Il figlio del boss
“Gramigna”, l’altra faccia di “Gomorra”. Storia vera di un ragazzo in fuga da una camorra già scritta
Iclan, la Piovra, il Padrino, Gomorra, Suburra, la Mafia Capitale (e non capitale), il Capitano Ultimo, i carabinieri, i boss (proprio ieri è morto Totò Riina, e decine di utenti Facebook hanno espresso “vicinanza” alla figlia Maria Concetta, la quale ha chiesto silenzio). E ancora: la realtà che si mischia alle ipotesi processuali, e la sublimazione letteraria o cinematografica che fa della malavita organizzata e di coloro che la perseguono un canovaccio per drammi seguiti e amati dal pubblico: su Sky Atlantic è appena partita “Gomorra 3”, terza stagione della serie tv ispirata al bestseller di Roberto Saviano, e per l’anteprima cinematografica, in due giorni, sono stati raggiunti i cinquecentomila euro al botteghino, con fiume di commenti sui social network sulla vicenda dei sottoclan del grande clan che si affrontano dopo la morte dell’ormai mitologico Don Pietro Savastano. Netflix, intanto, produce “Suburra-la serie”, dal libro di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo su malavita e zona grigia tra Roma e Ostia. Ovunque le squadre di agenti, i giudici, gli investigatori, i rapporti tra figli, fratelli e mogli di boss, pentiti e non pentiti, ispirano inchieste, romanzi e reportage. E ora, il 23 novembre, arriva al cinema “Gramigna”, film di Sebastiano Rizzo in concorso per il premio David Giovani, prodotto da Klanmovies e ispirato alla storia vera del figlio di un boss: in questo caso il punto di vista è sì sempre “interno” al contesto, ma con prospettiva rovesciata (il figlio del boss, Luigi Di Cicco, ha raccontato i suoi anni più duri nel libro “Gramigna-vita di un ragazzo in fuga dalla camorra”, scritto con Michele Cucuzza). La domanda è: si può, essendo nato da un capo camorrista e avendo vissuto fino ai vent’anni in un ambiente in cui tutto diventava facile proprio per via del genitore che in quel contesto era temuto e onorato, arrivare a decidere, dopo un percorso anche contraddittorio di superamento della propria “linea d’ombra”, che forse valeva la pena di seguire la via più accidentata, quella che porta a una libertà non scontata e non priva di prezzi da pagare? E come si vive, da bambino, il fatto di non poter neanche andare a prendere un gelato senza essere additato – e anche favorito – come il figlio di colui che i traffici in zona li domina? Che cosa succede nella mente di un ragazzino di diciassette anni quando il mondo consueto si fa mondo alla rovescia, con il dopo-calcetto che si trasforma in teatro di sparatoria da spogliatoio, sotto gli occhi impotenti dell’insegnante di educazione fisica?
Si può, nella realtà, uscire dal modello "Padrino" o del "personaggio da serie tv di successo", più efferato del padre?
