Tranquilli, se le canzoni di Sanremo vi sembravano brutte dopo le cover di ieri le rivaluterete
Scelte prevedibili e brutte quelle della terza serata. Vince Ermal Meta con "Amara terra mia" mentre continua il ciclo "50 sfumature di Fertility Day"
Come ogni anno, dopo le prime due puntate pensiamo che le canzoni di Sanremo siano brutte. Poi arriva la terza serata, quella delle cover, e iniziamo a rivalutarle. Delle cover sanremesi colpiscono quasi sempre due cose: la bruttezza degli arrangiamenti e la prevedibilità delle scelte. Mai una Fiorella Mannoia in una versione triste del “Gioca jouer”, mai un Gigi D’Alessio che neomelodizza “La locomotiva”, una Giusy Ferreri in “M'hanno carcerato e mamma more” reaggeton. Nel girone delle cover De Gregori batte quasi sempre Battisti. Quest’anno ce ne siamo inflitti due. Fiorella Mannoia portava “Sempre e per sempre” cantata come un pezzo di Kurt Weil in un Brecht di Strehler, Fabrizio Moro ha califanizzato “La leva calcistica del ‘68”.
Presentato la prima sera da Carlo Conti come un erede di Pasolini (“canta il degrado e le periferie romane”), Moro è della nutrita squadra “meno voce hanno, più urlano”. Un urlatore mancato di “Amici”, perché non si è figli di Maria se non si grida a squarciagola con la vena sul collo e le pupille ferine, secondo il modello imposto da Emma Marrone e ripreso qui da Elodie, ovvero cosa sarebbe Rihanna se fosse nata all’Eur. Almeno va sul sicuro e sceglie “Quando finisce un amore” di Cocciante. Nel frattempo, Michele Zarrillo fa a pezzi “Se tu non torni” di Miguel Bosé trasformandola lentamente nell’inno della Lazio, e una dietro l’altra sfilano la versione “corso Como” di “Susanna” (Francesco Gabbai), un imbarazzante “Mille bolle blu” in coreografia “Disney” (Lodovica Comello) e infine Sylvestre, l’anima soul del Festival che riesce a perdere il tempo sul finale di “Vorrei la pelle nera”, tanto per smentire quella storia del ritmo nel sangue.
Si salvano Marco Masini, Gigi D’Alessio, Paola Turci. Masini aggiorna lo Zeitgeist di “Minchia Signor Tenente” dall’Italia delle stragi alle auto blu della kasta. Gigi D’Alessio vola nell’“Immensità” con assolo di pianoforte à la Valentin Liberace. Stacca tutti Paola Turci, elegantissima, anche se quest’anno si vince facile, con una riuscita versione di “Un’emozione da poco”, nonostante l’orchestra dia il massimo per rovinare l’arrangiamento originale. Vince il premio cover Ermal Meta. Porta un pezzo da un concept album di Modugno del ’71, a metà tra Gramsci, De Filippo e Enrica Bonaccorti che firmava il testo di “Amara terra mia”. Un’elegia della terra d’infanzia, costruita su un antico canto abruzzese e impreziosita da Ermal Meta con una paraculosa dedica ai terremotati del centro Italia.
Momento imbarazzante della puntata di ieri, l’incomprensibile apparizione di Anoucka Delon e Annabelle Belmondo, forse lì a ricordarci che la genetica non è una scienza esatta oppure oscuro complotto di Maria per farci cambiare canale e mettere “Interstellar” su Canale 5. Per l’inesauribile ciclo “cinquanta sfumature di “Fertility day” è stata la volta di Maria Pollici, ostetrica novantenne con settemila bambini alle spalle.
Carlo Conti tiene botta. Maria De Filippi ha l’aria di essersi già stufata. Crozza passa da Renzi a Mattarella a Papa Francesco. In teoria, dovrebbe finire qui. Ieri se l’è presa contro la dittatura della nostalgia, da “I migliori anni” di Carlo Conti a Platone. Lo smontaggio di tutti i “si stava meglio quando si stava peggio” ci troverebbe anche d’accordo, ma Crozza lo propone nell’unico luogo che ci smentisce. Come sosteneva Berselli, “a dire che ogni anno il Festival è peggio dell’anno prima si fa la figura dei babbioni che rimpiangono il tempo andato. Però è vero, ogni anno è peggio”.
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