senza moderazione

Telegram ha spostato la frontiera dei social oltre la privacy, dove la moderazione dei contenuti non esiste

Pietro Minto

La app di messaggistica cofondata e guidata da Pavel Durov, arrestato in Francia perché ritenuto responsabile delle molte attività illecite che si svolgono all’interno della piattaforma, ha fama di essere molto sicura, ma è il suo fondamento sregolato a renderla unica

Che cos’è Telegram? È una domanda che molte persone, specie tra il pubblico meno “online”, si sono fatte a partire da domenica scorsa, quando il cofondatore e ceo dell’app di messaggistica, l’imprenditore russo Pavel Durov, è stato arrestato in Francia perché ritenuto responsabile delle molte attività illecite che si  svolgono all’interno dell’applicazione. Molti media hanno definito Telegram un’app “ultra sicura”, uno strumento simile a WhatsApp ma che mette al centro la privacy dell’utente. In realtà, Telegram non rientra del tutto in questa definizione, che può essere invece attribuita a Signal, app nota per la sua segretezza. Anzi, nel 2021 l’attivista per i diritti umani Raphael Mimoun scrisse sul sito Hacker Noon di trovare “profondamente preoccupante” l’idea diffusa tra molti che Telegram fosse ritenuta “lo standard aureo per la messaggistica sicura”.

 
I motivi del suo scetticismo sono diversi: innanzitutto i messaggi di Telegram non sono protetti automaticamente da crittografia di tipo “end-to-end”, quella in cui solo le persone che stanno comunicando possano leggere i messaggi, come avviene invece sia su Signal sia su WhatsApp. In particolare le chat di gruppo, tra i prodotti più caratteristici di Telegram, non sono protette in questo modo, e vengono conservate nella cloud del servizio stesso – “un incubo per la sicurezza”, secondo l’esperto di cybersicurezza The Grugq.

  

Nonostante ciò, attorno a Telegram aleggia da tempo un’aura di segretezza che lo fa sembrare lo strumento preferito da hacker e criminali: negli ultimi anni, inoltre, specie a partire dalla guerra in Ucraina, Telegram si è affermato come canale importante per i media e per i militari stessi. A favorire tutto questo non è stato però la privacy quanto l’assenza totale di moderazione dei contenuti e controlli: da ben prima che il tema della libertà d’espressione diventasse marchio di fabbrica di Elon Musk e del suo X, Telegram si basava sul laissez-faire. Ma anche sula promessa di non vendere i dati degli utenti, a differenza di Meta e Google.

     

Lanciata nel 2013 dai fratelli Durov (il citato Pavel e Nikolai) su queste solide basi libertarie, Telegram crebbe anche grazie a eventi come l’acquisizione di WhatsApp da parte di Facebook, che convinse molti utenti a cercare una nuova casa “sicura”. Da allora la comunicazione di Telegram fa leva su questo spirito da underdog contro le grandi piattaforme e sulla promessa di una nuova frontiera senza regole, che l’ha resa molto apprezzata da persone comuni, giornalisti, attivisti – oltre che criminali d’ogni tipo.

 

Il legame tra criminalità e Telegram è da tempo al centro di molte inchieste e dell’arresto di domenica. A tal riguardo Durov ha detto di trovare “assurdo sostenere che una piattaforma o il suo proprietario siano responsabili per l’abuso di quella piattaforma”. Negli Stati Uniti c’è una legge del 1996 – la Section 230 del  Communications Decency Act – che protegge proprio le aziende digitali da quello che vi pubblicano gli utenti e ha di fatto reso possibile la nascita del web per come lo conosciamo.

  
Nulla è però per sempre. Ci sono  diverse proposte di riforma della legge e recentemente il New York Times ha raccontato di un professore universitario che ha fatto causa a Meta utilizzando “una parte poco utilizzata” di Section 230, che protegge i tentativi di “bloccare contenuti sgradevoli online” (in questo caso, un software in grado di togliere il follow a tutti i contatti di un utente, che era stato bloccato da Meta). Insomma la legge che da sempre ha tutelato Big Tech viene in questo caso usata contro Meta, in un rovesciamento delle parti sorprendente.

 

A oggi, comunque, l’unica cosa certa è che la moderazione dei contenuti, da argomento nerd e spesso snobbato, risulta il centro di un marasma tecno-politico che interessa entrambe le parti dell’Atlantico. Da una parte Elon Musk che grida “il prossimo sono io”; dall’altra l’Unione europea – la sola Francia in questo caso – severa e burocrate. Da una parte la totale assenza di moderazione dei contenuti – ritenuta una forma di censura orwelliana, altro che bispensiero; dall’altra le forze dell’ordine francesi che accusano Telegram di non collaborare con la giustizia.
Un intrigo internazionale che riporta il dibattito sulla moderazione dei contenuti, già risucchiata dal vortice delle guerre culturali. Lo aveva previsto Nilay Patel, direttore del sito The Verge, che nell’ottobre del 2022, quando Musk acquistò Twitter, scrisse un editoriale dal titolo “Benvenuto all’inferno, Elon”, in cui anticipò una serie di problemi politici che l’azienda – come qualsiasi piattaforma – avrebbe dovuto trattare. “La verità essenziale di ogni social network – scrisse Patel – è che il prodotto è la moderazione dei contenuti, e tutti odiano le persone che decidono come funziona la moderazione dei contenuti”. E fare finta che il problema non esista, forse, non basta più.

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