Una settimana da talk
Che mondo ci raccontano i talk-show? E cosa vogliono dimostrare i nuovi conduttori delle coscienze? Siamo stati sette giorni inchiodati davanti alla tv per studiare l’Italia che esce dai salotti televisivi. Inchiesta su un’egemonia: il format unico della sottomissione anti casta
I talk italiani si chiamano “La Gabbia”, “Piazza pulita”, “Matrix”, “Virus”. Prima si chiamavano “Anno zero”, “Sciuscià”, “Ballarò”, “Le invasioni barbariche”. C’è sempre questo sentimento di incombenza, l’Apocalisse che preme alle porte, l’invasione degli ultracorpi e insieme la celebrazione della gente, il sentimento popolare, il paese reale o neorealista. I talk sono tanti, anzi tantissimi. Gli esperti di media la chiamano “l’anomalia italiana”. Un flusso esorbitante di politica che scorre nel palinsesto della nostra tv, insinuandosi in tutti i format e annichilendo ogni confronto con altri paesi. Altrove, la telepolitica è limitata a programmi di taglio informativo. In America i talk vanno la domenica mattina oppure sulla tv a pagamento e durano un’ora. Da noi sono in chiaro, distribuiti su tutto l’arco della giornata, per tutti i giorni della settimana, e possono sfiorare le quattro ore. Per anni ci hanno spiegato l’anomalia delle tv di Berlusconi in politica sorvolando sulla foga con cui la politica ha sempre occupato le televisioni, dalle lottizzazioni all’overdose di talk e dibattiti spalmati su tutte le reti pubbliche e private. Oggi perdono ascolti, eppure non diminuiscono. I talk si trasformano ma restano una rappresentazione plastica delle isterie della politica italiana e dei suoi principi di fondo. Uno psicodramma collettivo dove mettere in scena proiezioni, desideri, indignazioni, scissioni. Un unico, mastodontico reality che celebra il nostro sconfinato amore per la paralisi e la tattica politica insieme al comune, risoluto disprezzo per l’azione. La passione per la piazza, la “voce della gente” e la lontananza dalla casta. I talk raccontano la madre di tutte le finzioni, quella della sovrapposizione tra paese reale e telespettatori che, come ricordava Aldo Grasso, è ancora oggi un pregiudizio duro a morire. Passata la sbornia dei beati anni del bipolarismo – vero nutrimento drammaturgico del talk-show – passati gli “Sciuscià”, gli “Anno Zero”, i “Ballarò”, resta da chiedersi che cosa raccontino dell’Italia di oggi, nell’èra della post verità, della post televisione, del post Pd. Ci abbiamo provato con una pesca a strascico nel vasto mare dei talk, inchiodandoci davanti alla tv per tutta la settimana centrale di febbraio. La settimana della scissione infinita, dei venticinque anni di Tangentopoli, delle rivolte dei tassisti, dello stadio della Roma. “Il pubblico è stanco dei talk-show, vuole il varietà”, titolava nel 1993 l’Espresso, riportando i dati di un sondaggio sui gusti degli spettatori. Ma i nostri talk sono “il” varietà. Di gran lunga il migliore che abbiamo.
Martedì 14
Ore 21.10, La7, a pochi passi dalla scissione del Pd. Orfano di Crozza, Floris apre con la copertina di Michele Emiliano. Il presidente della Puglia traccia il profilo di un partito che “riparte dal basso”, un partito fatto “dalla gente”, vicino “alla gente” che “parla chiaro alla gente”. Un partito che viene a patti col M5s. La scenografia di “DiMartedì” è strutturata sul modello del teatro elisabettiano ma soprattutto identica a quella di “Macao”, incompreso talk sperimentale di metà anni Novanta ideato da Gianni Boncompagni e condotto da Alba Parietti, poi sostituita nella seconda stagione da un robot. Unica differenza, le enormi cassette della frutta dove siedono gli ospiti. “Scenografia beckettiana”, diceva Aldo Grasso descrivendo i fondali di “Milano, Italia” di Gad Lerner, andato in onda dal 1992 al ’94, come sequel ideale di “Profondo nord”, talk che segna l’irruzione delle casse di legno al posto delle poltrone o degli sgabelli per gli ospiti. Un ribaltamento epocale. La rappresentazione plastica del clima di Tangentopoli, con i politici che non venivano più fatti “accomodare” ma esposti alla gogna televisiva. La cassa di legno come anticamera dell’inginocchiamento sui ceci, mentre la “società civile” di Lerner sedeva comodamente in platea, nel teatro di Palazzo Litta in corso Magenta. Le casse di legno divennero una moda, sconfinando dai talk ai ristoranti macrobiotici del centro, cedendo poi il passo alle sperimentazioni dell’ultimo, crepuscolare Santoro (“quest’anno ho preso in prestito da Pina Bausch l’immagine delle sedie ribaltate sulla scena per frantumare il salotto televisivo e provare a cambiare il ritmo della narrazione”, spiegava presentando “Servizio pubblico”), poi si sono riviste nelle scenografie di “Italia”, con sopra Gad Lerner che lanciava “Islam, Italia”. Seduto sulla cassetta della frutta, Michele Emiliano spiega l’antirenzismo. La regia svela Travaglio e Alessandra Moretti in piedi nel backstage come i cantanti di “X Factor”. “Ricordo a memoria i nomi dei miei insegnanti grazie alla scuola pubblica, sono loro ad avermi spiegato la bellezza della cultura italiana, sono diventato magistrato già a scuola, quando mi hanno spiegato la differenza tra bene e male”. Applausi in studio, brividi a casa. Una delle peculiarità della trasmissione di Floris è il ritmo forsennato con cui il pubblico applaude. Più o meno ogni minuto e mezzo, come le “laugh track” delle sit americane degli anni Settanta. Anche Emiliano parla tra un applauso e l’altro.
