Trump durante la conferenza stampa nella Roosevelt Room della Casa Bianca il 21 gennaio scorso mentre annuncia il piano per le infrastrutture Ai (foto Epa, via Ansa) 

La guerra delle AI

L'intelligenza artificiale non è solo un problema di competizione tecnologica fra America e Cina

Filippo Lubrano

Il repubblicano Todd Young propone una visione audace per l’intelligenza artificiale come strumento di potere globale. Mentre la Cina avanza con la sua iniziativa globale, si apre una possibilità per l’Europa

Il refolo autarchico del Maga trumpiano non risparmia certo il campo tecnologico, e in particolare quello dell’intelligenza artificiale. Dopo aver indirettamente minacciato Taiwan di riportare la manifattura dei chip al di qua dell’autoproclamato Golfo d’America, Trump ha disertato anche l’Artificial Intelligence Action Summit, che si è svolto  la scorsa settimana a Parigi pochi giorni prima del World Artificial Intelligence Cannes Festival, in una doppietta di eventi che conferma le ambizioni di Macron di posizionare la Francia al centro della strategia europea in ambito Ai.

 

L’assenza degli americani ha però servito un assist molto gradito a Pechino, che ha sfruttato il prato verde per far ratificare la sua Global AI Governance Initiative in maniera plebiscitaria. Ben 58 stati, insieme all’Unione europea e a quella africana, hanno sottoscritto infatti la proposta fortemente promossa da Xi Jinping nel 2023. Un successo doppio, se si considera che Alibaba ha recentemente annunciato che sarà il partner Ai di Apple (che storicamente insegue le grandi corporation su questo strategico verticale) nel mercato cinese.

 

Il presunto “momento Sputnik” che avrebbe dovuto causare in America l’uscita di Deepseek – che incredibilmente nessuno in Silicon Valley aveva visto arrivare – se c’è stato, non ha portato a una conseguente riscossa da parte dell’America. Tanto che è oramai legittimo chiedersi se gli Stati Uniti siano effettivamente in grado di tenere il passo con la Cina sia sul piano strettamente tecnologico sia su quello della diplomazia. I comunicati dell’agenzia di stampa   Xinhua insistono su quanto Pechino abbia a cuore lo sviluppo di sistemi che “beneficino tutta l’umanità”, ed è attorno a questa visione che Xi sta tentando di mettersi a capo del nuovo modello di governance globale multilaterale. 

 

Il governo americano, fatta salva la roboante comunicazione del piano da 500 miliardi di dollari del progetto Stargate, pare non avere un piano così preciso nel settore, se non quello di inondare di soldi i player privati che costituiscono l’ossatura della loro industria tecnologica.

 

E con la credibilità di Musk messa quotidianamente a repentaglio dal ritmo convulso dei suoi tweet, ecco allora che cominciano a candidarsi al ruolo di consiglieri strategici tecnologici nuovi volti. Fra tutti spicca il nome di Todd Young, senatore repubblicano noto per la sua propensione a coniugare visioni tecnologiche d’avanguardia (nel 2022 fu uno dei principali fautori del Chips and Science Act) con una discreta postura anti-cinese. Young ha recentemente offerto una sorta di manifesto per un “Trump 2.0” che abbracci l’intelligenza artificiale come nuovo strumento di potere. In un articolo-pamphlet uscito per The National Interest, di cui si è discusso molto negli ultimi giorni,  Young delinea un percorso in cui l’Ai non resta confinata ai laboratori o alle start-up della Silicon Valley, ma si erge a pilastro della politica estera americana – un concetto che, lungi dall’essere meramente utopico, pare essere accolto con favore da una parte dell’ala repubblicana.

 

In una lunga analisi che ha il pregio di essere solida e pragmatica, Young suggerisce una strategia costituita da nove punti, la cui spina dorsale risiede nell’ipotesi di spostare una fetta rilevante del budget dedicato all’intelligenza artificiale nel dipartimento di Stato. Una mossa che, se da un lato appare audace, dall’altro risponde a una dinamica globale in cui la tecnologia diventa arma e moneta di scambio nei rapporti internazionali – visione d’altronde corroborata anche da diversi opinionisti europei, tra i quali il direttore di questo giornale. 

 

Nella sua proposta, Young non lesina complimenti per Musk e Thiel (che definisce “due luminari”), e ritaglia per loro un loro centrale nell’utilizzo di fondi quali l’Itsi (International Technology Security and Innovation fund) per rilanciare le ambizioni americane nel settore. Il senatore dell’Indiana sorprende poi suggerendo al presidente di aprire anche a capitali esteri, specialmente quelli degli Emirati arabi uniti, e cita anche il Kenya e l’Africa orientale come importanti pietre miliari per i data center.  

 

Proprio quest’ultimo punto risulta particolarmente interessante, in uno scenario di crescenti tensioni e rivalità, e in cui finalmente l’Unione europea, dopo il recente annuncio della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, di un ambizioso piano di finanziamento di 200 miliardi di euro per l’Ai, pare voler recitare un ruolo attivo. 

 

Mentre gli Stati Uniti si interrogano sulla reale capacità di contenere il dinamismo cinese, l’Europa cerca di ritagliarsi un proprio ruolo con investimenti senza precedenti e una spinta verso una governance globale ancora basata sul soft-power, ma capace di includere anche altri attori finora marginali. Come per esempio proprio i paesi africani, su cui la Cina ha un vantaggio competitivo derivante dalla sua presenza trentennale in loco, ma che potrebbero su questo fronte scegliere anche di smarcarsi dall’influenza del gigante asiatico. Il nuovo equilibrio geopolitico passa anche da qui, in questo settore estremamente strategico le cui zolle tettoniche, in questa fase di smottamenti continui, stanno ancora trovando la posizione più congeniale in cui cristallizzarsi. 

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