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Il caso

Google condannata dall'antitrust in America. Ora cercate "concorrenza" su Bing

Carlo Alberto Carnevale Maffè

La guerra giudiziaria contro Google ignora che il semi-monopolio di Mountain View non dipende solo dalla quota di mercato, ma dalla qualità del servizio che offre. Semplicemente è il miglior motore di ricerca

Chissà se il giudice Mehta ha avuto l’accortezza di cercare su Google – pardon, su Bing – il concetto di “behavioural economics”. Forse avrebbe compreso meglio che l’argomento teorico su cui si regge la conclusione che il motore di ricerca di Mountain View è un monopolista – ovvero il cosiddetto “power of defaults” – è tutt’altro che univoco e deterministico. E non basta certo avere un’elevata quota di mercato (e Google, come scrive il giudice cercando di giustificare con una semplice percentuale la propria conclusione, “controlla il 90 per cento del mercato della ricerca online”) per determinare che un quasi-monopolista abusa del proprio potere di mercato. Il verdetto della Corte Distrettuale di Washington D.C. ha scatenato un acceso dibattito tra economisti, esperti di diritto e osservatori del settore tecnologico.
 

La sentenza afferma che Google ha violato le leggi antitrust spendendo miliardi di dollari per garantirsi la posizione di motore di ricerca predefinito, danneggiando così la concorrenza e i consumatori. Non mancano significative lacune e punti deboli nell’approccio adottato dalla corte, che sembra aver fatto affidamento su teorie tuttora molto discusse in ambito accademico nel campo della “behavioral economics”. Secondo queste teorie, ottenere la posizione di default, peraltro pagando per tale privilegio somme considerevoli alle piattaforme che lo ospitano, come è il caso di Apple, conferisce a Google un vantaggio competitivo ingiusto e costituisce un danno per i consumatori. L’argomento non è del tutto privo di merito, ma è ben lontano dal costituire una prova convincente. Il concetto di “power of defaults” nell’economia comportamentale gioca un ruolo cruciale nel plasmare le scelte degli utenti di servizi digitali. Questo principio si basa sull’idea che, quando un’opzione è preimpostata, le persone tendono a sceglierla per evitare lo sforzo mentale di cambiare l’impostazione predefinita.
 

Una meta-analisi condotta dal “Decision Lab” della Columbia Business School ha esaminato 58 studi sull’influenza delle opzioni predefinite, coinvolgendo oltre 73 mila soggetti. I risultati hanno dimostrato che i defaults aumentano effettivamente le probabilità che un’opzione venga scelta, ma l’incremento medio per le scelte binarie non supera il 27 per cento; inoltre, l’efficacia delle opzioni predefinite varia molto a seconda del contesto; se un servizio risulta qualitativamente e funzionalmente migliore delle alternative, specie nel caso di scelte ripetute e sistematiche come è quello dell’utilizzo di un motore di ricerca, non c’è default che tenga: gli utilizzatori finiscono per privilegiare il prodotto migliore. E qui sarebbe bastato al giudice Mehta verificare le scelte degli utenti sui dispositivi Windows, dove Edge e Bing sono le opzioni di default, ma dove Google viene comunque scelto dall’80 per cento degli utenti. Non può quindi sfuggire il difetto di implicito paternalismo della decisione, che di fatto considera gli utenti soggetti passivi e facilmente manipolabili, e come tali non in grado di effettuare scelte libere.
 

Le analisi comparate dimostrano invece che i consumatori scelgono volontariamente Google non perché sia il default, ma perché evidentemente lo considerano il miglior prodotto disponibile. “Una decisione che si basa su teorie di economia comportamentale tutt’altro che indiscusse – ha commentato Lazar Radic, Assistant Professor of Law alla IE Law School di Madrid ed esperto di legislazione digitale – non riesce a dimostrare in modo convincente che accordi contrattuali sui default costituiscano in quanto tali un danno per i consumatori”.
 

Del resto, gli stessi economisti della Federal Trade Commission (Ftc), secondo quanto emerso da un report diffuso dal sito Politico.com, avevano precedentemente preferito non intervenire contro Google, nonostante le pressioni politiche. La Ftc aveva messo in dubbio la solidità economica di un’accusa di abuso monopolista, basandosi sull’incertezza dei mercati dinamici e sull’assenza di una chiara teoria del danno anticompetitivo.
 

Le predizioni errate riguardo la crescita del mercato degli annunci pubblicitari e dell’uso di dispositivi mobili, secondo la Ftc, non giustificano né un intervento normativo retroattivo né un giudizio di possibile abuso. Anzi, dimostrano la complessità e l’incertezza intrinseca nelle decisioni antitrust in mercati in rapida evoluzione. Di fronte a uno scenario causale così controverso dal punto di vista dell’analisi economica, infine, il  plauso entusiastico e un po’ peloso che arriva da molti esponenti politici per la decisione contro Google non può non ricondurre al sotterraneo conflitto di natura istituzionale, più che legale, tra autorità giudiziarie e istituzioni politiche da una parte e grandi piattaforme digitali dall’altra. E anche in questo caso, non sembra essere in gioco solo un presunto monopolio sulla ricerca online, bensì lo scettro del potere.