Il format unico dell’anti politica
Le “ore drammatiche” della scissione del Pd, il “partito del vitalizio” e sotto i tweet che teleguidano, il tassista che accusa: “Servi dee lobby”. Come si costruisce il grillismo in tv
Più marca le distanze da Renzi più le frasi gli escono a forma di tweet rilanciati all’istante dal suo account: “Il Pd deve tornare a occuparsi di quelli che non contano niente”; “voglio avere rispetto delle ragioni dei cinque stelle”; “sugli insegnanti bisogna agire con umanità”, “il Pd è quasi tutto fuori dal Pd”. Poi lo struggimento: “Negli anni Settanta leggevo il giornale ai compagni analfabeti”. Emiliano come il formidabile, peraltro somigliante Mario Carotenuto, professore marxista che indottrinava alla lotta di classe i baraccati dello “Scopone scientifico” di Comencini per fregare i soldi alla vecchia. Entra Travaglio. “Emiliano mi ricorda il Renzi degli inizi, ma chi ci garantisce che poi non si imborghesisce?” Non c’è tempo di approfondire. Dice Belpietro che “l’Europa sta per essere invasa dai populismi e noi parliamo del Pd”, Massimo Giannini sfodera la metafora dei lemming che si suicidano in massa, Floris si incupisce. Parte un servizio. C’è Prodi che cammina di fretta sotto i portici di Bologna, “ho passato tutta la mia vita a mettere assieme i riformisti, i cattolici e i progressisti… bisogna andare a votare a tempo dovuto”. Pubblicità.
All’improvviso, la fica. Così. “DiMartedì” diventa una parata di tette e culi in guêpière nelle più trucide luxury spa degli alberghi romani, tra frustini, collarini, piume di struzzo, mascherine da gangbang amatoriale. Ci si mette un po’ a capire che è un servizio sui pacchetti per San Valentino, prima che tutto sfumi su un primo piano sgomento di Piero Badaloni. Risatine tra gli ospiti, applausi. Floris li lascia fare perché ha in serbo un servizio sulle cartelle di Equitalia che stronca la ricreazione sul nascere. Contatori del gas, maxi conguagli. Inviate carucce che piombano in casa della signora Maria e del signor Giovanni, si piazzano in cucina, leggono bollette e lettere dell’Inps. Floris si trasforma nella Gabanelli, Floris diventa Luciano Onder. Dopo i conguagli, i rischi degli stuzzichini fuori pasto, le controindicazioni della scarpetta, le regole dello scongelamento perfetto. Dibattito aperto. E’ il momento della Dottoressa Meo, la Roberta Bruzzone del nutrizionismo, molto bionda, molto spinta da Floris. Lo sporco è ovunque. Lo racconta un servizio su germi e tracce organiche che bivaccano tra le tastiere dei bancomat. Dagli esami in laboratorio emergono tracce di saliva umana. Metafora portentosa della crisi. E’ il fetish nell’epoca del neoliberismo selvaggio.
