Netflix e gli altri. Perché la tv on demand può essere la prossima bolla
La prima regola per rivoluzionare il mercato è creare il mito. Fatto. Adesso però servono numeri e titoli. Dubbi sulla sostenibilità di un prodotto sempre più diffuso
La prima regola per rivoluzionare il mercato è creare il mito. Per una disruption servono un garage o un ufficio in California (tipo a Scotts Valley), un’idea a cui il mondo ancora non crede (lo streaming on demand), un’amicizia tra partner carismatici e innovatori (quella tra Reed Hastings e Marc Randolph) e degli antagonisti più forti contro cui rivaleggiare (da Amazon a Disney). E soprattutto qualcuno che racconti questa storia in comunicati stampa, interviste, articoli che servono a rafforzare la leggenda e mai a metterla in discussione (i giornalisti andranno benissimo). La nostra sospensione di incredulità, unita alla smania di progresso e alla tendenza a sentirci uomini contemporanei con tutto ciò che ci viene propinato come rivoluzione tecnologica, e quindi giusta, ci condurrà dove siamo oggi.
Un breve recap. La storia di Netflix inizia nel 1997 nella Silicon Valley: l’idea iniziale è di inviare dvd per posta (un po’ quel che dovrebbero fare gli autori di certe serie e film di nicchia che ci piacciono tanto ma che non guarda nessun altro). Nel 2007 il business si amplia puntando sullo streaming e sull’economia dell’accesso: si comprano molti contenuti dalle major che approfittano del nuovo canale di distribuzione per smerciare prodotti che non riescono più a vendere in tempi di crisi del noleggio audiovisivo e del declino nelle sale cinematografiche; le major vendono i diritti per lo streaming a prezzi vantaggiosi, senza bene rendersi conto del loro valore. Anche perché in quel momento Netflix non aveva ancora inventato il binge watching, internet era più lento, la rivoluzione della visione domestica era agli inizi.
Passano gli anni e il mercato cresce, cambia, si rinnova. Accanto a Netflix appaiono Hulu, Amazon, YouTube che inizia a vendere attraverso Google Play, i broadcaster attivano servizi on demand. E i diritti sui contenuti vanno ricontrattati, il prezzo sale. Tanto che lo scorso giugno il Magazine del New York Times ha pubblicato un lungo articolo che si interrogava fin dal titolo sulle sorti della piattaforma: “Netflix può sopravvivere nel nuovo mondo che ha creato?”. Di solito queste domande cadono nel silenzio, subito messe a tacere da una retorica commerciale che vuole Netflix come il numero uno, il futuro televisivo, il posto migliore in cui lavorare, i salvatori della nostra già scarsa vita sociale che ci hanno dato una buona scusa per non uscire più di casa. E così via.
Dopo essersi presa il merito di aver seppellito Blockbuster, Netflix ha sfidato anche le tv via cavo, annunciandone prematuramente la morte. La televisione però non è morta, anche se noi amiamo ripetercelo. Il noi sta per Noi-che-viviamo-nella-filter-bubble mediatico culturale fighetta, noi che a “Un medico in famiglia” preferiamo gli stand up comedy di Louis C.K. o aspettiamo la nuova stagione di “House of Cards”, lo show con cui Netflix ha scelto di essere HBO nel 2013 e ha preso il sentiero della prestige television, puntando su prodotti culturalmente accettabili. Noi che, l’avrete capito, tralasciamo sempre gli show di massa come NCIS o le sit com con le risate pre-registrate preferendo serie di nicchia ma con penetrazione culturale negli show giusti, cioè quelli che guardiamo noi: i late, i video virali su YouTube, le parodie intelligenti.
C’è più offerta che pubblico Mai prima d’ora ci siamo ritrovati con un’offerta d’intrattenimento così abbondante, in termini giornalistici e industriali circola la definizione di peak tv, che tradotto fa: c’è più offerta che pubblico. Il che è un bene per noi ma è un costo esorbitante per Hollywood e la Silicon Valley. In un video diffuso da Bloomberg lo scorso ottobre dal titolo evocativo “Binge Watch now before Netflix Bubble Burst”, si annunciavano 500 sceneggiature per il 2017 tra broadcast, via cavo e servizi streaming; circa il doppio rispetto al 2010. La prima domanda è: chi mai li guarderà tutti? Ma il problema dello spettatore vacante è secondario (tanti freelance, tanti studenti, tanti creativi pronti a scriverne su Facebook esattamente come si instagrammavano con l’Apple o bevendo il caffè di Starbucks, o come si fotografano i libri che leggono: i prodotti culturali sono identitari) rispetto al chiedersi se è sostenibile. Sei delle principali aziende dell’intrattenimento spendono complessivamente 26 miliardi di dollari per produrre o comprare tv show e film. Chi spende di più è Netflix che “può essere il maggior beneficiario o la principale vittima della peak tv”. Netflix è passata dai 3 miliardi e 4 spesi per produrre o comprare contenuti nel 2014 ai 6 miliardi spesi per il 2017.
La scommessa di Netflix è che la televisione on demand sostituirà del tutto quella lineare. Tuttavia, in assenza di dati chiari che per loro policy non vengono forniti, viene naturale chiedersi se questa enorme spesa possa essere sostenibile su lungo periodo. L’azienda è quotata in borsa e a Wall Street è considerata una piattaforma tecnologica e non di contenuti, in modo da essere valutata più di Sony. Alcuni analisti sconsigliano gli investitori di comprare azioni Netflix perché il mercato sta raggiungendo la saturazione, gli abbonamenti crescono lentamente, la competizione aumenta e i costi anche.
