempre il settore, le AI generative potrebbero aver già lasciato il loro segno, segnando un precedente. Il futuro prossimo del mercato musicale si giocherà anche qui, comunque vada la causa.


Quel che è certo è che finora Suno non ha giocato granché bene le sue carte. In un profilo dell’azienda pubblicato lo scorso marzo da Rolling Stone, uno dei suoi principali investitori, Antonio Rodriguez, dichiara chiaramente che l’azienda non aveva alcun accordo con le case discografiche per il training delle AI; e che, anzi, “se avessimo avuto accordi con le etichette sin dalla fondazione della società, probabilmente non ci avrei investito” perché la startup “aveva bisogno di sviluppare questo prodotto senza questi limiti”. Non una grande linea difensiva ma almeno apprezziamo l’onestà.