Mercoledì 15
“Gli ascolti si costruiscono con il tempo, con un prodotto autorevole e un linguaggio semplice, accessibile a tutti”, dice Myrta Merlino commentando il successo del suo talk, “L’aria che tira”, che arriva a portarsi a casa uno strabiliante 11,4 per cento di share. Perché? Difficile a dirsi. E’ la fascia oraria delle casalinghe, degli esodati, dei cassaintegrati, dei “Not in Education, Employment or Training”. Merlino rassicura. “Racconta e analizza l’economia e la politica più vicina alla vita di tutti i giorni”. Un filo di esuberanza napoletana, tinte pastello, poltrone rosse di pelle per gli ospiti e ritmo, anzi “mambo italiano”. Forse il vero asso nella manica delle infinite mattinate politiche di La7 è “l’angolo delle previsioni” di Paolo Sottocorona, meteorologo, divulgatore, artista della digressione pura, capace di passare dalle perturbazioni di Pasquetta al consumo consapevole dell’abbacchio e conquistarsi il titolo di “icona veg” sui social. A “L’aria che tira” sono le 11.50. Siamo a un passo dalla scissione del Pd. “Io sono molto colpita dall’acrimonia umana di questo partito”, dice Merlino portandosi le mani sul petto. Ci sono Nicola Latorre, Alessandro Sallusti, Francesco Verderami, il “vertice notturno per evitare la scissione”, le “ore drammatiche che stiamo vivendo”, le “lacrime”. “Lei piangerebbe per il Pd?” chiede un po’ a tutti Merlino prima che entri il ministro Orlando sulle note di Cocciante, “era già tutto previsto, anche l’uomo che sceglievi”. “Orlando, lei ha usato il termine conferenza programmatica e questo, come diceva Sorgi, fa capire lo spessore della sua cultura politica che è quella di un vero comunista”. Applausi. Orlando declina, Merlino rilancia, “qui c’è diversa gente comunista”.
Ore 21.05. Scissione sempre più vicina. Gianluigi Paragone, giornalista antisistema, leader della band “Gli Skassakasta” e conduttore della “Gabbia” ci viene incontro in consueta giacca grigia e camicia bianca: “Questa sera protagonista sarà la politica”. Non ce lo saremmo mai aspettato. Paragone si muove in uno studio asettico, tra enormi parallelepipedi bianchi con echi di sci-fi anni Settanta à la “Planet of the Apes”. Il pubblico è molto giovane, la grafica della copertina forma un’Europa che si sgretola come una lastra di vetro per poi franare sull’euro. Rotta l’Europa di vetro, ecco il faccione gigante di Di Battista in collegamento. E’ il momento dello stadio della “maggica”. Però ci vuole pure quello della Lazio al Flaminio, come dice Dibba, perché ormai “ci siamo messi contro dei poteri importanti” e allora famone due, no uno. Paragone manda immagini prese dall’agitprop grillino, col “FALSO!” sopra i giornali e il “VERO!” sulla chat di Virginia. In basso iniziano a scorrere i tweet, hashtag #gabbiaopen. Uno spettatore si chiede: “Lo stadio non sarà una colata di cemento nel senso che sarà prefabbricato?” Paragone incalza: “Vi sentite un bersaglio? Il partito del vitalizio riuscirà a farcela anche stavolta?”. Dibba la prende alla larga. Parte una raffica di “bancocrazia”, “Mps”, “Deutsche Bank”, “il torneo di tennis di Orbetello”, “la nostra sovranità monetaria”, mentre Paragone lancia un servizio su “la bella vita dei manager coi soldi dei risparmiatori”. Dibba inarrestabile, Dibba a braccio, Dibba che dice “Iùnicredi”, “Ròsscìld”, “scìttadini”. Nessuno lo ferma. La gabbia è open. “Qui il problema sono queste categorie ottoscièntesche di destra e sinistra che io la votavo la sinistra ma adesso non sanno più capire il disaggio esistenziale dei scìttadini”. Applausi, ovazioni. In basso, sfilano tweet antikasta incuranti dei ricambo del parterre, da Belpietro a Pierluigi Diaco, da Minoli a Crepet. Senza capire come e perché scivoliamo nei laboratori della facoltà di Ingegneria della Federico II di Napoli dove “si sperimentano i robot che faranno la pizza”. “Ogni pizza ha un’anima”, dice il servizio, “ogni pizza è unica”. Come faremo? Proviamo con una lettura storicista di Massimo Cacciari in collegamento da Venezia. “Queste sono trasformazioni colossali, ma erano già alle origini delle teorie economiche classiche, il punto è che la ricchezza dei robot deve essere ridistribuita equamente”. Vabbè, ma intanto qui si perdono posti. “No, non è vero”, dice Cacciari, “qui si guadagna tempo… non bisogna sentirsi disperati se non si lavora, occorre liberarci da questa etica del lavoro a tutti i costi, io per esempio mi riempio la vita leggendo dalla mattina alla sera anche se nessuno mi paga”. E qui capite bene che non c’è replica. Solo lo spazio per immaginarlo da solo, in penombra, con la vestaglia di raso, sprofondato negli “Inni e frammenti” di Hölderlin. Sotto la magnifica barba ermeneutica di Cacciari sfila un tweet triste, solitario y final: “Queste cose la sinistra le diceva negli anni Settanta”.
