Foto Unsplash

L'intervista

Fare dell'AI un'istituzione. Parla il filosofo Roberto Esposito

Michele Silenzi

Distinguere “communitas” e “immunitas”, l’istanza securitaria e la via del controllo democratico: “Se scuola e Università si contrapponessero all’All'intelligenza artificiale mettendosi al di fuori dal suo circuito, sarebbe un errore”, dice professore emerito della Scuola Superiore Normale di Pisa

Roberto Esposito è uno dei filosofi italiani più tradotti all’estero e professore emerito della Scuola Superiore Normale di Pisa. La sua ricerca sulla struttura della società basata sul doppio concetto di communitas e immunitas ha fatto scuola nell’ambito della filosofia politica e non solo. Visti gli impatti che l’intelligenza artificiale avrà sull’organizzazione sociale del mondo di domani, ci è sembrato inevitabile intervistarlo.

 

                    

 

Professor Esposito, iniziamo queste piccole conversazioni filosofiche attorno all’intelligenza artificiale partendo da una domanda ricorrente, e fondamentale, che pensiamo serva a chiarire le varie prospettive che cerchiamo di raccontare. E la domanda è quella intorno a intelligenza e pensiero. Ossia, è possibile stabilire una distinzione tra intelligenza, intesa come ratio calcolante, e pensiero, inteso come atto creativo per eccellenza e originario dell’attività umana?

“La tradizione filosofica, da Hegel a Heidegger, è più volte tornata sulla distinzione tra due espressioni della mente umana, assegnando loro un differente valore: intelletto e ragione, anima e spirito, intelligenza e pensiero. Ma il significato dato a questi termini deriva dalle premesse da cui si parte. Se, nel complesso, la filosofia che si definisce continentale ha sempre difeso il primato del pensiero, mettendo in risalto il suo carattere creativo, la filosofia analitica ha invece spostato l’accento sull’intelligenza logica. Le neuroscienze, infine, tendono a interpretare lo stesso pensiero all’interno del funzionamento dei processi mentali. Tutto dipende insomma dal significato che diamo a ‘intelligenza’ e ‘pensiero’. Generalmente per ‘intelligenza’ intendiamo il dispositivo cerebrale, l’insieme delle funzioni che ci consente di ragionare, dunque una sorta di apparato strumentale; mentre per ‘pensiero’ intendiamo l’atto creativo che emerge da questa potenzialità. Ma si tratta di una distinzione tutta da verificare. Non sempre, anche nella tradizione filosofica, è stato così. Per esempio il più grande commentatore di Aristotele, Averroè, parlava di un ‘intelletto materiale’, separato dagli individui, ai quali questi possono attingere come da una entità sopraindividuale. Qualcosa che per certi versi rimanda a ciò che oggi chiamiamo ‘intelligenza artificiale’. Anche in quel caso, peraltro, la teoria dell’intelletto separato venne attaccata dai difensori del pensiero, e dell’anima, individuale, con l’argomento che se l’intelletto fosse impersonale, se non appartenesse alla singola persona, il soggetto non sarebbe stato più responsabile delle proprie azioni e così verrebbero meno sia il diritto che l’etica. Anche in base a ciò le opere di Averroè sono state bruciate. Ma mi pare che le sue idee siano tutt’altro che morte”.   

La sua riflessione recente verte attorno al tema dell’istituzione o, per meglio dire, della prassi istituente che si trova di fronte a un’epoca in cui l’apparente “fissità” delle istituzioni viene progressivamente martellata dagli stravolgimenti geopolitici e, cosa che ci interessa in particolare in questa conversazione, dalle innovazioni tecnologiche. Quale relazione intravede, se la vede, tra istituzione e intelligenza artificiale? In che modo si può pensare, e se è possibile pensarla, un’istituzione, quindi una qualche “stabilità”, in relazione a una potenza dirompente e acefala come quella dell’intelligenza artificiale?

Non c’è alcuna opposizione di principio tra istituzioni e sviluppo tecnologico. Le istituzioni appartengono esse stesse all’ambito dell’artificio, esattamente come la tecnica, piuttosto che a quello della natura. Se vogliamo, sono esse stesse delle tecniche di sopravvivenza e di agevolazione della vita umana. Mancando, l’uomo, di una dotazione di istinti potenti come quelli degli animali superiori, è stato costretto a creare un insieme di artifici, materiali e simbolici, per proteggersi dall’instabilità ambientale. Tuttavia non si può dire, come a volte si fa, che l’essere umano abbia abbandonato, o contrastato, la propria ‘base’ naturale, dal momento che la natura umana è di per sé tecnologica. Piuttosto ha inventato una ‘seconda natura’. Prendere il frutto da un albero è già un atto artificiale, tecnologico. Nulla, che riguardi l’uomo, è semplicemente o puramente naturale. Noi viviamo sempre situazioni ibride, e anche contraddittorie, oscillanti tra livelli differenti. Per esempio l’atto dell’istituire implica da un lato un elemento dinamico, creativo, quello di iniziare qualcosa di nuovo; dall’altro la necessità che questa novità non si perda, si stabilizzi. Istituire significa propriamente rendere durevole il divenire. Non per nulla la massima istituzione, nata da un lungo processo storico di costruzione, si chiama ‘stato’, participio passato del verbo ‘stare’. Ma decisiva, nelle istituzioni, è la possibilità della loro trasformazione in base alle esigenze di coloro che le hanno messe in atto. Rapportarsi all’intelligenza artificiale – essa stessa in fondo un’istituzione, nel senso che è stata istituita e continua a modificarsi – oggi è insieme una necessità e un’opportunità. Oltre che, come sempre accade nei grandi mutamenti, un rischio”.

