I populisti della tv
Dai giustizialisti delle “Iene” alle piazze di Del Debbio, fino ai talk de La7, dove ogni sera si rievoca il rito purificatorio delle monetine lanciate contro Craxi. I vitalizi di Giletti come le tangenti di Mani pulite
Invece di considerarlo un’ideologia, una dottrina, una protesta o un termine ombrello che tiene insieme fenomeni molto diversi, dovremmo pensare al populismo come a un grande format. Una specie di algoritmo della tv italiana. Lo schema di fondo di un racconto del paese consolidatosi con i talk-show degli anni di Tangentopoli, rilanciato dai reality, impennatosi coi social e infine convertitosi in egemonia culturale con l’apparizione sulla scena politica del Movimento 5 stelle. Un inesauribile serbatoio di temi, figure, motivi che alimenta senza sosta l’“Italia della nostalgia e del rancore” fotografata dall’ultimo rapporto del Censis. Un’Italia che esiste soprattutto dentro la sua autorappresentazione televisiva. Dai talk all’entertainment, dai nuovi format (come “Senso comune”) ai grandi classici (come “Le Iene”), il vasto oceano-mare del populismo televisivo diventa la rappresentazione plastica di un paese che nell’ultimo anno ha avuto la migliore crescita industriale d’Europa ma che in televisione è sempre incazzato, brucia di rabbia, indignazione, diseguaglianze; odia le élite, le caste, gli esperti, i vitalizi, le banche, gli immigrati, gli imprenditori, l’industria e sospetta fortemente della scienza (che fa gli interessi delle lobby e dei poteri forti). Un’incompiuta, imperfetta, del tutto provvisoria cartografia dei populismi televisivi non può che partire dal più potente di tutti: il populismo dell’o-ne-stà. Quello della “Gabbia”, di “Piazza Pulita”, di “DiMartedì”, che ormai abbiamo segnato nel calendario come il giorno dell’onestà.
Un paese che in tv è sempre incazzato, brucia di rabbia e indignazione, odia le élite, le caste, gli esperti, le banche, gli immigrati
Se la storia della filosofia è una lunga nota a piè di pagina di Platone, i talk di La7 sono un’estenuante rievocazione del rito purificatore delle monetine del Raphael. Cerimoniere supremo, Piercamillo Davigo. A lui il compito di saldare populismo della legalità, giustizialismo e populismo dell’onestà, traghettando l’abietta Italia di Tangentopoli dentro quella trasparente, onesta e a Cinque stelle di Grillo. “Io credo che l’onestà debba essere una precondizione per qualsiasi carica pubblica, poi uno deve essere anche bravo”, diceva Davigo a ottobre da Floris, con la solita flemma da “Terminator” che getta l’interlocutore nella paura di un avviso di garanzia prima della fine del contraddittorio. Acclamazione di popolo, approvazione in studio, fiume di applausi (la claque meriterebbe un’analisi a parte, ci sono più applausi in una puntata di “DiMartedì” che “risate finte” in una sit-com americana degli anni Ottanta). In rappresentanza dello spettatore liberale, garantista, realista o quantomeno scettico, giungeva Ilaria D’Amico. Sì. Ilaria D’Amico. “Meglio un politico corrotto che lo Stato rotto”. Slogan da curva. Dunque perfetto per l’ignaro spettatore che l’aveva lasciata alle discussioni sul Var e ora se la ritrova opinionista sul caso Banca Etruria (ospite nell’ultima puntata, Ilaria D’Amico ha spiegato che al posto della Boschi si sarebbe dimessa, prendiamo atto). Davigo contro D’Amico, scrivono i giornali l’indomani. Titolo da film Marvel. Ilaria D’Amico inizia così la sua nuova gavetta. Una rielaborazione in salsa centro-destra di Alba Parietti, passata dalle notti magiche di “Galagoal” alla difesa della Costituzione, dunque anche una valida alternativa al generale Gallitelli (il Cav. ci pensi).
