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Il caso

Zuck&Co sono preoccupati più dell'antitrust che della libertà d'espressione

Marco Bardazzi

Dietro alle dichiarazioni del ceo di Meta su presunte pressioni e censure ricevute dalla Casa Bianca c'è soprattutto la paura di quello che potrebbe succedere sul fronte della Sherman Act, la legge con cui da oltre un secolo vengono frantumati i monopoli

L’arresto in Francia del ceo di Telegram Pavel Durov ha creato un corto circuito nel dibattito globale sul ruolo dei social media. Dall’America all’Europa, le destre a forte tasso di populismo, in sintonia con il Cremlino, si sono levate in difesa della libertà di espressione con uno schieramento analogo a quello già visto nel 2021, quando Twitter rimosse Donald Trump dalla piattaforma dopo l’assalto a Capitol Hill. La contemporanea denuncia di Mark Zuckerberg di aver subito “censure” dalla Casa Bianca di Joe Biden sul tema del Covid, proprio nei giorni in cui si è aperto il dibattito su Durov, ha fatto diventare anche Meta una specie di trincea del libero pensiero. Ma è un minestrone cucinato male, che mescola ingredienti sbagliati. Sono dibattiti diversi a uso di pubblici diversi sulle due sponde dell’Atlantico.
 

Le Big Tech americane sono senz’altro preoccupate dalle iniziative giudiziarie e legislative europee, ma le “censure” vere o presunte non sono certo il maggiore dei loro problemi. Dietro la mossa di Zuck, come dietro a molti spostamenti nella Silicon Valley in direzione di Trump, c’è soprattutto il timore di quello che può succedere sul fronte antitrust se all’Amministrazione Biden seguirà un altro governo democratico.
 

Non c’è dubbio che il caso Durov abbia inquietato i capi azienda del mondo delle piattaforme social. Elon Musk da giorni tuona su X contro la Francia, si chiede (con qualche ragione) se non sia diventato per lui rischioso atterrare in Europa e fa campagna per liberare il “Zuckerberg russo”, coinvolto in un’inchiesta sull’uso di Telegram per la diffusione di pedopornografia, traffico di droga e riciclaggio. È un fronte giudiziario che va ad aggiungersi a quelli politici che si sono aperti per le società americane in Europa. Il Digital Service Act del Parlamento europeo impone ai social maggiori controlli sui contenuti, nuove leggi in Francia e nel Regno Unito prevedono a loro volta più responsabilità per le piattaforme e di sicuro gli attacchi diretti del commissario europeo Thierry Breton a Musk hanno un peso nelle reazioni del ceo di X e Tesla alle vicende europee.
 

Ma Musk non è la Silicon Valley, dove da tempo le grandi imprese come Apple, Google o Microsoft sono attente ad avere una presenza costruttiva a Bruxelles e guardano positivamente a legislazioni in cui l’Ue è avanti agli Stati Uniti, come il recente Ai Act.
 

Lo stesso Zuckerberg, quello “vero” e americano, si è espresso a favore delle regolamentazioni europee in tema di privacy o gestione dei dati, vedendole come punti di riferimento utili per la legislazione americana. Quando Zuck invece compie mosse come quella di questi giorni, inviando una lettera al Congresso in cui racconta che la Casa Bianca gli ha fatto pressioni durante il Covid per rimuovere contenuti ritenuti inaffidabili, sta giocando un’altra partita. Nella quale Durov c’entra poco e in realtà c’entra poco anche la libertà di espressione.
 

Meta e compagne su questo fronte in America (a differenza che in Europa) hanno le spalle più che coperte. Sono tutelate dal Primo emendamento alla Costituzione e soprattutto dalle protezioni della Section 230, un provvedimento che risale al 1996, all’epoca dell’Amministrazione Clinton, quando Google non esisteva e Zuck era un ragazzino di undici anni che andava alle medie. È la legge che ha permesso a internet di fiorire, creando uno scudo che separa le aziende tech dalla responsabilità per i contenuti che pubblicano. È nata per proteggere uno dei primi provider del web, Prodigy, dagli attacchi legali per diffamazione lanciati della società di brokeraggio di Jordan Belfort, il finanziere d’assalto a cui Leonardo Di Caprio ha dato un volto nel film “The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese.
 

Sostenuto dalla Costituzione, dalla Section 230 e dallo scorso giugno anche da un paio di sentenze favorevoli della Corte Suprema a guida conservatrice, Zuckerberg è ora andato all’attacco al Congresso dell’Amministrazione Biden dicendosi “censurato”, ma in realtà con in mente un altro obiettivo. La vera paura dei colossi della Silicon Valley è lo Sherman Act, la legge con cui da oltre un secolo vengono frantumati i monopoli. Il ministero della Giustizia di Biden è andato giù duro in questi anni sull’antitrust: Apple, Google e Meta sono nel mirino di chi vorrebbe smontarle. E Zuck probabilmente è alla ricerca di sponde politiche per stare tranquillo nel caso vinca Trump.

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