Perché ci piacciono così tanto i "super-non-eroi" di Legion
L'ideatore della serie tv in onda su Fox, Noah Hawley, promette al pubblico di farlo uscire letteralmente di testa per calarsi fino in fondo in un mondo di emarginati dai super-poteri inconsapevoli
Noah Hawley è un uomo molto occupato. Ecco un elenco parziale dei suoi ultimi impegni: ha scritto il quinto romanzo, il bestseller Prima di cadere (Einaudi), lavorato alla terza stagione di Fargo (Fx, Sky Atlantic), sta preparando il suo debutto cinematografico (Man Alive), adattando Ghiaccio Nove di Kurt Vonnegut per una serie, ha passato notti a guardare cartoni per addormentare i due figli e ha trovato il tempo di creare una serie tv che sta già facendo parlare di sé per quanto originale e innovativa: Legion, trasmessa su Fox.
Più hai successo, più diventi potente. E dopo Fargo, Hawley può permettersi una certa libertà produttiva che per anni gli era stata preclusa. La stessa che ha Shonda Rhimes, da anni catalizzatrice di ascolti con Scandal e Grey’s Anatomy. Quest'ultima è un’eccezione nella lista di nomi che appartengono alla nicchia di quella che un tempo si chiamava quality tv, e che oggi gli americani chiamano prestige tv, cioè la televisione che ti fa fare bella figura a cena. Parliamo di Damon Lindelof (Leftovers), Nic Pizzolatto (True Detective) Vince Gilligan (Breaking Bad). Quelli della tv via cavo, quelli che possono fregarsene degli ascolti e abbandonarsi a creatività, innovazione, artisticità. Hawley è uno di loro.
Ma non è sempre stato così. Hawley, 49 anni, è troppo vecchio per essere Lena Dunham e non ha i numeri per aspirare a essere un J.J. Abrams. Ha passato anni a scrivere per film minori e serie tv trascurabili (Bones) e oggi che Hollywood finalmente si fida di lui è diventato bulimico. Non riesce a dire di no a un progetto e finisce per accettarli tutti. L’ultimo è Legion, supereroe schizofrenico con poteri di telecinesi (nell’universo Marvel è imparentato con Charles Xavier, suo padre). Parte del lavoro di Hawley è convincere tutti che ogni suo nuovo progetto sarà un successo, che andrà tutto bene, e che anche se è una cosa diversa funzionerà.
“Something new needs to happen soon”, dice David alla sorella in visita all’ospedale psichiatrico. David Haller è un supereroe anomalo: è rinchiuso in un ospedale psichiatrico dall’adolescenza, cioè da quando tutti lo hanno convinto che quelle voci che lui solo sente (le sue personalità multiple) sono il motivo per cui è pericoloso per sé e gli altri. Nell’ospedale incontra Syd Barrett, una ragazza con fobie da contatto (anch’essa mutante: il suo potere è di trasferirsi nel corpo di chi la tocca), che diventa la sua fidanzata in una relazione tutta mentale (i due non si possono toccare e girano per l’ospedale tenendosi per un drappo), insieme fuggono dall’ospedale che è in realtà (o no?) una struttura governativa per studiare i poteri di David, e raggiungono un luogo sicuro capitanato da Melanie Bird, terapista per mutanti. Se vogliono sopravvivere liberi devono continuare a nascondersi.
L’intero pilot è psichedelico, confuso, straniante. I riferimenti dichiarati sono a Lynch, Kubrick, Sorrentino; ma abbiamo riconosciuto l’umorismo vonneguttiano, l’atmosfera e la geometricità di Wes Anderson, e il Michel Gondry nell’accoppiata con Charlie Kaufman nelle scene di psicosi. A Vanity Fair, Hawley ha detto: "Ho sempre pensato che la struttura della storia dovesse riflettere il suo contenuto. Se la storia, come in questo caso, è su un ragazzo con disordini mentali o abilità telecinetiche, e che non sa se ciò che vede è reale o no, anche il pubblico deve vivere la stessa esperienza". Ci è riuscito, a giudicare dal numero di discussioni aperte su Reddit a commento della serie per rimettere in ordine i pezzi.
I supereroi non sono mai solo supereroi. Sono sempre stati prima di tutto orfani, disadattati, emarginati a metafora sociale per razzismo, omofobia o totalitarismo (il paragone diretto è quello con gli X-Man che lottano contro l’oppressione degli umani che non accettano la loro diversità). Jessica Jones, stalking; Luke in the Cage/brutalità della polizia sui neri; Daredevil; handicap fisico e così via.
Queste tre sono tutte Netflix, la cui comune idea produttiva autoriale pare essere "non disturbare lo spettatore mentre è al cellulare": gli eventi sono molto rarefatti e appartengono a quel sotto-genere estetico che qualcuno chiama slow tv. A Netflix pensano che sia positivo il lesinare elementi per tenere interessato lo spettatore, perché con il binge watching, cioè il consumo compulsivo, i produttori si aspettano che voi arriviate all’ottava puntata stremati e finalmente appagati quando accade qualcosa. Per molti funziona.
Fortunatamente Fox ha meno sprezzo dello spettatore e Hawley fa tutto l’opposto: ci dà un pilot così denso di materiale visivo da stordirci, e poi promette di spiegare tutto in seguito. Esattamente l’opposto di quando lavorava per la tv in chiaro e gli chiedevano continuamente di spiegare fino alla nausea ogni scena; secondo il Time la visione perturbante e inafferrabile di Hawley è il futuro della tv. In Legion lo spazio temporale è frammentato, non sappiamo se tutto ciò che vediamo è reale o è immaginato da David, la narrazione è inaffidabile proprio quanto in OA (Netflix, una donna scomparsa ritorna a casa dopo anni ma mostra segni di squilibrio mentale) ma non c’è un solo minuto in cui manchi qualcosa da guardare sullo schermo. Il supereroe è anti-convenzionale perché non è neppure un eroe, è solo super: incapace di usare i suoi poteri, anzi non è neppure sicuro di averli, come può essere d’aiuto al mondo? E si può veramente fidare della terapista che lo libera dall’ospedale psichiatrico Clockworks Psychiatric Hospital? Quale è il futuro di David?
A queste domande come a molte altre, Hawley promette che se ci abbandoniamo alle immagini la trama arriverà dopo. Ci fidiamo perché abbiamo visto Fargo. Per ora una certezza, siamo già pazzi di Legion.
Politicamente corretto e panettone