"Tredici" è la migliore serie tv sul mondo dei teen
La storia del suicidio di Hannah Baker su Netflix, autentica e commovente
Tredici” – titolo originale “13 Reasons Why” – è la cosa più interessante proposta dalla fiction tv da diverse stagioni a questa parte. I motivi sono tanti e convergono in un unico intrattenimento dal quale si rimane conquistati, divorandolo in modo seriale, dal momento che tutti gli episodi – 13, appunto – sono disponibili assieme su Netflix. Da subito c’è una fascinazione legata all’aspetto puramente visivo della serie, alla confezione e al suo cast degli interpreti: tutti asset vincenti di “13”, che ne hanno fatto il caso dell’anno oltreoceano dove la produzione s’è affrettata a confermare una seconda serie per il 2018, mentre il romanzo da cui è tratto, “YA” di Jay Asher, è schizzato in testa alle classifica di vendite. Lo stile narrativo è quello del migliore cinema indipendente Usa, quello che discende dallo slackerism anni Novanta e i cui profeti sono Richard Linklater e Harmony Korine. Tutto, inevitabilmente, ruota attorno alla sensibilità espansa dei teenager e all’incomunicabilità con il mondo dei volonterosi adulti, deflagrando nell’incolmabile distanza tra desideri e realtà, sogni e vita vera, lungo dei binari introspettivi coincidenti con le personalità dei protagonisti. Non a caso la regia – tra gli altri, a firmare due puntate c’è anche Gregg Araki, autore dell’indimenticato “Doom Generation” – pare sempre concentrato sul restituire il turbamento psicologico ininterrotto da cui sembrano investite le figure in scena. Che poi sono la vera forza dello spettacolo, richiamando un capostipite del genere come il coppoliano “Rumble Fish”, buona pietra di paragone per questo nuovo “brat pack”, un drappello di facce nuove che colpisce per naturalezza e rappresentatività.
Il gruppo è dominato dai due protagonisti assoluti: la ventunenne australiana Katherine Langford, che interpreta Hannah Baker, la ragazza che si suicida dopo un anno scolastico di patimenti, persecuzioni e umiliazioni. E il ventenne Dylan Minnette, nella parte di Clay Jensen, il compagno di classe, e innamorato perennemente inespresso, che traverserà la tremenda esperienza di capire come e perché è riuscito a essere inutile, se non pernicioso, nella vita della ragazza che amava. Il plot va in scena in un liceo d’una qualsiasi cittadina californiana, sconvolto perché una studentessa, arrivata quello stesso anno, si è suicidata con evidenti implicazioni che coinvolgono l’intero ambiente scolastico, docenti, assistenti e studenti. Hannah ha consumato un particolare commiato: con la sua voce ha inciso su un registratore a cassette una mezza dozzina di nastri, dedicati ai compagni coi quali ha condiviso il breve periodo di studi e una serie di complicate, turbolente relazioni extrascolastiche. Il quadro è pesante: Hannah era popolare solo come possibile preda sessuale e oggetto di sottomissione e il grafico della sua vita è quello della frustrazione. Il microcosmo della scuola è dominato da poteri e sottopoteri che somigliano ai peggiori esempi del mondo esterno. E la scatola da scarpe con le cassette nelle quali lei pronuncia l’ormai incontestabile “versione di Hannah”, passa di mano in mano, seminando sbigottimento e paura. Fin quando non entra nel walkman di Clay, provocandogli una sconvolgente esperienza psicologica di autoanalisi. Dunque una teen story carica d’implicazioni, legate al distacco dall’innocenza e alla presa di coscienza di cosa davvero siano le relazioni, le regole e i segreti che le governano.
I temi in ballo sono quelli del bullismo e della sopraffazione, della violenza e delle sottili forme di razzismo che convivono in quel mondo poco incantato chiamato scuola. Ma l’idea forte della serie, quella che spinge ad accompagnare Clay nel suo percorso di scoperta e nel suo immergersi nella rivelazione della realtà, è la sensazione di autenticità. Life sucks, la vita fa schifo e la scuola ancora di più: vecchi adagi che conosciamo dai tempi della campanella alle 8 del mattino. Qui, col sottofondo emotivo della musica indie, con quegli sguardi lunghi, lo studiarsi a vicenda, il timore di venire feriti e la voglia di essere amati, tutta la rappresentazione prende prodigiosamente vita. E gli episodi della serie, oltre a divertire e commuovere, offrono un’opportunità rara: quella di spiare e studiare da vicino i cerimoniali della gioventù, il loro solenne dispiegarsi, l’attimo fuggente in cui tutto può accadere di bello o tragico, appena prima che il quotidiano normale distribuisca i compiti, i ruoli, i posizionamenti e la sensazione di un destino già scritto.
Politicamente corretto e panettone