Ospite fisso a "DiMartedì", Luigi Di Maio parla con calma e serenità, nessuno lo interrompe. Le frasi sfumano negli applausi
Il populismo dell’onestà è un grande racconto della televisione italiana. Un ottimo esempio dello sforzo collettivo con cui ci stiamo impegnando a portare i Cinque stelle al governo. E’ il racconto di un paese che non esiste se non nelle proiezioni mentali di quelli che lo metterebbero nelle mani di Zagrebelsky e Davigo, con “Povera Patria” di Battiato al posto dell’inno nazionale Mameli. Un racconto in cui Di Maio è già premier. Le elezioni non contano, i titoli men che meno (come dice Floris, “lei Di Maio non ha bisogno di laurearsi tanto ora diventa presidente del Consiglio”). Se Di Maio perde c’è stato un complotto delle élite, che comunque è già un bel passo avanti rispetto a quello dei frigoriferi contro la Raggi. Ospite fisso a “DiMartedì”, Luigi Di Maio rappresenta i risparmiatori di tutte le banche, i cervelli in fuga, gli esodati, i disoccupati, i cassintegrati, i tassisti romani, i pensionati, gli studenti, le start-up, le piccole imprese della Brianza, gli insegnanti deportati del sud. Parla con calma e serenità, tanto nessuno lo interrompe. Le frasi sfumano negli applausi, la claque la guida l’ex “Grande Fratello” Rocco Casalino – la risposta di Floris al “GF Vip” – inquadrato in prima fila tra il pubblico della puntata di martedì scorso, raggiante, entusiasta, sicuro della vittoria. Di Maio va a braccio su banche, economia, impresa, reddito di cittadinanza perché tutto si tiene insieme con una formula semplice, efficace, una specie di mastice populista: il “novantanove per cento degli italiani” contro “l’uno per cento delle élite”. Uno spettacolo surreale che a forza di ripetersi diventa vero. Così, anche la chiusura della “Gabbia” di Paragone o quella dell’“Arena” Massimo Giletti diventano subito oscure manovre della casta per tentare di sopravvivere. Dopo la chiusura del programma, annunciata in diretta da Paragone con un “ciaone” che strizzava l’occhio al nemico renziano, la pagina Facebook della “Gabbia” si è trasformata in un interminabile giaculatoria complottista con post del tipo, “uno dei pochi programmi che dava spazio alla gente, che non lecchinava ai soliti noti... meglio eliminare le trasmissioni scomode”. Come “L’Arena” di Giletti, che all’interno del vasto contenitore del populismo dell’onestà si è ritagliato il filone dei vitalizi e non lo molla più. Inaugurato dal celeberrimo lancio a terra del libro di Mario Capanna, il tema del vitalizio intercetta lo zeitgeist dell’Italia anticasta con una sintesi fulminante, come la tangente riassumeva il crollo della Prima Repubblica. “Abbiamo rotto un tabù”, diceva Giletti spiegando la svolta civile della sua “Arena”, “abbiamo portato la riflessione, l’approfondimento, l’inchiesta: prima la domenica c’erano solo nani e ballerine”. Ora ci sono i vitalizi. Ma se usciamo dall’universo La7, la musica non cambia. Come ha spiegato anche il direttore di questo giornale, se ci fosse un conflitto di interessi degno di questo nome non avremmo quell’impressionante serie di programmi Mediaset che fanno il gioco del grillismo. Programmi che da anni corrodono la già bassissima fiducia degli italiani nelle istituzioni, nell’istruzione, nel metodo scientifico. Programmi che montano e cavalcano ondate rabbiose della “piazza” verso il “palazzo”. C’è molto più grillismo nelle “Iene” di quanto berlusconismo ci fosse in “Drive In”, come per anni ci hanno spiegato vari sociologi e intellettuali. L’Italia del rancore non si è certo formata sulle pagine de “La casta” di Rizzo e Stella ma su vent’anni di servizi-inchiesta di “Striscia la notizia” e “Le Iene”, anzi “Cada chi deve cadere”, come recita il titolo della versione originale del format importato in Italia nel 1997. Trasmesso sulla tv argentina dalla metà degli anni Novanta, costruito come un rotocalco di attualità che si faceva beffe dei politici con un linguaggio innovativo e un ritmo da videoclip, “Le Iene” si rivela subito un programma perfetto per un paese che aveva ancora negli occhi gli arresti di Tangentopoli. In questi anni però la ventata di aria fresca del linguaggio supergiovane à la “Mtv” ha lasciato il posto a un populismo della denuncia sempre più sgangherato che si è trasformato in un formidabile incubatore di grillismo, fake-news, ostilità verso ogni forma di “expertise”, ambientalismo paranoico e cultura antiscientifica, che nel paese del liceo classico trova sempre vaste autostrade per farsi largo.