Gianluigi Paragone
Giovedì 16
“’Sti cazzi der Milleproroghe”. Al primo giorno del sit-in a Montecitorio, Myrta Merlino scova l’icona della protesta anti Uber. In collegamento dalla piazza c’è Cesare, tassista romano, piumino e i rayban scuri, capello lungo alla Totti stagione 2000-2001, anelloni heavy-metal tra le dita. In studio, Simona Malpezzi del Pd. La scena è da manuale: si dice “farsi interprete del malessere della piazza” si legge “come si costruisce il grillismo in televisione”. Cesare infatti non vorrebbe parlare, “non voglio casca’ naa trappola dei giornalisti”, dice. Cesare va via. Ha fatto sua la lezione di Popper e Bourdieu sulla “cattiva maestra”. Come i grillini prima maniera quando Grillo non dava il permesso di andare in tv. Ma la tv insiste, lo prega e alla fine lui si concede: “Nun rappresentate più laggente! Siete abbusivi! Il partito vostro nun po’ governa’, ve ne dovete annàaa’”.
Più santoriano del maestro, Formigli insiste sullo scollamento tra Pd e “gente comune”. Pancani inchiodato sui tassisti: “Politica sconnessa dal mondo reale”. Zoro, o indignarsi giocando. Giletti e l’arringa “Orgoglio & Vitalizio”. E “Porta a porta”? Nel vasto mare dei talk, sembra un faro di civiltà
Formidabile Simona Malpezzi nei panni della crisi rovinosa delle élite che replica a colpi di fioretto contro i bazooka: “Ti riconosco una grande onestà intellettuale perché sei spontaneo”. Dare a Cesare quel che è di Cesare. Mentre lui la sommerge di “servi dee lobby”, “nun state cor popolo”, “co ’sta storia daa concorrenza avete massacrato er lavoro”. La piazza s’incazza, la scissione è vicina.
Ore 20.10, Rai Tre. Zoro in motorino raggiunge il sit-in dei tassisti. “Gazebo” contro Uber da sempre, anche perché nel team c’è Mirko Matteucci, tassinaro amico di Zoro, in arte “Missouri 4”, berretto e barba alla Fidel. Si conobbero a uno sciopero dei tassisti contro il governo Monti; “Lo vidi lì in mezzo a noi, ebbi un attimo di euforia, ci andai a scherzare. Lui fu molto carino e mi chiese subito il numero di telefono”. Oggi è il loro anniversario.
Ore 20.42, La7, in studio da Lilli Gruber a “Otto e mezzo”, ormai praticamente un pied-à-terre di Paolo Mieli. La scissione è alle porte. Gruber glitterata in insostenibile corpetto d’argento tipo i “Rockets”. “Cosa volete da Renzi?”. Risponde Roberto Speranza. Speranza snocciola “perimetri”, “valori”, “idee”, “percorsi condivisi”, “insegnanti deportati”, “trivelle”, “popolo della sinistra”. D’accordo, ma “come si parla al popolo? Chi è il popolo?” domanda Carofiglio. Mieli si annoia. Ma è il momento di “Piazza pulita”. “Un titolo dal potere evocativo enorme”, spiegava anni fa Corrado Formigli. “Mi è venuto in mente pensando a piazza Tahrir al Cairo, dove la gente dormiva per terra circondata dai carrarmati. Trasportato da noi il titolo richiama una nuova pulizia morale… ci muoveremo in un’arena popolata da un pubblico enorme che farà irrompere la realtà nel programma”. Più santoriano del suo maestro che ha sfidato, superato negli ascolti e derubato di tre inviati, Formigli racconta la politica in maniche di camicia con approfondimenti sulla protesta sociale messi a punto tra Ponte Milvio e Capalbio. “Gli italiani pretendono risposte: è il momento della verità”. Inizio in penombra, musica minacciosa, gigantografie di Renzi e D’Alema. Formigli insiste sullo scollamento tra Pd e “gente comune”. Dà la parola a Delrio perché, dice, “i treni sono un po’ la metafora del paese”. Servizio tra la gente, anzi tra la “base scissionista”. Psicodramma e orgoglio comunista. “Io avevo la tessera del Pci”; “Renzi è un ambizioso, dice solo io, io, io. E noi?”. Formigli va al cuore del problema: “Esiste l’odio nel Pd”? Rispondono Marco Damilano e Alessandro Sallusti. Poi tocca a Salvini. Tema: i risparmiatori di Vicenza. “Vorrei vedere qualche banchiere in galera”. Salvini tira fuori un libro, “Oltre l’euro. Per tornare grandi”, a cura dell’Enf, prefazione di Salvini. Rimane così, muto e immobile, mostrando la copertina verso la telecamera, come quando Costanzo lanciava i libri e Giucas Casella ipnotizzava gli ospiti, come Andreotti nell’intervista di Paola Perego. Salvini studia per diventare un “meme”. Esce dal trance solo per chiedere al pubblico, “ma insomma, mi risparmiavate di più con la liretta o con l’euro?”. Studio in coro: “Con la liraaa”. Salvini euforico si paragona a Galileo. Dal suo account parte il tweet: “Sostenere che #Euro sia una moneta giusta è come sostenere che il sole giri intorno alla terra”.
