Fabio Fazio (foto LaPresse)

“La competenza è un valore, va rispettata e pagata. Non solo in Rai”

Salvatore Merlo

Viale Mazzini, gli stipendi, il poveraccismo e la demagogia. Intervista con Fabio Fazio

Tutti sanno che guadagni un milione e ottocentomila euro l’anno. Ma se ne parla come fosse il mistero di Fatima. Perché non lo dici tu, una volta per tutte, quanto guadagni? “Io non posso dire nulla, anche questa cifra l’hai detta tu. Io sto zitto. Se ne parlo, alla Rai mi rescindono il contratto. Unilateralmente. È previsto in una clausola”, dice, mentre la voce gli si fa un poco incespicante, come un singhiozzo ironico. E insomma del suo stipendio in Italia ne possono parlare tutti. Anzi ne parlano tutti. Deputati ringhianti e cipigliosi membri della Vigilanza, giornalisti col randello e sbrigliati consiglieri d’amministrazione. Tutti ne parlano, tranne lui. Così, bordeggiando il paradosso, Fabio Fazio descrive un’azienda, la sua, la Rai, che per un concorso di circostanze, tutte parimenti straordinarie e in fondo perverse, sopravvive in un bizzarro intreccio d’arabeschi burocratici, di regole e di sottoregole, di contraddizioni e d’impasse, d’ibridazioni e controsensi tra pubblico e privato, tra mercato e servizio pubblico, canone e raccolta pubblicitaria, tutto un intreccio acrobatico che avrebbe forse acceso la fantasia letteraria e surreale di Achille Campanile.

 

Una volta il progresso era il benessere
per tutti, adesso sembra che si voglia ottenere l'uguaglianza impoverendo
tutti in modo uguale

“La Rai è quotata in Borsa. Dunque segue regole di mercato. Però si muove come se fosse una Asl”. E a questo punto il conduttore di “Che tempo che fa” accavalla parole tanto veloci quanto flebili, sussurrate come dentro a un confessionale: “Hai gare d’appalto pure se devi portare in trasmissione una gallina…”. Dice dunque Fabio Fazio: “Non puoi assumere nessuno, se non fai il job posting. Allora fai il job posting, e però arriva Cantone… Ti dicono che dobbiamo rinnovare, cercare nuovi talenti, giovani, e però non puoi far lavorare nessuno che non abbia già lavorato in Rai. Tutto questo è fuori da ogni logica. Com’è fuori logica l’idea di calmierare i compensi degli artisti. È come se il calcio italiano si muovesse d’improvviso con un tetto di spesa per l’ingaggio dei giocatori. Quelli bravi, tempo cinque minuti, se ne andrebbero tutti all’estero. E forse se ne andrebbero anche quelli così così”.

 

E d’altra parte il diavolo, si sa, è soltanto quell’insieme di circostanze, perfettamente intrecciate le une alle altre, le quali concorrono a materializzare una storia diabolica. “Ma io alla Rai sono affezionato”, dice Fazio. “È lo scrigno delle meraviglie, contiene la storia emotiva di questo paese. Ma è uno scrigno chiuso con mille catene. E anziché sciogliere queste catene, come speravo accadesse con la nuova amministrazione, si è arrivati allo stallo totale, ad accarezzare ogni insensatezza. E questo anche perché l’ipotesi di rinnovamento che sembrava aprirsi con la nomina di Antonio Campo Dall’Orto è stata scientificamente bloccata dalla politica”. Pare che a Viale Mazzini adesso stiano preparando due diversi palinsesti, due liste: in una c’è “Che tempo che fa”, assieme a molte altre trasmissioni i cui conduttori hanno il contratto in scadenza (dunque da ricontrattare tra fischi, lazzi, calmieri, tetti e soglie). Mentre nell’altro palinsesto, tutte queste trasmissioni non compaiono più.

