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Northvolt e Intel suonano la sveglia all'Europa
Ci sono state due battute d’arresto in settori strategici della politica industriale dell'Unione europea: che cosa è andato storto e che cosa si deve fare
Negli ultimi mesi l’Unione europea ha vissuto due battute d’arresto nel suo itinerario di politica industriale. A distanza di poche settimane l’Europa ha assistito al rinvio di due anni dell’investimento di Intel in Germania, da molti ritenuto il preludio a un definitivo abbandono, e alla crisi di Northvolt. Avvenimenti di grande rilevanza non solo per il loro valore simbolico – Intel e Northvolt rappresentavano due pilastri strategici delle transizioni gemelle, rispettivamente nei semiconduttori e nelle batterie elettriche – ma, soprattutto, per le implicazioni sul futuro industriale del continente.
Fondata nel 2015 da due ex dirigenti di Tesla, Northvolt era destinata a diventare il primo grande produttore europeo di batterie per veicoli elettrici. Forte di circa dieci miliardi di dollari di finanziamenti, provenienti da fonti pubbliche, come il governo svedese, dalla Banca europea per gli investimenti, oltre che da investitori privati, Northvolt aveva avviato stabilimenti in Svezia, Polonia e Nord America, guadagnandosi rapidamente il titolo di potenziale campione europeo. La realtà, tuttavia, non ha mantenuto le promesse. A soli due anni dall’inizio della produzione, l’azienda ha registrato perdite per 1,2 miliardi di euro e difficoltà nel rispettare gli ordini ricevuti, con Bmw, ad esempio, che ha annullato un contratto da due miliardi di euro, preferendo rivolgersi a Samsung. Il risultato è che il 21 novembre, Northvolt ha presentato istanza di fallimento negli Stati Uniti, segnando così la fine di un’ambiziosa quanto breve parabola.
Diversa, ma dagli effetti analoghi, è la vicenda di Intel. A giugno 2023, il colosso statunitense aveva annunciato un investimento di 30 miliardi di euro in Germania, suddiviso tra Sassonia-Anhalt e Magdeburgo, grazie a generosi incentivi del governo tedesco, che aveva stanziato 10 miliardi di euro in sovvenzioni. L’annuncio aveva fatto seguito a un investimento di 4,6 miliardi di euro in Polonia. Questi stabilimenti, sostenuti dalla Commissione, avrebbero dovuto rappresentare un punto cardine per rafforzare l’autonomia strategica europea nel settore dei semiconduttori. E, tuttavia, il 16 settembre, Intel ha comunicato il rinvio di due anni dell’avvio degli investimenti in Germania, adducendo difficoltà finanziarie e la necessità di significativi tagli ai costi.
Cosa è andato storto in questi due casi e che cosa li accomuna? Se entrambi mettono in evidenza le debolezze dell’Europa nell’attrarre e mantenere investimenti chiave in settori strategici, più nello specifico, sono due i fattori che emergono con chiarezza.
Il primo riguarda i tempi: l’Europa ha dimostrato lentezza nel riconoscere e affrontare le sue priorità strategiche. La carenza di semiconduttori, ad esempio, era nota da decenni: già negli anni Ottanta, il commissario all’Industria, nonché vice presidente della Commissione europea, Étienne Davignon, aveva delineato una strategia per aumentare la produzione europea, senza però ottenere risultati concreti. Analogamente, per quanto riguarda le batterie, il Green Deal del 2019 ha introdotto obiettivi ambiziosi di decarbonizzazione, ma senza un’adeguata analisi delle carenze produttive, delle capacità industriali europee e, soprattutto, del tempo necessario per le conseguenti riconversioni. Con il risultato di un disallineamento tra obiettivi e tempi di loro realizzazione e un impatto critico su diversi settori industriali.