Venerdì 17
Sono le 9 del mattino, c’è Michele Emiliano in collegamento a “Omnibus”, La7. “La liberalizzazione provoca conflitti”; “le lobby vogliono far fuori i piccoli”; “i tassisti sono gli uomini politici più intelligenti d’Italia perché parlano con la gente”. Già superata a sinistra l’“onestà intellettuale di Cesare” a “L’Aria che tira”. Emiliano ha la soluzione e la soluzione è “uscire dal renzismo”. L’ha detto anche Vendola in un videoforum su Repubblica.it: “Alleanze che rappresentino complicità con la cultura liberista non sono possibili e il virus della complicità ce l’ha il renzismo”. Psicodramma Pd anche ad “Agorà” con Corradino Minneo e il sindaco di Firenze Nardella, mentre “Coffee Break” di Andrea Pancani resta inchiodato sui tassisti: “La politica è sconnessa dal paese reale”. Tutti d’accordo. Mai uno che per sbaglio, timidamente, avanzi l’ipotesi di un paese reale sconnesso dal mondo. Il tassista ha sempre ragione. L’ambulante non ne parliamo.
“Stasera torniamo alla politica con il Partito democratico”, dice Bianca Berlinguer aprendo la puntata di “Carta Bianca”, Rai Tre, anzi #cartabianca con l’hashtag perché il format è nuovo. Sono le 18.42. Scissione vicinissima. “Perché Renzi non ha fatto neanche una telefonata?”. Parola a Nicola Zingaretti: “Il mondo si ricorda Kennedy e Kruscev ma nessuno si ricorda chi ha chiamato prima chi”. A “Carta Bianca” si rivede finalmente la destra, quella vera. Parte un lungo blob di repertorio che inizia col duce e finisce con Gasparri, passando per la svolta di Fiuggi, Almirante, i figli della lupa, le case di Fini. Francesco Storace rivendica i successi di Brexit, Trump e il referendum di dicembre. In quota “irriverenza e simpatia” c’è Gabriele Corsi del Trio Medusa che gioca con Gasparri. Si sbadiglia parecchio. Quanto ci manca il bipolarismo con i buoni e i cattivi. Quanto ci mancano gli Storace di una volta che alla richiesta, “dica qualcosa di destra”, rispondevano fulminei, “a frocio”. Siamo orfani del berlusconismo più spietato. Ma “Gazebo Social news” ci riporta sempre ai migliori anni del dandinismo, come fossimo a fine anni Novanta ma con Twitter e Facebook. Orchestra fricchettona, Zoro in t-shirt con le scritte e i jeans sdruciti come quelli di Stefano Bettarini, ma qui ovviamente stanno per “engagement”, “base”, “ragazzo di strada”. Soprattutto, ironia & impegno. Zoro con la lavagna digitale come un “maestro Manzi” dei social. Non è mai troppo tardi per indignarsi giocando. Per molti è venerdì sera, ma a Rai Tre è il momento di squarciare l’ipocrisia e le quinte dell’Ariston e raccontare un’altra Sanremo, quella delle tratte dei migranti tra la Francia e Ventimiglia. Zoro monta in macchina, prende l’Aurelia. Raggiungiamo il “sentiero della morte” mentre in sottofondo suona “Salirò” di Daniele Silvestri. Come con le diapositive dei viaggi in Kenya, Zoro spiega allo studio il video che ha realizzato mentre noi altri borghesi pensavamo al Festival. “Da qui scappavano antifascisti, ebrei in fuga da Hitler, minatori, lavoratori siciliani. Oggi ci passano gli africani, questa cosa dovrebbe farci riflettere”. Ci sta bene uno stacchetto reggae.