 

Sono antipatico
al pubblico? Non credo affatto. Sto antipatico
ai media, perché faccio un lavoro non facilmente classificabile

E dunque Fazio, che non vorrebbe andar via ma non esclude affatto di andarsene (ci sono proposte, pare), si trova nella non invidiabile condizione di dover difendere il proprio stipendio. E difendere il proprio stipendio, che è cosa sacrosanta, di questi tempi è una delle imprese più difficili che ci siano. L’unico stipendio che gli italiani vogliono alto è il proprio, mentre quello degli altri è sempre rubato. “Non si può chiedere né comprensione né adesione da parte della gente. Il tema del denaro è indifendibile. Perché qualunque cifra è troppo alta rispetto a chi non ha lavoro. E perché sono evidentemente uno che nella vita è stato fortunato. Ma comprensione, adesione e razionalità le si devono pretendere da chi invece ha responsabilità dirigenti. Voglio dire che non tutte le scelte possono passare dall’apparato gastrico, dalla pancia. Se io guadagno molto, come altri, guadagno molto perché valgo una determinata cifra all’interno di un mercato aperto e concorrenziale. In un’azienda che vive, sì, con il canone, ma vive molto di pubblicità, ed è quotata in Borsa. Il guadagno è il frutto di lavoro, di fatica, di professionalità, di esperienza e di competenza. E questo non riguarda solo il mio campo, ovviamente, ma la società intera. Ed è per questo che io sono contrario anche al tetto per i manager. La competenza esiste. È un valore, quando c’è. Per un certo periodo si è pensato che il progresso fosse aumentare il benessere e le possibilità di accesso al benessere. Adesso sembra che si voglia ottenere l’uguaglianza impoverendo tutti in modo uguale. Credo che questa un po’ sia la questione del nostro tempo. Ma mi rendo conto che se tutti i valori si rovesciano, se il guadagno è vissuto come emblema dell’ingiustizia e dell’iniquità sociale, e se la competenza non conta quasi nulla, allora il mio discorso è insostenibile”. Uno vale uno.

 

E d’altra parte può darsi che se Fazio andasse via, la Rai risulti capace di creare un altro Fazio, uno bravo, persino più bravo del vecchio Fazio. Ma poi quello, una volta diventato importante e famoso, vorrà anche lui essere pagato bene. E allora che si fa, si ricomincia? Sembra una barzelletta. “Ma quella sullo stipendio, davvero, è una battaglia persa”, dice lui. “Non è quello che mi interessa. Io posso anche andare via dalla Rai. La verità è che mi sono scocciato. Non sono più disponibile a essere adoperato come esempio del male, come quello che prende cose non sue, perché ‘è denaro pubblico’. Non è solo denaro pubblico. È denaro guadagnato”. E poiché le parole hanno il peso che ciascuno decide di attribuire loro, Fazio le ha affilate, con la consapevolezza di chi vuol difendere la propria dignità con un atto di sfida: “Quando la maldicenza ti raggiunge non ti molla più, diventa una parte di te, una tabe che ti porti appresso inconsapevolmente. Quello che io, come altri, guadagniamo, arriva in gran parte con gli inserzionisti pubblicitari che vogliono stare collegati a un preciso programma televisivo. Io proporrei una cosa, allora”. Prego. “Stabiliamo che il compenso si decide in base a quanta pubblicità attira il programma. Mettiamo a cespito i conduttori. E vediamo se gli stipendi non sono congrui…”.

 

L'unico stipendio
che gli italiani vogliono alto è il proprio,
mentre quello degli altri è sempre rubato. "Il tema del denaro è indifendibile"

E a questo punto è impossibile non azzardare un’ipotesi brutale: Fazio è popolare, fa tanti ascolti, ma appartiene al genere d’italiano che Enzo Tortora, parlando di se stesso, definì “antipatico” televisivo. Fazio non è Corrado e non è Enzo Biagi, che erano anche amati, oltre che popolari. Ed è forse anche per questo che è diventato il simbolo, ha facilmente incarnato il profilo del privilegiato superpagato da bruciare in pubblica piazza. Così, quando gli si chiede se, per caso, lui abbia mai avuto l’impressione di essere antipatico al pubblico, malgrado l’indiscutibile popolarità, la sua protesta s’alza in un fiotto di sillabe ugualmente inestricabili tra le quali l’affermazione “godo di un affetto misurabile, di cui sono soddisfatto”, spicca in tono di aperta rivendicazione. “È con i giornali”, dice lui, “è con i media che c’è un rapporto per così dire complicato che credo dipenda da due diverse ragioni: la prima è che non sono un presentatore classico, ma non sono nemmeno un giornalista in senso canonico. Voglio dire che il mio lavoro non è facilmente classificabile, e questo mi espone. In secondo luogo, negli anni, non ho sviluppato strumenti di difesa, intendo dire che non ho frequentazioni di potere. Mi sono sempre difeso soltanto con il prodotto televisivo”. E con una cifra ben precisa, una misura che nemmeno mai ha conosciuto asprezze nei confronti della politica o del potere. Tutto un modo di stare al mondo che può non piacere. “In tutta questa polemica bestiale sui compensi mi sono trovato in mezzo, quando il governo si è espresso contro la regola sul tetto degli stipendi, l’hanno subito chiamata ‘legge Fazio’. E ora mi sento contabilizzato come costo. Ma perché? Perché sono un costo? Il tema è solo uno: bisogna decidere se un’azienda che sta sul mercato può seguire la legge del mercato. Punto”.

