Su Netflix torna “Una mamma per amica”, ma è un revival un po' troppo patetico

Simonetta Sciandivasci

Nove anni dopo le Gilmore Girls sono di nuovo insieme per quattro puntate ma non convincono: luoghi comuni, ipocrisie liberal e poca “tempesta”: un’operazione che c’entra poco con loro e troppo con noi che le aspettavamo.

La sceneggiatura di una puntata di una qualsiasi serie tv non supera mai le cinquanta pagine: per ogni episodio di "Gilmore Girls" (in Italia, "Una mamma per amica"), che durasse quaranta o sessanta minuti, ce ne sono sempre volute più di ottanta. L'azione erano i dialoghi, non quello che succedeva. Effettivamente, non succedeva mai un granché, ma se ne parlava moltissimo e, soprattutto, si parlava di quello che non sarebbe mai successo o di come le cose sarebbero potute andare o di come sarebbe stato bello che andassero o di come erano andate in modo sorprendentemente simile a quel film, quella canzone, quello sceneggiato anni Cinquanta, quel romanzo.  Osiamo una trama: storia molto logorroica di una madre e una figlia che vivono in una eccentrica cittadina nel New England, Stars Hollow. Può non sembrare un capolavoro e, invece, lo è stato. Eccome.

 

Quando andò in onda per la prima volta, negli Stati Uniti, stava finendo il 2000 e mai ci saremmo aspettati che nel nostro immaginario si sarebbero accoccolate per sempre una mamma e una figlia con soli sedici anni di differenza, due bamboline mangione, pasticcione, chiacchierone, secchione e conservatrici senza sembrarlo, come il lato più bizzarro del punkrock.

 

L'umanità aveva scampato il millennium bug, l'invasione dei cyborg, l'apocalisse, l'odissea nello spazio e quelle due ragazze, di tutto questo, non avevano assorbito niente. Non volevano nemmeno la tv a schermo piatto per non rinunciare al telecomando con diciannove tasti diciannove! Sette stagioni più avanti, nel 2007, la loro epopea si concluse con un finale aperto, quello dei romanzi migliori che poi s'innestano nella vita di chi li legge. Oggi sono tornate.

"Tutto questo è stato possibile grazie a voi e al vostro amore", ha scritto su Twitter Scott Patterson (nella serie, il granitico Luke Danes). Vero: in questi nove anni di silenzio, Amy Sherman Palladino, ideatrice della serie che coscrisse insieme al marito Daniel Palladino (dopo quel capolavoro di "Pappa e Ciccia"), è stata implorata fino allo stalking di ricominciare le riprese e tornare a far parlare le Gilmore. E così nove anni più tardi, a un mese esatto da Natale, nella giornata internazionale della violenza contro le donne, Netflix ha iniziato a trasmettere la miniserie "Una mamma per amica - di nuovo insieme", annunciata qualche mese fa nel tripudio di milioni di donne in tutto il mondo.

 

Quattro puntate da un'ora e mezza l'una (si chiamano "inverno, primavera, estate, autunno": a chi conosce profondamente l'infelicità sarà subito venuto in mente quel film coreano di Kim Ki Duk che si chiamava "Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera" assai di moda nel 2003 e dintorni, il periodaccio in cui il pianeta si affezionò alla cinematografia asiatica) che la piattaforma ha rilasciato a una mezzanotte americana (le nove del mattino, in Italia), inaugurando una maratona internazionale che promette numeri da capogiro. L'evento era stato annunciato mesi fa, facendo salire il cuore negli occhi alle ragazze della fascia più attempata della generazione millennial. E subito tutte sotto coi test per rinfrescare la memoria, le serate revival, i caffè americani, il cheddar sulla pizza, la riscoperta dell'imprinting, le gif, le tifoserie (#teamjess, #teamlogan, #teamchristopher, #teamluke), dimmi quale uomo vuoi accanto a Lorelai e ti dirò chi sei, dimmi quale uomo vuoi accanto a Rory e ti dirò perché lo sei, hai letto Dorothy Parker, hai letto Joad Didion, cantiamo Cindy Lauper, le Bangles, Carole King.

 

Lorelai resta incinta del fidanzatino Cristopher e dà alla luce Rory a sedici anni, stravolgendo i piani dei suoi genitori, Emily e Richard Gilmore, ricchissimi alto-borghesi che per lei avevano in serbo da sempre il pacchetto debutto in società, laurea a Yale, matrimonio altolocato. E invece, tutto in malora: a scombinare il più borghese dei piani, arriva la nascita di una bambina, l'intoppo più conservatore di tutti. Cristopher vorrebbe sposare Lorelai, ma lei partorisce e scappa di casa. Arriva in una locanda a Stars Hollow e chiede aiuto alla proprietaria: lì resta, viene assunta e arriva a dirigere tutta la baracca. A Stars Hollow tutti amano entrambe e se ne prendono cura, Taylor, il sindaco taccagno; Luke, il misoneista della tavola calda; Miss Patti, l'insegnante di ballo ninfomane; Sookie, la chef svampita e il marito Jackson, agricoltore che quando lei resta incinta, circola con la spilletta "non ditemi il sesso di mio figlio"; Michel, il concierge snob che non mangia carboidrati; Kirk, lo svitato mammone; Babette, la vicina di casa animista che parla coi nani da giardino; Lane, la migliore amica di Rory, aspirante rock star e figlia di una coreana fervente avventista della chiesa del settimo giorno, quindi costretta a vivere di sotterfugi. Ai suoi genitori non chiede mai un soldo fino a quando Rory non viene ammessa alla Chilton, una scuola superiore prestigiosa e costosissima. I nonni accettano di finanziare gli studi a patto che le ragazze vadano a cena da loro una volta a settimana, il venerdì. Lorelai avrà un bel po' di amori prima di arrivare a capire che l'uomo della sua vita è Luke, quello che le prepara il caffè e che le ricorda che la carne rossa può uccidere e che indossa sempre una camicia di flanella a quadri e un cappellino da baseball al contrario e che per lei c'è sempre senza mai timbrare il cartellino.

