C'e' Fiorello e Fiorello. Uno (Beppe) fa l'engagé, l'altro per fortuna no
Scemeggiati Rai. Dalla Terra dei fuochi al dramma dei migranti
E può anche darsi che non sia nemmeno tutta colpa sua, ma della Rai, che nella modernità in cui la televisione di Netflix eguaglia (e talvolta supera) il cinema, quasi mai sceneggia ma più spesso scemeggia, cioè banalizza e dunque finisce con il satireggiare anche gli argomenti che vorrebbe elevare ad apologo. Ma dopo aver visto la fiction di RaiUno “I fantasmi di Portopalo”, che segue la fiction sulla Terra dei fuochi, quella su Borsellino e persino quella su Salvo D’Acquisto, non si può che salutare la definitiva consacrazione di un astro inarrivabile della contemporanea luogocomunite italiana, cioè Beppe Fiorello, attore, sceneggiatore, cantante, e fratello minore di quell’altro Fiorello (Rosario) che gli assomiglia fisicamente eppure è il suo opposto. E quanto infatti il minore recita il ruolo un po’ ieratico e impegnato persino fuori dalle scene e nelle interviste – e allora ecco i delitti e i poveracci, le faccende storiche finite prima in ingiustizia e poi nel dimenticatoio, che producono il meglio della buona indignazione – tanto il maggiore è maestro di comicità senza retorica e senza sopracciò didattico.
E dunque uno rifiuta le lauree honoris causa perché non ha lezioni da impartire a nessuno, ma cazzeggia e incarna persino fisicamente la leggerezza – che è innanzitutto questione di cervello e d’ironia – mentre l’altro smentisce l’idea che l’arte dell’intrattenimento si nutra di paradossi e di contropeli, e dice sempre quasi tutte le cose giuste per piacere e (quasi) nessuna per dispiacere: “Prendo spunto da storie vere, come quella successa il giorno di Natale del 1996 a sud della Sicilia, a Portopalo. Sono di Augusta, vivo spesso quei luoghi. Con questa fiction voglio riportare a galla sogni e speranze dei trecento migranti rimasti in fondo al mare quel giorno”. E la sua fiction, che dovrebbe essere una storia di dramma e di pentimento, di delitto e di castigo morale, di carità tra vinti, di conflitto tra povertà, di pescatori che a Portopalo trovano cadaveri di poveri migranti nelle reti ma tacciono e ributtano i corpi in mare per non interrompere la pesca, diventa la sagra dei buoni e mal recitati sentimenti. Un filtro che depura la ferinità della vita e, più in generale, gli avvenimenti animati dal conflitto e dalla complessità, rimandandone immagini esemplari, dunque taroccate.
Uno sceneggiato che volendo forse riperticare i fasti della tivù educativa di Ettore Bernabei – cioè dell’uomo che con grande senso della realtà si rivolgeva agli intellettuali che ingaggiava dicendo loro: “Tieni sempre presente che noi dobbiamo fare dei programmi per quelli che scendono dagli alberi” – finisce invece con il degradarli all’esercizio più facile di un buon senso che senza sfumature e senza tormenti, e senza nemmeno il cinismo didattico di Bernabei, diventa senso comune, cioè ovvio ribollito. Con l’aggravante dell’impegno civile, della pedagogia rassicurante e a buon mercato, un tanto al chilo. Quando invece anche l’impegno, come grammatica di civiltà, avrebbe assoluto bisogno di provocazioni e di imprevedibilità, le stesse di Fiorello – l’altro Fiorello – quello che con i paradossi e i giochi di parole, con l’impegno del disimpegno, è stato capace di dare schiaffi al buon senso, di celiare sugli ostacoli della censura e della par condicio, come quando alla radio Rai mischiò la campagna elettorale con l’emergenza rifiuti a Napoli, e dunque ridendo inventò degli slogan degni di Ionesco, “quando vi arriva il certificato elettorale stracciatelo e buttatelo per strada”. E allora c’è il disimpegno, l’impegno, ma anche la parodia dell’impegno. “La Sicilia sta dimostrando un’umanità immensa, che rimarrà nei libri di scuola. Sono fiero di essere siciliano”, ha spiegato Beppe Fiorello a Massimo Giletti, con la perfetta costruzione grammaticale di quel senso comune che l’altra sera su RaiUno ha totalizzato la bellezza di 6,5 milioni di spettatori.