Sabato 18, domenica 19
Sabato una breve sosta, lungo riscaldamento prepartita e ansia della vigilia. A “Coffee break” rispolverano la terra dei fuochi. “L’aria che tira” manda il “diario”. Un “the best of” dei servizi delle ultime settimane. “Michele suicida precario”, “L’altra faccia del nord est”, “Erchie assenteista”, poi un magnifico reportage che racconta la nascita di una “lista Trump” a Carrara e le roccaforti della destra americana nella Garfagnana. Del Debbio si tenga pronto. D’altronde, “viviamo una crisi della mediazione, una crisi della rappresentazione”, ci ricorda Ciro Giorgino in gessato da gangster e foulard, seduto nel salottino di Massimo Bernardini a “TvTalk”. Maria Cuffaro rievoca gli anni del “Rosso e il nero”, quando inseguiva i politici della Prima Repubblica per la strada come inviata di Santoro. “Oggi”, dice, “sono i politici che cercano i giornalisti per rilasciare una battuta”.
Ore 20.35. Tocca a Massimo Gramellini. Tra le “parole della settimana” c’è “Unità”. “Pensa che tutto cominciò nel 1921 a Livorno”, osserva Geppi Cucciari di fronte alla grafica “ad albero” con tutte le divisioni e ramificazioni della sinistra. “Otto e mezzo” celebra i “venticinque anni di Tangentopoli”. Split screen con Di Pietro al centro, Pino Corrias e Stefano Zurlo sulle fasce. Zurlo rievoca il “clima di euforia del paese”, i “giudici che si sono fatti prendere la mano”, gli “interrogatori multipli”. Di Pietro come a Norimberga, “ho solo fatto il mio dovere”. Il tempo, com’è noto, aggiusta tutto. Messo a distanza il passato appare migliore di quello che era. Quando in tv tirano fuori i pezzi della Prima ma ormai anche della Seconda Repubblica, rispetto al presente sembrano Churchill o De Gaulle. Succede con tutti, ma non con Di Pietro. Anzi, lui peggiora. Oggi si vede bene che nelle arringhe di Milano c’erano già dentro i congiuntivi acrobatici di Di Maio. Ma non è più tempo di rievocazioni. E’ la scissione, bellezza. E’ la maratona Mentana. In studio piomba Enrico Lucci bolscevico coi baffoni à la Stalin. Mentana non gradisce la “bagaglinata” e gli fa togliere i baffi. Applauditissimo l’intervento di Walter anche ispirato al Gramellini della sera prima, quello della tisana, da non confondere con quello del “Caffè” al Corriere. Walter presto in dvd con l’Espresso, collana “La bella politica”. Altro che citazioni dai “Blues Brothers” di Renzi. Marco Damilano in collegamento a La7 lo definisce “una lezione di discorso politico contro quelli che a malapena chiudono un tweet”. La lettera aperta di Walter ai compagni che se ne vogliono andare scalda i cuori. Intanto, Mentana conia un formidabile “le chiacchiere anche se alte stanno a zero” da incidere sulle pareti di tutti i congressi. La scissione si fa, la scissione non si fa. La scissione è in tv. Scissionisti da Mentana, scissionisti da Lucia Annunziata. Bersani parla solo a Rai Tre. E’ un segno. Ma di cosa? Marco Damilano sfodera “l’ombra di D’Alema”. Se la scissione è un reality (e lo è) Marco Damilano è l’Alfonso Signorini del Pd. Tocca a Franceschini. Mentana lo annuncia come un calcio di rigore ai supplementari di una semifinale: “O apre al congresso col suo intervento oppure è chiusa qui”. Invece, c’è sempre una terza via à la Blair. Franceschini parla della “trasversalità dei populismi”, della scissione che avvantaggia “le destre”. Quindi? Boh. Michele Emiliano apre a Renzi, Massimo Giletti apre a Grillo. Entrando all’“Arena”, sfodera l’arringa “Orgoglio & Vitalizio”, “li abbiamo stanati tutti e ora vi sveliamo quanto percepiscono al mese”. Nel frattempo a Rai Tre, va in onda “affinità-divergenze tra il compagno Cuperlo e noi”. Ospite da Annunziata, il direttore di questo giornale gli domanda se è tentato di uscire oppure no. “Guardi Cerasa, è chiaro che noi siamo di fronte al venir meno delle ragioni dello stare assieme… la sinistra è una comunità di senso, di destino, può avere un