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Cose dai nostri schermi

La crisi di Google e il cambiamento a cui sta andando incontro il web

Pietro Minto

Il colosso di Mountain View rischia lo scorporamento dopo due sentenze antitrust che ne sanciscono il monopolio in ricerca e pubblicità online. Intanto, la Silicon Valley è sotto pressione nonostante il ritorno di Trump, tra scontri con l’Unione europea e la crisi del web tradizionale

Nel corso degli ultimi mesi, due tribunali statunitensi hanno emesso due sentenze piuttosto dure nei confronti di Google. L’azienda, infatti, è alle prese con un complesso procedimento di Antitrust iniziato nel 2023 dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e alcuni stati americani, che finora ha sancito il suo monopolio nella ricerca online e, la scorsa settimana, anche nel settore dell’ad tech (le tecnologie con cui vengono vendute e gestite le inserzioni online).

 

Ciò equivale a dire che Google ha il monopolio in due settori fondamentali: la ricerca online, che ha fatto la fortuna iniziale dell’azienda, e le pubblicità online, che da sempre costituiscono la maggior parte delle sue entrate. L’azienda ha già detto di voler fare ricorso in appello per entrambe le sentenze ma nel frattempo il processo continua e uno scenario si avvicina pericolosamente: quello in cui Google viene costretta a scorporare le sue proprietà per continuare a esistere.

Al centro delle attenzioni di tutti c’è Chrome, il browser che l’azienda ha lanciato nel 2008 e da allora è diventato il software più usato per navigare online. Uno strumento amato da milioni di utenti ma anche un tassello essenziale nell’impero di Google, che così controlla direttamente la navigazione degli utenti, raccogliendo informazioni utili per la vendita di spazi pubblicitari. In tutto questo, a complicare ulteriormente le cose, nei giorni scorsi sia OpenAI che Perplexity, due aziende del settore AI, hanno detto di essere interessate ad acquistare Chrome, nel caso in cui venisse messo in vendita.

Non è tutto. La scorsa settimana è iniziato un altro processo che riguarda un gigante tecnologico statunitense, Meta: si tratta di un procedimento di tipo diverso in cui l’azienda rischia di dover cedere WhatsApp o Instagram, sempre per ragioni di monopolio (anche se in molti ritengono che gli argomenti dell’accusa non siano così chiari). Insomma, la Silicon Valley si ritrova alla sbarra, nonostante la fine dell’era Biden e l’inizio di quella Trump, che doveva essere meno rigida della precedente.

Eppure, le foto dall’inaugurazione della seconda presidenza Trump sono ancora impresse nella memoria collettiva. Appena tre mesi fa The Donald tornava alla Casa Bianca con una cerimonia al chiuso, più raccolta delle celebri folle obamiane, in cui proprio ai Ceo delle aziende tecnologiche erano stati riservati i posti più prestigiosi. Erano tutti lì: Mark Zuckerberg di Meta con la moglie, Jeff Bezos e la fidanzata, il Ceo di Google Sundar Pichai, e ovviamente Elon Musk, che si apprestava a diventare parte dell’arredamento dello Studio Ovale con Doge.

Anche chi non c’era fisicamente aveva donato all’Inaugurazione, che ha raccolto circa 239 milioni di dollari (più del doppio del record precedente) grazie agli assegni di molte aziende del settore, tra cui Apple, Micron, Microsoft, Qualcomm e un bel po’ di società crypto. Insomma, l’idea sembrava semplice: donare a Trump e abbandonare le politiche di tipo “DEI” legate all’inclusività per ricevere un trattamento di favore da parte del nuovo presidente.

Ma è davvero così? Ad oggi il bilancio è ancora incerto. Da un lato Trump ha attaccato (anche questa settimana) l’Unione europea, “colpevole” di aver multato Apple e Meta e altre aziende Usa per via del regolamento europeo Digital Markets Act. Dall’altro, rimane, all’interno del movimento trumpiano, una certa antipatia nei confronti della Valley e delle sue radici liberal. In piena campagna elettorale JD Vance, oggi vicepresidente, aveva espresso apprezzamento persino per l’operato di Lina Khan, la presidente della Federal Trade Commission scelta da Biden, forse la persona più temuta e detestata dai Ceo. (Nonostante le lodi di Vance, comunque, oggi Khan non è più la guida della Ftc).

Proprio questa settimana, la Casa Bianca sembra essere tornata a difendere le proprie aziende, anche se forse sarebbe meglio dire che la Casa Bianca ha aperto un nuovo fronte contro l’Ue. In una nota, il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale statunitense Brian Hughes ha usato parole dure e fuori luogo, rendendo evidente come questa battaglia sia più cultura che economica. È la posa che conta, per Trump, e non c’è nulla di meglio di attaccare gli europei e i loro regulators: “La persecuzione malevola da parte dell’Ue di aziende e consumatori americani deve finire. Basta con la spirale regolatoria della morte dell’Ue”, ha detto Hughes.

Basterà un intervento simile a salvare anche Google dal pericolo scorporamento? Oppure l’azienda è alle prese con una crisi di proporzioni diverse, che riguarda il futuro del web, oggi minacciato da piattaforme sempre più chiuse e dal dilagare delle AI. Il web per come lo conoscevamo – e su cui Google ha fondato il suo successo – non esiste più. O meglio, sta tramontando, e non è chiaro da cosa sarà sostituito. E questo, se possibile, è un problema ancora più grande dell’Antitrust.

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