C’era una volta un bambino che viveva in una specie di casa bunker, con finestre sempre mezze chiuse e mamma e nonna sempre senza sorriso: potrebbe iniziare così la storia del vero (e poi romanzato) Luigi Di Cicco, figlio di padre ergastolano come quasi tutti i suoi fratelli. Luigi oggi è adulto, sposato, con una figlia, vive a Civitavecchia e da tempo gira per le scuole dell’hinterland napoletano per raccontare la sua esperienza agli studenti, e per dire a chi cresce nelle zone in cui più alto è il rischio di cooptazione-giovani da parte della malavita organizzata che c’è sempre, anche se magari non si vede subito e bisogna farsi aiutare (“da soli non ce la si fa”, dice oggi Luigi), una possibilità di scelta. C’era una volta “l’infanzia inesistente” di Luigi, dice il regista Rizzo, che con il protagonista del film ha passato molto tempo prima di girare. Infanzia inesistente, cioè: impossibilità di fare i capricci, ché in salotto c’è sempre uno zio uscito dal carcere che potrebbe rientrarci, e non vuole casini, e non c’è tempo né modo per essere disobbedienti, tra perquisizioni continue che, nella notte, distruggono l’ordine di camere e cameretta e trasformano in sbuffo di ansia, rabbia trattenuta e paura i mezzi silenzi delle “donne di casa”, i giganti che, dietro alla maschera di fatica che portano stampata sulla faccia, cercano disperatamente di non far trapelare l’anormalità di ciò che è normale per quella famiglia. Infanzia inesistente, cioè impossibilità di andare a mangiare una pizza con mamma e papà, che si sposano quando tu hai già sei anni – e in questo sei uguale a tanti altri – ma in carcere, luogo dove hai conosciuto tuo padre, perché quando sei nato lui era già dietro le sbarre (cosa che ti rende diverso per sempre). Infanzia inesistente per quei piccoli dettagli di vita quotidiana a cui gli altri bambini non danno neanche peso: il parco giochi (per Luigi non scontato) o le scorribande per strada fino alle 8 di sera (neanche proponibili in un quadro di vendette incrociate). “Luigi ha imparato la geografia a forza di andare a trovare il padre in carcere, perché veniva continuamente spostato”, racconta Rizz. Che ha scelto “di non raccontare la camorra in sé, ma quello che della camorra percepisce, giorno per giorno, un bambino che indovina da quegli sguardi tra madre e nonna che qualcosa non quadra, e piano piano si mette a cercare risposte e non le trova, e crescendo è costretto ad affrontare non soltanto suo padre ma anche se stesso: l’adolescente che, come tutti gli adolescenti, a un certo punto della sua vita non capisce il perché di tanti ‘no’ materni, e vorrebbe uscire e non pensare, stare con gli amici, andare al bar, comprarsi la macchina, la camicia nuova, portare a cena le ragazze. Solo che nel caso di Luigi anche soltanto il lasciarsi andare all’adolescenza può diventare scelta irreversibile di vita criminale”. Tantopiù che il cognome da solo basta a fare di Luigi un presunto colpevole quando, già altrove, già sposato, dovrà restare in carcere sei mesi da innocente per accertamenti dopo una retata. Esiste, dice il regista, una sorta di “conformismo camorristico” che l’adolescente Luigi deve prima di tutto rifiutare, facendo di sé un “diverso” al contrario: quello che non accetta l’orologio con i cinquecento euro che i vari “padrini”, nell’assenza del padre, vorrebbero regalargli per comprare la sua fedeltà; quello che chiede alla madre “una macchina nuova e potente”, ma quando lei lo fa ragionare capisce che chiederla a uno degli “zii” potrebbe essere il primo vero passo verso l’affiliazione; quello che non può accontentarsi di stare con la bella ragazza che non riflette troppo sulla strada già segnata che ha davanti (tantopiù che, nel caso di Luigi, non si tratta di seguire senza troppa convinzione le orme di un padre avvocato, medico, notaio, architetto). Luigi (interpretato da Gianluca di Gennaro) è circondato da anime nere, ma ha come guida un insegnante di calcio (nel film Enrico Lo Verso) che non può impedire la tragedia quando un ragazzo ha già scelto da che parte stare, ma che con chi deve ancora attraversare la linea d’ombra spera di poter avere il peso del grillo parlante: attento, di là c’è il baratro, di qua c’è una scuola che non ti piace, gli allenamenti a cui arrivi sempre tardi perché dormi troppo, ma anche la possibilità di prendere il diploma che ti serve per lavorare onestamente. Ma la notte dell’Innominato, quella in cui decide che deve cambiare in fretta la direzione sennò è troppo tardi, per Luigi non arriva all’improvviso: è il portato di tante giornate in cui, racconta oggi, “sentiva la mancanza del padre che avevano gli altri, e quando vedevo le altre famiglie per strada pensavo che la mia vita, al confronto, fosse uno schifo”. “Se quella vita fosse stata bella l’avrei fatta”, dice Luigi, che da ragazzino ha assistito con suo cugino coetaneo al regolamento di conti in strada in cui è stato ammazzato uno dei suoi zii. “Quella vita non è vita: vuoi passare tutti i tuoi giorni a far soffrire chi ti sta vicino, chiuso in un carcere – quando proprio non ti sparano?”, dice Luigi nelle scuole del napoletano in cui c’è sempre qualcuno che gli parla con occhio già conquistato di “soldi, macchine, donne”, il paradiso presunto per chi, a quindici anni, senza avere molte prospettive, subisce il fascino della vita dannata che vivono i fratelli maggiori o gli amici dentro il gorgo del clan. “Non accettare provocazioni”, è la frase che il figlio del boss si sente ripetere da quando è piccolo, ma che cosa davvero significhi è difficile a dirsi, quando qualcuno ti minaccia solo per il gusto del braccio di ferro (la forza si misura, nel contesto malato, da quanto poco resisti all’uso della violenza anche soltanto psicologica). Invece il vero Luigi, nelle scuole, si sforza di “parlare semplice”. E il suo parlare semplice comprende anche l’esporre l’unica certezza che ha sempre avuto: “Per quanto strano possa sembrare, io ho avuto libertà di scelta”.