andamento carsico”. “Andamento carsico” è bello. Non l’aveva osato neanche Walter. “Lei oggi sembra veramente triste”, osserva Annunziata. Certo il look non aiuta. Cuperlo come Jacques Brel in dolce vita. Poi, passato da Mentana, Cuperlo esistenzialista con sciarpa grigia à la Sartre. Infine, Cuperlo in mantella nera à la Nosferatu fuori dal Parco dei Principi. I tre look di Cuperlo unico indizio per capire l’assemblea del Pd. Cuperlo come Groucho Marx: “Ho trascorso una splendida domenica”, dice da Lucia Annunziata, “ma non era questa”. Siamo tutti Cuperlo. Siamo sfiniti. C’è ancora tempo per Andrea Orlando da Minoli. Parte la sigla di Mixer, “scoperto-da-Bersani-lanciato-da-Fassino-cameriere-lavapiatti-oggi-uomo-chiave-per-risolvere-i-problemi-del-Pd”. Minoli secco: “Orlando furioso o Orlando placato?”; “Sono un Orlando preoccupato”, dice il Ministro. Come una madeleine della memoria collettiva, la scenografia di Mixer innesca la nostalgia per un discorso interrotto tanti anni fa, quando “mio padre mi portò ai funerali di Berlinguer”, dice Orlando, perché “è dagli anni Ottanta che a sinistra non facciamo un’analisi del mondo”.
Lunedì 20
La scissione è passata e noi non ce ne siamo neanche accorti. Ore 8.05, “Omnibus”, La7. Dopo una settimana di prime, seconde, e terze fasce del Pd, Gaia Tortora si gioca i pulcini. Tommaso Sasso di “Consenso”, Marco Pierini, capogruppo a Montespertoli, meno di 40 anni in due. Un “Tale e quale” junior per il risveglio dopo la scissione. Pierini è identico a Renzi, parla come Renzi, ha lo stesso maglione di Renzi. L’altro è un giovanissimo D’Alema senza baffi. Nei titoli dei servizi torna la “cosa rossa”. Interrogativi sulla stretta di mano di Renzi-Emiliano e lo sguardo mefitico di Orfini. Emiliano si è scisso da solo? Parola a Marco Damilano, Mario Lavia, Nicola Fratoianni e Achille Occhetto, che ormai veste come Berlusconi, in giacca e t-shirt. “Questa non una scissione, è una conflagrazione, finisce un campo magnetico”. Segniamo “campo magnetico” dopo “andamento carsico”. Parte l’amarcord della Bolognina, Damilano gongola. I “due congressi”, i “nostri compagni”. Rivediamo il Veltroni del Lingotto nel 2007. Walter a colori accanto a Kennedy in bianco e nero. Walter con Gandhi. Walter col muro di Berlino che frana. Walter inarrivabile Forrest Gump del comunismo. Damilano a chiudere: “Renzi è un leader che ha lacerato l’Italia”.
Ore 9.50, “Coffe break”. Chiara Geloni indaga sui misteri dell’autoscissione di Emiliano ma abbiamo ancora pochi elementi. Ore 20.41: Finalmente a “Otto e mezzo” un attesissimo, agognato punto di vista dall’estero: Severgnini in collegamento con la sagoma di Westminster alla spalle ci spiega la strategia: “Dite agli elettori che è un momento così e uscitene fuori, spiegate a Renzi che non è il momento di fare il bulletto perché invecchiamo tutti e la gente non capisce, la gente è stanca”. Niente. Anche a Londra si giocano “la gente”. Meno male che c’è il “punto di Paolo Pagliaro”. Analogie con l’avventura di Corbin e la scissione di Oskar Lafontaine. “L’esempio di Corbin deve incoraggiare Emiliano, Rossi e Speranza”, dice Severgnini. Mentre lui scrive gli editoriali per il NY Times, noi facciamo la rivoluzione socialista. Nel frattempo, a “Quinta Colonna” è un giorno come tanti. La scissione non esiste. La scissione è Roma. Da Paolo Del Debbio le consuete “barricate contro gli immigrati”, il paesello schierato in piazza coi cartelli e le scritti col pennarello, le urla stridule di Mario Giordano, “gli italiani gli pagano gli alberghiiii”.
Ore 21,42. “Presa diretta”, Rai Tre. Ancora Cuperlo. Ancora in nero, a luci basse, sullo sgabello, uno chansonnier solo, contro tutte le “nuove destre”. “Ho grande rispetto per la sperimentazione di Grillo, e ho detto ieri richiamando l’immagine del gorgo richiamata a suo tempo da Ingrao che rimango se restano le ragioni che ci hanno fatto nascere”. Sipario.