Un’altra importante parte della sua attività intellettuale è stata rivolta allo studio di concetti come communitas e immunitas. Può l’intelligenza artificiale comportare una riduzione ulteriore di ogni senso di comunità ribaltandolo via via dentro l’istanza securitaria dell’immunità intesa come limite che ciascuno traccia intorno a sé creandosi il proprio mondo personale che, invece di amplificare la libertà, che inevitabilmente si svolge problematicamente insieme agli altri facendo esperienza del mondo, tende a chiuderlo in una struttura di risposte rassicuranti e autoindulgenti?

“Certo che può accadere, ma non è detto che accada. Come osserva Maurizio Ferraris, tutto dipende da noi. Non bisogna pensare ‘comunità’ e ‘immunità’ come due blocchi contrapposti. Tutte le comunità umane hanno sentito il bisogno di proteggersi attraverso dei dispositivi immunitari contro conflitti potenzialmente distruttivi – il primo grande apparato immunitario è stato il diritto, senza il quale nessuna società sarebbe sopravvissuta. Naturalmente se la protezione immunitaria aumenta a dismisura, rischia di azzerare la socializzazione e dunque la stessa comunità, come, nel corpo umano, avviene durante le malattie autoimmuni. Non è detto che l’intelligenza artificiale debba agire solo in senso immunitario. Anzi può allargare il livello di comunicazione tra gli individui. Certo, può essere usata anche per dividerli e discriminarli. Oppure per ridurre i momenti di socialità, rendendoli puramente telematici. Per esempio può portare alla eliminazione di tradizionali luoghi di lavoro. Ma, anche in questo caso, dipende da come è usata e soprattutto da chi ne detiene il comando”.    

E’ probabile che l’AI comporti un divario ulteriore tra “chi sa” e “chi non sa”, che potrebbe essere considerata la nuova divisione tra “haves” and “have nots”. Ossia se si è intelligenti e colti si può esserlo sempre di più attraverso un mezzo strumentale. Se non lo si è si tende attraverso l’AI a crearsi un mondo di maggiore stasi, di conferme autogenerate dalla propria stessa ignoranza perché la macchina risponde appunto all’altezza delle nostre domande. Può dirci che ne pensa di tutto ciò e se vede una tale questione come un problema “politico” dell’immediato futuro?

“Sono possibili entrambi gli esiti. Se, almeno nei paesi occidentali, si confronta il nostro livello di istruzione con quello di cento anni fa, direi che le distanze tra chi sa e chi non sa si siano complessivamente ridotte. Il tasso di analfabetismo è molto sceso. Tuttavia a questo progresso quantitativo sembra corrispondere un regresso qualitativo. La cultura appare appiattita e meno consapevole. Internet da un lato consente a tutti di accedere alle informazioni più varie, dall’altro diminuisce la capacità critica in grado di selezionare le informazioni attendibili rispetto a quelle false. L’intelligenza artificiale può potenziare questo processo di apprendimento ‘drogato’, eterodiretto, del quale rischiamo di perdere il controllo. Se siamo bombardati dalla pubblicità di un prodotto scadente, possiamo sempre decidere di non acquistarlo. Se, però, una macchina per pensare ci propone una sola alternativa – o, al contrario, una serie infinita di alternative apparentemente paritarie – possiamo entrare in serie difficoltà: o decidere quello che è già deciso da altri o non saper decidere nulla. Laddove l’AI entrasse nella disponibilità di determinate forze politiche, consentendo loro di influenzare le convinzioni degli elettori, allora sì che ci sarebbe un problema. Ma ad esiti non molto diversi arriveremmo se ad impadronirsene dovessero essere potenze economiche – come in parte sta già avvenendo. La politica dovrebbe agire per evitare monopoli nell’ambito dell’AI. Ci vorrebbe un controllo democratico sul suo uso. Non è facile, ma dobbiamo muovere in questa direzione”.  

Una delle idee di quella che lei chiama “prassi istituente” è quella di rendere le istituzioni l’anello di congiunzione tra la politica e la società. Le istituzioni sarebbero il “filtro” attraverso cui la società (termine scivoloso) interroga la politica. Le istituzioni sono dunque viste come punto di mediazione. L’intelligenza artificiale non segna la fine ogni mediazione? Ossia, non crede che l’AI tenda a spingerci a fare a meno di ogni istituzione che, per sua natura, filtra e organizza secondo un criterio comune condiviso dalle società cui quelle istituzioni appartengono?

“Questo rischio esiste e saremmo ingenui a non preoccuparcene. Per salvaguardarcene, bisognerebbe istituzionalizzare la stessa intelligenza artificiale, rendendone pubbliche le risorse e i potenziali vantaggi. Per esempio attraverso la Scuola e l’Università. Sarebbe un grave errore se Scuola e Università si contrapponessero all’AI, mettendosi al di fuori dal suo circuito. Ma anche se si consegnassero a essa. Dovrebbero piuttosto farne uso in base alle loro esigenze. Mi rendo conto della difficoltà di quanto dico. I professori della mia generazione non hanno né la capacità, né, spesso, l’interesse, per accostarsi al problema. Ma per chi ha venti, o anche quaranta anni, le cose sono diverse”.

Di più su questi argomenti: