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l'intelligenza artificiale e il lavoro
Le regole frammentate frenano l'Ai, pure in Italia. Parla Faioli
Un "terzo elemento" si è inserito nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, ponendo nuove sfide alle quali il sistema normativo vigente non è pronto. Per il professore di diritto del lavoro della Cattolica, occorre ammettere che le AI impongono la creazione di un nuovo sistema, il "robot labor law", cioè il diritto del lavoro nell'era dei robot
Una minaccia per l’umanità, un’arma in più per i suoi utenti, o una super intelligenza aliena a noi incomprensibile. L’intelligenza artificiale viene descritta in molti modi, spesso anche emotivi, nonostante il suo impatto nel mondo del lavoro sia già oggi piuttosto concreto e misurabile. Secondo Michele Faioli, professore associato di diritto del lavoro presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, siamo di fronte a un “terzo elemento” che si è inserito nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore. Ben lungi dall’essere solo uno strumento in più, le AI esercitano poteri e pongono nuove sfide (e rischi) alle quali il sistema normativo vigente non è ancora pronto.
Che fare quindi? Innanzitutto, occorre ammettere che le AI impongono la discussione e la creazione di un nuovo sistema, che Faioli chiama “robot labor law”, il diritto del lavoro nell’era dei robot. Sembra un film di fantascienza ma l’impatto della tecnologia nel mercato del lavoro non è fatto solo di software (i Llm, o modelli linguistici, come ChatGpt) ma anche e soprattutto di hardware (macchine e robot, appunto). Tecnologie che spesso agiscono come “black box” (cioè non vediamo quello che vi succede all’interno ma solo quello che ricevono e producono) e aggiungono uno strato di complessità nella normativa sul lavoro. Nella robot labor law rimane necessario non cedere all’istinto di normare e limitare un settore in fase di evoluzione continua: “E’ il diritto a doversi adeguare sempre alla tecnologia, e non il contrario”, sottolinea Faioli.
Su questo punto è in corso da tempo una battaglia (culturale, ancora prima che politica) tra Stati Uniti e Unione europea. Anche prima del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, infatti, le grandi aziende tecnologiche della Silicon Valley accusavano la controparte europea di voler regolarizzare fin troppo – e troppo presto – il nascente settore AI. Meta, per esempio, ha scelto di posticipare il lancio di alcuni suoi prodotti in Ue, e ora cerca l’appoggio trumpiano per convincere Bruxelles ad allentare le sue norme sul settore digitale.
L’arrivo di Trump ha ulteriormente acuito le distanze e i livori tra le due sponde dell’Atlantico, anche nel campo delle AI. Nel corso dell’Amministrazione Biden c’era stato un tentativo di regolarizzare la cosiddetta Agi (Artificial general intelligence, un tipo di intelligenza che dovrebbe essere in grado di fare qualunque cosa che può essere imparato da un essere umano) e persino dei tentativi di dialogo con l’Ue per una standardizzazione comune. Il nuovo presidente ha cancellato ogni sforzo, tanto che uno dei suoi primi executive order, firmato a gennaio, mirava a “rimuovere le barriere” nel settore.
Ognuno per sé, quindi. Ma soprattutto, nessun limite né blocco. Rimangono comunque le corti e i tribunali, che specie negli Stati Uniti hanno spesso la capacità di creare precedenti influenti e pesanti. Faioli cita il tragico caso di Sewell Setzer, l’adolescente che si suicidò dopo essersi ossessionato (e, secondo alcuni, innamorato) di un chatbot sviluppato dall’azienda Character.AI. Attualmente il contenzioso relativo è aperto e, nel caso di una condanna della società, il giudice finirebbe per dare una netta direzione alla normativa Usa sulla questione. Tensioni geopolitiche a parte, la nuova politica del lavoro ai tempi dei robot e dell’AI prevede un ripensamento anche culturale, che secondo il professore deve passare per la formazione continua, sia dei lavoratori degli studenti. Oggi questo avviene “a macchia di leopardo”, con alcune regioni che hanno sistemi funzionanti e altre in cui non viene fatto granché. E’ anche possibile individuare un pattern: le regioni con meno focus sulla formazione hanno anche un mercato del lavoro peggiore.
Lo chiamano anche “mismatch”, la condizione di disequilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Insomma, gli aspiranti ingegneri che non vivono dove le aziende disposte ad assumerli hanno sede. E’ uno dei molti problemi italiani (assieme al fenomeno dei Neet, la disoccupazione femminile, il lavoro nel Mezzogiorno), che rischia di peggiorare senza una formazione su AI e robot. Ancora oggi, del resto, la scelta delle scuole si basa su tradizioni familiari e bias culturali, continua Faioli, “come i licei scientifici sempre strapieni, anche perché spesso è la famiglia a spingere per l’iscrizione”.
E invece “bisognerebbe partire dall’inizio, dall’analisi delle competenze, dalla storia del singolo studente, tramite uffici regionali e sistemi di match-making, la creazione di un digital twin”, una copia digitale dello studente con cui simulare il suo percorso futuro. Secondo Faioli, questo andrebbe fatto “a livello europeo”. Intanto sarebbe già un risultato notevole arrivare a una strategia nazionale unica.

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