Martedì 21
Scissione a freddo. A “L’aria che tira”, Myrta Merlino sfodera la copertina del “Lungo addio” di Chandler, edizioni Feltrinelli. Poi di nuovo la piazza anti Uber. Di nuovo Cesare, vestito come cinque giorni fa. “Sto Milleproroghe nun l’ha voluto er popoloooo”. Stipati sotto i cartelli “No Bolkestein”, anche gli ambulanti reclamano il loro spazio: “Siamo l’orgoglio italiano ma non parlate mai di noi”. Dopo un inseguimento durato tutta la settimana, come capita nei thriller migliori, alla fine il regolamento di conti. La piazza contro la sede del Pd. Cariche della polizia, scontri, bombe carta, tirapugni. Li racconta in diretta nel primo pomeriggio Tiziana Panella a “Tagadà”. Li spiega Zoro a “Gazebo” in serata, separando al fermoimmagine i fascisti dai tassisti, i tassisti dagli ambulanti, gli ambulanti dai forconi e lasciandoci addosso una sconfinata voglia di Uber e Margaret Thatcher. La scissione c’è stata, la scissione non c’è stata, la scissione è adesso. Nel dubbio, Bianca Berlinguer passa in prima serata. Carta bianca, scintillante vestito rosso e cubi di plexiglass. Le cassette della frutta sono un ricordo lontano. E’ l’ora della trasparenza. Daria Bignardi lo definisce un “nuovo esperimento”, perché “quello del formato breve e del volto nuovo”, cioè “Politcs” di Semprini, “non è riuscito”. Allora torniamo all’antica. Volto di nomenklatura per riprenderci la base e tre ore e mezzo di talk fiume. Sfilano Michele Placido, Fiorella Mannoia, Maurizio Landini. Ci riprendiamo tutto quello che è nostro. Preceduto dall’ombra di D’Alema, entra in studio un raggiante Massimo D’Alema. “Non sono andato all’assemblea perché avevo il raffreddore”. “L’elemento di divisione è Renzi. Se Renzi viene rimosso, il centrosinistra tornerà a essere unito”. Scissione in tv. Bersani da Floris, D’Alema da Berlinguer, Renzi in California. La novità di “Carta Bianca” in prime time è “l’analisi del sentiment”. Analisi “in tempo reale” dell’indice di gradimento delle affermazioni del politico ospite da Berlinguer. “Così capiremo se davvero la comunicazione in tv ha il potere di influenzare o modificare le opinioni dei telespettatori". Ovvero, vent’anni di antiberlusconismo rinnegati e scaraventati via dalla finestra. Il “sentiment” di Luigi Di Maio arriva al 57 per cento. Apoteosi del consenso quando dice “il movimento ha superato la distinzione tra destra e sinistra”. Ha convinto gli spettatori “emotivamente”, dice Berlinguer. D’Alema fermo al 41 per cento. Intanto da Floris i servizi dalla “base”. Un tormentato déjà vu dei giorni della “Cosa” di Nanni Moretti. La base dice “tornare a essere minoranza per non vergognarsi”. Bersani indica nel #ciaone di Renzi l’inammissibile punto di non ritorno. “Ci vuole umiltà”. Per capire la crisi europea, la perdita dei diritti, lo sfruttamento del capitale, Floris ci porta a mignotte nel centro di Atene. Di là, Berlinguer si gioca Landini sui voucher. “La politica è bellissima, bisogna amarla”, dice Benigni fermato al volante dall’inviata di Floris; “è la nostra anima civile, civica. Una persona che non si occupa di politica è una persona superflua”. Eliminiamole tutte. Avremo più politica anche in tv. Michele Emiliano sempre più scisso si vede a “Matrix” e “Porta a porta”. Bruno Vespa gli impartisce lezioni di establishment e gli ricorda la zavorra che si porta dietro il suo partito ogni volta che prova a rendere scuola e università più vicine al mondo del lavoro, incapace di liberarsi della “cultura del comunismo, del mito del ’68 e dell’egualitarismo”. Il lettore che ha avuto la pazienza e l’ardire di seguirci sin qui avrà notato che non abbiamo parlato di Vespa. Ma è solo perché nel vasto mare dei talk-show, ormai sempre più anticasta, antisistema, grillinizzati nei formati come nei contenuti, “Porta a porta” ci sembra un faro di civiltà. Resistere, resistere, resistere.