In Netflix pensano che la cosa peggiore sia dire che hai mostrato il prodotto a un gruppo d’ascolto e lo hanno apprezzato. Amano ripetere che i dati d’ascolto non valgono nulla, sono un retaggio del passato, roba buona solo per network mantenuti dagli inserzionisti pubblicitari. Il Chief Content Officer di Netflix, Ted Sarandos, avverte: “Per chi come noi punta sull’aumento delle sottoscrizioni, non sulla pubblicità, la performance di uno show non ha alcuna rilevanza”. Così facendo ha protetto il prodotto dalla risposta alla prima domanda (“C’è qualcuno che effettivamente guarda quello che state producendo?”) ma non dalla seconda (“I soldi basteranno?”). Gli analisti più scettici fanno notare che la fortuna iniziale di Netflix è stata pagare a basso prezzo i diritti tv e rimanere sul mercato per i primi anni in totale solitudine. Ma oggi non è più così. Molti iniziano a pensarla come David Zaslav di Discovery Communication: “I servizi delle piattaforme di streaming on demand esistono solo perché noi produciamo contenuti. Stiamo sostenendo un modello economico che non ha senso”.
Secondo Luca Barra, ricercatore dell’Università di Bologna e autore di “Palinsesto. Storia e tecnica della programmazione televisiva” (Laterza), il problema c’è: “In Italia Netflix è soprattutto una bolla comunicativa-culturale. Spende molti soldi e con successo per comprare, produrre e, tassello fondamentale, promuovere contenuti, ma poi per ragioni di diritti disponibili e di reali investimenti offre un catalogo discretamente limitato (se paragonato ai competitor come Now Tv o Infinity, forti degli accordi fatti da Sky e Mediaset) a un pubblico, almeno al momento, pregiato ma dalle dimensioni ridotte (e comunque ancora ben lontano dai 7 milioni di abbonati annunciati come obiettivo durante il lancio italiano…)”.
La bolla sta per scoppiare? “Netflix è muscolare perché deve dimostrare che la disruption funziona davvero, ma ci perde un mucchio di soldi e spreca quintali di prodotto. Tutti sembrano concordi nel ripetere che il palinsesto è morto e il futuro è non lineare. Ma lo si ripete da decenni. Al contrario, il modello tradizionale di broadcasting risponde a bisogni che l’on demand non può soddisfare: comunità, sincronizzazione sociale, i generi diversi da film e serie tv, il vedere qualcosa tanto per vedere qualcosa come fa chiunque dopo una giornata di lavoro. L’on demand è per natura complementare, supplementare”. Netflix è la nuova HBO, ma Amazon è la nuova Netflix? “Amazon è diversa da Netflix, ha gli studios e la tecnologia. Il suo core business è farti avere ciò che desideri nei tempi più veloci possibili, e almeno per ora offre ai suoi abbonati Prime, allo stesso prezzo, in più, anche le serie e i film. E’ un player da tenere d’occhio”, dice Barra.
La centralità della tv generalista Oggi Netflix produce serie tv data-driven (cioè è vero che ama ripetere che i dati non servono a nulla, ma a loro servono eccome: traccia il comportamento degli utenti e usa le metriche per sapere cosa suggerirti nella logica della personalizzazione dell’interfaccia o per decidere cosa produrre minimizzando i flop) che rimestano nell’immaginario pop nostalgico anni Ottanta come “Stranger Things” (la serie più stephenkinghiana di sempre), e anni Duemila come “Gilmore Girls”, che sono l’esito di un’analisi dei dati degli iscritti (se mi accorgo che c’è un pubblico consistente per “Una mamma per amica” investo per produrre una nuova stagione) ma, sostiene Barra, “è anche l’evidenza della persistenza nell’immaginario condiviso di una centralità della televisione generalista, che negli anni ha forgiato quel tipo di gusto, visioni, esperienze e riferimenti culturali”.
Ci permettiamo di toccare marginalmente anche un altro punto secondario, che in un’analisi del mercato industriale e degli scenari futuri non dovrebbe contare poi molto, ma in fondo ci sta a cuore: le serie prodotte da Netflix che inseguono la prestige television non sono così entusiasmanti quanto lo è la promozione commerciale che le accompagna. «In assenza di dati, generare hype è l’unica cosa che conta», ci conferma Barra. Quando Ted Sarandos afferma che in giro ci sono molte serie mediocri ammette che anche nel proprio catalogo ci sono, ma subito aggiunge “non è intenzionale!”. Forse parlare dell’aspetto creativo è fuori moda, ma serie come “OA”, “Love” o “Tredici” avranno pure un motivo d’essere dovuto ad analisi metriche sofisticate, ma sono ben lontane dal rappresentare una rivoluzione culturale estetica. Oltre alla bolla comunicativa e alla bolla finanziaria ci tocca pure la bolla creativa.
E’ dal 1993 che si ripete che le serie tv sono come i romanzi per nobilitarne l’aspetto culturale in quanto forma d’intrattenimento legittima. Un problema più per la spendibilità sociale di noi che ne scriviamo che per l’industria. L’intrattenimento culturale si adatta all’epoca in cui si vive. Il timore di Hastings è infatti che i film e la televisione diventino come l’opera o i romanzi, perché ci sono così tante forme d’intrattenimento che un giorno guarderemo le serie tv come relitti storici. “Ma quel giorno potrebbe essere fra cent’anni”. A quel punto, se le cose andranno male, i disruptor della Silicon Valley potranno sempre venire in Italia e chiedere finanziamenti alla Cultura. Anche in quel caso i dati sugli spettatori saranno secondari e Netflix potrà preservare il suo riserbo e tacere sulla diffusione dei dati. Ma con la scusa della qualità.
Politicamente corretto e panettone