Fare grande comicità senza travestirsi da capipopolo. Elogio di Edoardo Ferrario
Perché va applaudito il comico romano e la sua generazione in rivolta contro i venerati maestri
Si fa un po’ fatica a crederlo eppure esiste davvero: un comico giovane, veloce, disciplinato, educato, non moralizzatore, non politicizzato, senza velleità pedagogiche che riesce a far sorridere ventenni e trentenni senza rutti, senza vaffanculo, senza tic populisti, senza imitare i Razzi o gli Scilipoti, senza travestirsi da Maurizio Crozza, senza giocare a fare il Beppe Grillo ma limitandosi, e ti pare poco, a mettere in scena o in video imitazioni alla Corrado Guzzanti, monologhi alla Riccardo Rossi, sketch alla Carlo Verdone. Si fa un po’ di fatica a crederlo eppure Edoardo Ferrario, classe 1987, esiste davvero.
Il grande pubblico ha cominciato a conoscerlo prima su La7 con Sabina Guzzanti (nessuno è perfetto) e ora su Rai 3 con “Quelli che il Calcio” ma la sua formazione è più legata alla rete, alle web serie, alle stand up comedy teatrali, e non è un caso che chiunque vada a vedere un suo spettacolo a teatro rimanga impressionato da un dato non secondario: la platea.
Siamo andati a vedere lunedì sera a Roma Ferrario, al bellissimo Teatro Vittoria, e abbiamo visto, oltre che un comico geniale e non solo promettente, anche un pubblico sorprendente, difficile da incrociare in un qualsiasi teatro italiano: decine di liceali, centinaia di universitari, diversi trentenni. Molti di questi, compreso chi scrive, hanno scoperto Ferrario sulla rete, su YouTube, tra un’imitazione di Matthew McConaughey in “True Detective” e una web serie sugli esami universitari, e l’età media del pubblico in sala al Vittoria smentisce molti luoghi comuni sui trentenni e i ventenni non disposti a pagare per vedere quello che potrebbero tranquillamente scaricare gratis dalla rete.
Stupidaggini: se il prodotto è buono, se crea dipendenza, se crea una sua nicchia, anche chi ha vent’anni è disposto a pagare 16 euro per andare a teatro a vedere sketch simili a quelli che potrebbe scaricare dalla rete. Ma oltre all’estetica del pubblico, c’è qualcosa di più importante che riguarda i contenuti messi in scena che rendono il comico romano anomalo, con un profilo unico Ferrario rappresenta bene una serie di fasi vissute da chiunque faccia parte della generazione nata negli anni Ottanta – improbabili viaggi di studio a Malta, disgrazie in campeggio, disavventure coi voli low cost, avvento del car sharing vissuto come se fosse l’invenzione di una nuova penicillina – ma lo fa aggiungendo un passaggio in più che lo rende lontano dai tic del politicamente corretto che tendono a trasformare velocemente una brillante promessa, come diceva Berselli, in un solito stronzo. Il tocco di Ferrario è tutto in un passaggio del suo spettacolo dedicato a un soporifero ex garante della privacy di nome Stefano Rodotà (tà-tà), che anni fa, come ricordato con uno sketch da lacrime agli occhi, veniva pomposamente invitato nei licei romani provocando svenimenti di gioia da parte dei docenti e urla di dolore da parte di studenti increduli (ah professo’, che palle) che si ritrovano lì di fronte a loro un simpatico trombone che con lo stile agile di un mammut denunciava l’orrore di un universo senza più privacy, senza capire che la generazione a cui parlava (ah professo’!) era pronta a trasformare un pezzo della propria privacy in una moneta da usare per connettersi con tutto il mondo.
In questo senso, Ferrario è uno zeitgeist generazionale che dimostra che per far sorridere non bisogna trasformarsi in capipopolo e che testimonia una cosa semplice che vale per la comicità e forse non solo: si possono intercettare giovani senza doversi necessariamente travestirsi da Beppe Grillo o Dario Fo. Una volta finita la lagna sulle donne dell’est, forse anche la Rai dovrebbe aprire gli occhi e scommettere su ragazzi che sanno portare a teatro trentenni e ventenni senza giocare con le fregnacce tipiche dei soliti stronzetti che passano la vita a rincorrere inutilmente i venerati maestri.