Foto Esa, via Ansa

l'analisi

Intelligenza artificiale fa rima con energia nucleare

Giuseppe Zollino

L'IA ha un elevato consumo di energia elettrica per l’alimentazione di server, sistemi di raffreddamento e infrastrutture di rete. Per colmare il gap con Stati Uniti e Cina nel settore serve anche più energia, quella che il nucleare può produrre

Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di nuovi investimenti in Francia nei prossimi anni, per un ammontare complessivo di 109 miliardi di euro, da parte di investitori privati su infrastrutture e software per l’intelligenza artificiale. Va detto che già ora la Francia è il paese Ue con la quota maggiore di investimenti nel settore, sebbene, nel loro complesso, gli investimenti europei siano ancora incomparabili con quelli negli Stati Uniti e in Cina. Macron ha aggiunto che in Francia sono stati individuati 35 siti idonei a ospitare data center, e che il fondo canadese Brookfield è pronto a investire 20 miliardi di euro per costruirne uno  nel nord del paese.

 

Sappiamo del resto che i data center, tanto più in ragione del largo uso che ne fa l’intelligenza artificiale, hanno un elevato consumo di energia elettrica per l’alimentazione di server, sistemi di raffreddamento e infrastrutture di rete. L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) stima che essi siano responsabili dell’1,5 per cento circa dei consumi mondiali di energia elettrica. Un altro 0,4 per cento è destinato al cosiddetto mining delle criptovalute. Si tratta oggi di oltre 500 TWh in tutto, che la stessa Iea prevede cresceranno a un tasso annuo compreso tra il 20 e il 40 per cento, per l’enorme aumento delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, che neutralizzeranno gli effetti dello sviluppo e implementazione di architetture e sistemi di alimentazione e di raffreddamento più efficienti.

 

Insomma, quello dei data center e, più in generale dell’intelligenza artificiale, è un settore ad alto valore aggiunto sul quale l’Unione europea è in grave ritardo e deve colmare il gap con Stati Uniti e Cina, come ha ammesso la presidente della Commissione Ursula von der Leyen martedì scorso, annunciando un piano di investimenti da 20 miliardi di euro che ne mobiliterà in tutto 200. Ma è anche un settore energivoro, in quanto caratterizzato da infrastrutture che hanno bisogno di energia elettrica abbondante, continua ed economica, che tuttavia non possiamo permetterci di delocalizzare, come abbiamo fatto, deliberatamente o alla chetichella, con alcune produzioni industriali pur strategiche. Questo impone di ripensare le priorità della politica europea anche in tema di energia, a cominciare dalla previsione della domanda elettrica, che dovrà sostenere non solo l’elettrificazione di settori tradizionali, come i trasporti e il riscaldamento, a motivo della decarbonizzazione, ma anche un consumo aggiuntivo, con caratteristiche di continuità, sinora poco presente nei conteggi e ancor meno nella valutazione razionale degli scenari di produzione.

 

Non stupisce, allora, che gli investimenti privati nel settore si orientino oggi verso la Francia. Infatti, la Francia dispone oggi di oltre 80 TWh di energia elettronucleare continua, economica e – cosa che non guasta – pulitissima, generata in eccesso rispetto alla domanda interna, che infatti l’anno passato ha esportato in molti paesi. In particolare, in Italia (le cui importazioni nette hanno raggiunto i 51 TWh, record assoluto, per due terzi dalla Francia, in parte via Svizzera), nel Regno Unito (import netto 34 TWh, di cui 20 TWh dalla Francia) e Germania (import netto 27 TWh, per metà dalla Francia). Energia elettrica che, nel prossimo futuro, invece di essere esportata, potrebbe essere ceduta con contratti bilaterali dal produttore Edf (Électricité de France) direttamente ai data center localizzati in Francia, a potenza costante, come serve, e a prezzi estremamente competitivi.

 

E gli altri paesi europei sono tagliati fuori? Dipende dal mix di generazione elettrica. Paesi come Svezia e Finlandia, con abbondande idroelettrico e nucleare, fonti continue e competitive sono anch’essi avvantaggiati. Lo diverrà presto il Regno Unito, se il primo ministro laburista Keir Starmer terrà fede ai suoi intenti di facilitare e accelerare la costruzione di nuove centrali nucleari e potrebbe tornare a esserlo la Germania se, come annunciato dal leader della Cdu Friedrich Merz, dopo le elezioni saranno riavviate alcune di quelle improvvidamente spente e ne verranno costruite di nuove.

 

E l’Italia? Beh, se il governo Meloni davvero lo volesse, entro sei mesi potremmo avere pronta la normativa per avviare al più presto la costruzione di un nuovo parco nucleare. E, nel frattempo, i data center possono rientrare tra i settori energivori cui destinare energia idroelettrica ceduta con contratti di lungo termine dagli impianti per i quali vanno rinnovate le concessioni, attuando finalmente il disaccoppiamento dal prezzo del gas.

 

Ma c’è ancora un ultimo aspetto da sottolineare. Siccome anche in Francia nei prossimi anni l’elettrificazione di alcuni settori di consumo aumenterà come nel resto d’Europa, la comparsa del moderno settore energivoro chiamato Intelligenza artificiale deve far suonare un campanello d’allarme in quei paesi che nei loro modelli di previsione ipotizzano, con eccesso di fiducia, di poter contare anche in futuro su massicce quote di import di energia elettrica. Tanto per far nomi, il Pniec  italiano (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) prevede per il 2030 un import netto di 43 TWh e di 26 TWh nel 2040. Un motivo in più per considerare ineludibile e urgente il ritorno del nucleare in Italia.

 

Giuseppe Zollino, responsabile energia Azione

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