Il secondo attiene alle condizioni di mercato. Nonostante le importanti risorse pubbliche e private investite, queste si sono dimostrate da sole insufficienti per garantire la sostenibilità finanziaria degli investimenti, in assenza di condizioni di mercato favorevoli. Northvolt aveva scelto la Svezia per il suo primo stabilimento europeo, attratta dall’ampia disponibilità di fonti rinnovabili (eolico e idroelettrico), ma l’accesso e i costi delle materie prime critiche, come il litio, nonché la difficoltà di raggiungere una scala adeguata, si sono rivelati ostacoli insormontabili per sostenere una produzione competitiva rispetto alle imprese cinesi, coreane o giapponesi. Per Intel la crisi del settore automotive europeo – e tedesco in particolare – ha ridotto significativamente la domanda di semiconduttori, compromettendo le prospettive di redditività dell’investimento.
Northvolt e Intel non sono, quindi, solo casi importanti in sé ma perché, rivelando i limiti delle strategie europee per l’autonomia strategica, aiutano a capire cosa non ha funzionato e come porvi rimedio.
Innanzitutto, l’Europa deve migliorare la propria capacità predittiva, di programmazione e di realizzazione. In altre parole, deve comprendere le traiettorie, programmare gli interventi e farlo sulla base della propria capacità industriale attuale e di quella potenziale, valutando tempi e costi per le necessarie trasformazioni e comprendendo quali settori meritano investimenti e quali invece no. Scegliere in maniera selettiva vuol dire analizzare le potenzialità delle proprie filiere industriali, partendo dalle specializzazioni produttive dei diversi paesi membri, identificare quelle sulle quali è in condizione di sviluppare posizioni di vantaggio competitivo rispetto ai paesi concorrenti e che presentino un potenziale di crescita maggiore nel medio-lungo periodo e definire politiche e investimenti mirati che li supportino. Per farlo servono alleanze tra settori industriali. Serve, in altre parole, un ecosistema industriale che metta insieme tutti i pezzi della filiera. Se si pensa al settore delle batterie per veicoli elettrici: imprese operanti nel settore energetico, dell’automotive, della chimica.
In secondo luogo, l’Europa deve dare certezza sulla direzione che intende intraprendere. La nuova Commissione deve indicare fin da subito quali saranno le prospettive future del Green Deal, ridefinendo rapidamente i target secondo l’ottica appena delineata. L’incertezza blocca, infatti, le decisioni di investimento in un momento in cui a livello globale la concorrenza non fa sconti.
Se poi è vero che le risorse da sole non bastano, queste però vanno accresciute, concentrate e coordinate. L’Unione non ha competenze proprie in materia di politica industriale, ma può utilizzare alcune leve per coordinare gli interventi degli stati membri. Può farlo con misure regolamentari, il Chips Act va in questa direzione, o finanziarie, utilizzando risorse proprie come leva per attrarre quelle degli stati membri e delle imprese. Anche in quest’ottica la dimensione collaborativa è sempre più rilevante e il rafforzamento degli IPCEI (Important Projects of Common European Interest) è essenziale: la Commissione dovrebbe partecipare direttamente al cofinanziamento dei progetti, rendendo le autorizzazioni più rapide ed efficienti.
Infine, ma non per importanza, l’accesso alle materie prime e i relativi costi sono cruciali. L’Unione europea è consapevole della loro strategicità e l’ha affrontata nel modo corretto con il Critical Raw Materials Act, puntando su tre assi: aumentare l’estrazione di tali minerali sul proprio territorio, migliorare le capacità di riciclo, ampliare gli accordi di cooperazione con i paesi produttori. L’accordo con il Mercosur si colloca precisamente all’interno di questa strategia, consentendo all’Europa di ampliare la propria capacità di importazione e ridurre così la dipendenza dalla Cina. Per questa ragione è importante che venga sottoscritto.
In conclusione, l’Europa deve agire rapidamente per superare i limiti evidenziati da questi ‘casi’. Senza un approccio più incisivo e pragmatico, rischia infatti di perdere irreversibilmente competitività nei settori chiave per le transizioni digitale e verde. Il futuro industriale del continente richiede senza dubbio una visione ambiziosa, ma soprattutto la capacità di tradurre le ambizioni in azioni concrete e sostenibili.