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Substack non è più soltanto newsletter ma un pezzo d'informazione a sé  

Pietro Minto

Fondata nel 2017, oggi l'azienda di San Francisco conta cinque milioni di utenti paganti: numero in drastico aumento anche a causa della nuova Amministrazione Trump, che ha spinto molte persone a rimanere informate. Ma il suo approccio troppo permissivo potrebbe essere un problema

Il sorpasso è avvenuto lo scorso gennaio: per la prima volta il termine “Substack” è stato cercato più spesso su Google di “newsletter”. Un momento simbolico con cui fotografare un settore – quello delle newsletter “d’autore” – alle prese con una crescita continua, al centro della quale c’è proprio Substack, azienda fondata nel 2017 a San Francisco con l’obiettivo di permettere a giornalisti, blogger e autori di mandare newsletter, anche su abbonamento: gli utenti si iscrivono, pagano e ricevono contenuti extra.

Lo scorso marzo Substack ha annunciato di aver raggiunto i cinque milioni di utenti paganti, numero in drastico aumento anche a causa della nuova Amministrazione Trump, che ha spinto molte persone a rimanere informate (già nel 2016 si registrò un fenomeno simile, soprattutto con giornali e tv, il cosiddetto “Trump bump”). Ma non è tutto. Il 2025 sembra un anno di svolta per Substack, che punta sempre di più su funzionalità che con le newsletter hanno poco a che fare, come i video, le videochat e i podcast, con cui gli autori possono arricchire la loro proposta e creare e mantenere una “community” con i loro abbonati.

Substack non è l’unica azienda a offrire un servizio simile. Oltre a Mailchimp, Brevo e MailerLite, che però sono specializzate nelle newsletter pubblicitarie, ci sono TinyLetter (che diede inizio alla rinascita delle newsletter d’autore, finché non fu chiusa dalla stessa Mailchimp), Ghost e Beehiiv. Eppure Substack è l’unica a essere diventata anche un sostantivo, sinonimo del genere stesso. Recentemente, quando il giornalista del New York Times Ezra Klein ha ospitato l’economista Paul Krugman nel suo podcast, ha parlato del “suo Substack”. Avrebbe potuto dire: “La sua newsletter”. E invece no.

E’ anche per questo che sarebbe riduttivo parlare del servizio limitandosi alle newsletter. Prodotti come “The Contrarian” (con più di mezzo milione di iscritti) e “The Free Press” sono ormai testate indipendenti con una redazione, collaboratori e una community che viene aggiornata anche via video. Substack, almeno nel suo racconto di sé, si descrive ancora come il modo migliore per i creator emergenti di guadagnare dal proprio lavoro, ma l’impressione è che a contendersi la fetta principale di abbonamenti sia un gruppo ristretto di personalità. Che poi spesso si rivelano essere giornalisti e blogger dalla lunga carriera o dai toni incendiari, provenienti dai vecchi media mainstream: oltre a Bari Weiss di  “Free Press”, troviamo anche Taylor Lorenz, ma anche lo stesso Krugman, da poco approdato su Substack dal New York Times.

Una parte così importante e dinamica della conversazione politica e culturale, quindi, si è spostata sulle newsletter, ma più precisamente su una piattaforma a parte, un ambiente digitale chiuso che ambisce a coprire tutto, dai video ai social network (c’è anche Substack Notes, un clone di Twitter). Un accentramento simile si è verificato più volte negli ultimi anni, prima sui social network à la Facebook, poi su YouTube e infine su Spotify, per quanto riguarda i podcast. A preoccupare non è tanto questo, quanto l’approccio libertario e permissivo che da sempre caratterizza l’azienda, che non sembra porsi troppi problemi per l’abbondanza di contenuti No vax sulla piattaforma. Contenuti che non solo si diffondono sfruttando le tecnologie di Substack ma grazie a questo servizio vengono monetizzati.

Nel 2022 il Center for Countering Digital Hate calcolò che i No vax facevano circa 2,5 milioni di dollari all’anno grazie a Substack. E visto che Substack si tiene una commissione del 10 per cento su ogni dollaro speso sulla piattaforma, il business interessa pure quest’ultima, che si difende appellandosi alla libertà di espressione. E poi ci sono i nazisti, quelli veri e propri, la cui presenza su Substack fu denunciata dall’Atlantic nel 2023: anche in questo caso, gli abbonamenti sono aperti e l’azienda trattiene il suo 10 per cento. All’epoca ci fu uno scandalo e diversi nomi (tra cui Casey Newton di “Platformer”, seguita newsletter tecnologica) se ne andarono altrove. Perché un altrove c’è, anche se ormai un pezzo di internet, in particolare i suoi utenti più online e politicizzati, sembrano essersene dimenticati, e aver deciso che Substack non è solo un sito ma un pezzo di internet a sé stante.
 

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