A Luigi mancava tutto: la possibilità di fare i capricci, comprarsi un gelato, farsi sgridare da un padre che non c'è
Ed è qui che si rompe lo schema cinematografico-televisivo che porta all’automatismo: se il padre è un boss, il figlio eredità il clan come si eredità una casa. La tragedia shakesperiana delle “mafie raccontate” ruota infatti attorno a quel ruolo in cui ci si ritrova proprio malgrado, ma che diventa doppia pelle fino a far sembrare il figlio più efferato del genitore. Luigi dice invece che suo padre (che non si è mai pentito e che ha sempre ripetuto che per lui era troppo tardi per cambiare), fin da quando era piccolo gli ripeteva “o studi o vai a lavorare”, anche se poi è la madre chegli ha ricordato in continuazione che se non voleva far rivivere a chi gli sarebbe stato accanto l’incubo che vivevano loro avrebbe dovuto ogni giorno scegliere di non essere “il figlio di”. Finché è bambino, Luigi assorbe quelle strane frasi che stridono con la quotidianità in quella casa sempre in allarme, dove la nonna cerca di dare una parvenza di serenità a cene sempre troppo tormentate (da fuori arrivano notizie orribili: qualcuno è sparito, qualcuno è “stato sparato”, qualcuno è finito per l’ennesima volta in galera, e tutti, in casa – ecco il non-detto delle donne che apparecchiano e sparecchiano con frenesia, come per calmarsi con gesto meccanico – dobbiamo stare attenti a come parliamo). Un figlio ti può deludere, ma sarà sempre tuo figlio, dice la nonna, e Luigi non capisce del tutto quelle parole fino a che non si trova a tu per tu con il padre, ma da adulto, alla pari, dopo essersi allontanato dalle cattive compagnie, dopo aver scoperto che una passeggiata al mare senza doversi guardare le spalle è meglio della falsa invincibilità provata per un attimo, sul limitare della scelta “faccio come fanno tutti gli uomini della mia famiglia oppure no”, quando per qualche mese il fatto di gestire un locale con amici non raccomandabili gli regalava il potere effimero di chi ha regole tutte sue.
La crisi adolescenziale diventa scelta da notte dell'Innominato: una vita simile a quella di mio padre è vita facile o vita di schifo?
Anche un padre può deludere, nonostante si sia raccomandato di non fare come lui. Può deludere, dice Luigi a suo padre, perché scegliendo quella vita ha scelto per tutti un avvenire di “solitudine, umiliazione, dolore”: quello che è toccato lui e a sua madre, specchio rovesciato del boss. Innocenti, ma condannati a un carcere invisibile in cui tutto ruota attorno alla sua assenza. Non basta aver detto “tu devi stare lontano da quel mondo”, quando manca tutto l’altro mondo positivo che Luigi deve scegliere nonostante l’esempio opposto del genitore. Per questo la linea d’ombra non può essere oltrepassata senza pretendere dal padre le risposte che non aveva mai voluto dare, e per questo la crisi adolescenziale non si risolve fino a quando il figlio del boss non è pronto a pensare (e dire) che quell’uomo dietro le sbarre non può “cancellare il passato con le scuse”, ma resta un padre da aspettare fuori dal carcere, al primo giorno di licenza.
Politicamente corretto e panettone