 

E la politica non vuole riconoscere che la tivù di stato è in gran parte sostenuta dalla pubblicità? “È più conveniente poterla adoperare, usare come un benefit”. Però ci sono forse anche ragioni persino psicologiche, umane. I politici subiscono lezioni morali impartite dalla mattina alla sera dalla televisione, innumerevoli filippiche, anche molto violente, sui costi dei partiti, sui vitalizi, sugli stipendi… E allora non potendo, e non sapendo difendere i loro emolumenti, travolti e instupiditi dal senso comune, da un’egemonia culturale strapotente, se la prendono con le star delle televisione, con quelli che il populismo lo coccolano via etere: ah! Adesso te la faccio vedere io, ti taglio lo stipendio anche a te!

 

Chi di populismo ferisce di populismo perisce? “L’indignazione facile non può diventare mai coscienza di qualcosa, trasformarsi in periscopio, cogliere la realtà al di sopra del pelo dell’acqua”, dice allora Fazio. “Io trovo francamente ingiusti certi eccessi nella campagna sui costi della politica. Prendiamo i parlamentari, per esempio. È un lavoro fondamentale per la democrazia. E se fatto bene credo sia anche un mestiere faticoso e dispendioso. Lo spreco non è quello: sono le cose che non si fanno, le occasioni perse ... Quando parlo di professionalità, di lavoro, di competenze, non mi riferisco solo a un campo, ma a tutta la società. Compresa la politica, ovviamente”. Che però in Rai è anche la malattia.

 

La politica non riconosce che la tv di stato
è in gran parte sostenuta
dalla pubblicità? “Conviene di più poterla adoperare,
come un benefit”

Quando gli uomini di Forza Italia attaccano la Rai, chiedono il tetto agli stipendi, non c’è inevitabilmente l’ombra del conflitto d’interessi? Le soglie ai compensi non favoriscono la concorrenza? “Favoriscono la concorrenza. Questo è ovvio”, risponde Fazio, ritraendosi subito, però, nella vecchia abitudine alla prudenza: “Ho rispetto delle figure istituzionali. Se un membro della Vigilanza Rai dice quelle cose, o lo pensa davvero o in quel momento lo giudica conveniente e opportuno nel ping pong, nel teatro della politica. Non ci vedo grandi dietrologie. C’è solo un’incredibile sottovalutazione delle conseguenze. Il mio vero rammarico è per la grande occasione mancata di riformare l’azienda in questi ultimi anni”. E allora gli si chiede una previsione. Anzi una confessione, un presentimento, insomma uno sfogo. “Prima o poi il mercato irromperà con prepotenza in Rai, è inevitabile”, dice. “La Rai sarà costretta a cambiare quando tutti si accorgeranno che alle nuove generazioni non gliene importa niente di dove va in onda una cosa, anzi non lo sanno nemmeno. A volte chiedo ai miei figli se conoscono un determinato canale televisivo. Sai che mi rispondono? ‘Boh!’. Non conoscono nemmeno i nomi dei canali. Loro, come tutti i ragazzi cresciuti con internet, vanno a cercare il prodotto. Non il canale. L’utenza sta cambiando, anzi è già cambiata. La Francia ha venduto un canale della tivù pubblica. La Spagna invece ha tolto la pubblicità alla sua televisione di stato, che adesso vive di solo canone. Fa circa il 6 per cento di share, e svolge funzione di tivù pubblica. C’è dispersione e ricerca personalizzata del contenuto. È un passaggio d’epoca. E invece noi discutiamo di compensi. Con miopia. E con rancore. Peccato”, dice. E pronuncia queste ultime parole come si scolpisce un epitaffio, o si consuma un addio.
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.