 

Rory filerà liscia dalla Chilton a Yale alla carriera giornalistica (inizierà col seguire la campagna elettorale di Barack Obama nel 2008) e avrà tre grandi amori, uno noioso, uno tormentato, uno perfetto. La ragazza madre scombinata, appassionata di pop rock, fughe dalla finestra, caffeina e sveglie pelose che non suonano mai quando dovrebbero, alleva una assennata e avvenente intellettuale destinata al New Yorker.

Elizabeth Wurstel, Grace Metalious, Doroty Parker, Rebecca Wells, Gogol, Eco, Melville: trecentotrentanove libri per centocinquantasette episodi. Rory non fa un passo senza un libro tra le mani, in borsa, tra i trucchi, tra lei e qualcuno, tra lei e una promessa, tra lei e un'intuizione, tra lei e una scelta, tra lei e un errore.

"Reading is sexy" è scritto su una sua t-shirt giallo canarino. E lo ha scritto anche Jonathan Franzen in "Come stare soli". Con i libri, Rory si avvicina alle persone e alla vita, s'aggrazia e fa qualcosa di inaudito per un sapientone: si ridimensiona. A volte, la sua modestia è persino insopportabile. Quando Lorelai la trova addormentata sul tavolo della cucina, la notte prima di un test su Shakespeare, si siede accanto a lei, mette la testa sul tavolo accanto alla sua e le si addormenta vicino. Per questo e perché si scambiano vestiti e smalti, mangiano schifezze sul divano e discutono di uomini, beffeggiano le etichette di cui sono fedeli osservanti i nonni, guardano lo show di Donna Reed (la casalinga più amata d'America negli anni Cinquanta), ridono delle stesse cose e parlano sempre come se nell'orecchio avessero un auricolare collegato a Woody Allen, a molti è parso naturale che "Gilmore Girls" venisse intitolato "Una mamma per amica". Ma Rory non diventa mai amica di sua madre, né avviene mai il contrario.

 

"Sei sicura che le noccioline non crescano sugli alberi?", "Fidati, mi sono laureata". Lorelai, che è molto più severa, rigorosa e cocciuta di quanto non sembri, esercita costantemente Rory al senso di realtà e come eserciziario usa il suo più grande pregio, che però l'ha fregata per tutta la vita: il suo particolare senso per l'irrealtà, la sua mitomania, la sua inventiva accecante.

Per questo, Rory riesce a fare tutto quello che sua madre ha sempre detestato (e anche a farle capire che ribellarvisi contro con tanta pervicacia non era poi così necessario): andare al ballo di debutto in società, a giocare a golf con il nonno, a farsi idolatrare dalle figlie della rivoluzione americana che bevono il tè con sua nonna, a essere a suo agio in una comunità piccola e bigotta e a passare da lì a New York senza nessun trauma, amata e rispettata da tutti e sempre.

 

Nel trailer delle nuove puntate c'è Emily, la nonna che cambiava governante in ogni puntata, la spericolata, intransigente, impeccabile, apocalittica snob, svestita del tailleur con cui l'abbiamo vista, per sette anni, fare qualunque cosa, persino toast alla banana per sua figlia bloccata a letto dal colpo della strega e orrendamente vestita con una t-shirt. Emily in t-shirt, un nefasto presagio di quello che sono i nuovi quattro episodi: un revival un po' patetico che c'entra poco, pochissimo con le Gilmore e molto, moltissimo con noi, con quello che volevamo diventassero e, forse, con la lezione pulita e lineare che finalmente volevamo ci impartissero. Rory è un'insopportabile radical chic indaffarata dalla crisi dei giornali. Luke è un paparino addolcito e stolidamente orgoglioso. Emily  non solo indossa t-shirt ma va pure dall'analista (una volta aveva detto, splendidamente: "noi non abbiamo bisogno degli psicologi: ci vanno le persone malate, disturbate, individui dalla personalità multipla che sentono parlare i cani e vagano in preda al delirio litigando coi parchimetri"). E Lorelai è una mamma per amica: stavolta sono riusciti a renderla un personaggio risolto, mentre lei era tempesta.

Stefania Carini, critica televisiva, ha scritto oggi su Twitter che il finale della serie (le famose ultime quattro parole, su cui si è favoleggiato per anni) dimostra la sua ipocrisia nel fingersi liberal. Lo spoiler è bandito ma, al netto della sceneggiatura brillante ed esilarante come sempre, è impossibile darle torto.

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