Populismo di interesse culturale: i pareri di Scamarcio sull'euro, di Gassmann sulla crisi a sinistra, di Anna Foglietta su Mafia Capitale
“Le Iene” si sviluppa a ridosso della diffusione di internet e YouTube in un gioco di specchi tra la vecchia tv e la nuova rete che rilancia i video, i servizi, i monologhi, sganciati dal contesto di entertainment dello show. Come quelli di Enrico Brignano contro la casta e i poteri forti, poi ripresi sulle tante pagine Facebook del M5s che li strappa dalle infide maglie della censura: “Enrico Brignano censurato anche dal canale YouTube delle Iene… fate girare!!! In Italia c’è la censura!!!”. Poi il metodo si raffina, la posta in gioco si alza, il cortocircuito è inevitabile. Quando Barbara Lezzi (deputato M5s) pubblica il video in cui spiega che il pil italiano è cresciuto per colpa del caldo e del conseguente aumento di spesa energetica per i condizionatori non sappiamo più se siamo dentro una puntata delle “Iene” o nella realtà politica italiana. Il caso “Stamina” e la campagna a favore di Vannoni sono il momento apicale di un dibattito pubblico ripiegato sull’agenda del populismo mediatico. L’irriverenza deborda nell’irresponsabilità. Quello che Luciano Capone ha definito “il metodo Iene” consiste nel lavorare sulle reazioni pavloviane di uno spettatore impaurito da un tema-problema che appare come parte di un più vasto complotto ai danni dell’umanità. Come nella puntata dedicata agli esperimenti nucleari sotto il Gran Sasso. Una cialtronata assemblata come una parodia di “The China Syndrome”, il thriller ambientalista con Jane Fonda e Michael Douglas, solo che una parodia non era o non voleva essere. Si toccano le corde della paura ancestrale che automaticamente innesca la parola “nucleare” e il gioco è fatto, tanto più se non ne sappiamo nulla o quel che sappiamo è fermo alle posizioni di Elsa Morante quando diceva che “nell’atomo non c’è poesia”. Nella sua versione “upper class” il metodo “Iene” genera “Report”, complottismo e cultura antindustriale impacchettati per il più raffinato pubblico di Rai Tre. Nella sua versione politica è il sottofondo ideologico dei tanti “No” che abbiamo sentito in questi questi anni. E dal Gran Sasso all’Ilva di Taranto il passo è breve.
C'è molto più grillismo nelle "Iene" di quanto berlusconismo ci fosse in "Drive In"
Insieme al populismo antiscientifico delle “Iene” ce n’è uno ancestrale, profondo, scandito dal sangue e dal suolo. Un populismo che salda le pulsioni territoriali, l’italianità e l’uscita dall’euro. Il populismo su basi razziali di “Quinta colonna” alimenta lo spettro dell’“invasione” e fa incazzare più o meno tutti, dal lettore di “Internazionale” agli esponenti “Movimento neoborbonico” che dalle pagine del Mattino lanciano un boicottaggio della trasmissione considerata spudoratamente “antimeridionale”. Nella costruzione del talk, “Quinta colonna” si rifà esplicitamente alle piazze di Santoro. E’ l’unico talk dove si vede ancora la gente in collegamento dalle piazze, come nei beati anni di Ruotolo e Santoro. Ma proprio questo effetto-vintage è la sua vera forza. Piazze piccole, mercati, campanili, paesini avvolti nella nebbia invariabilmente minacciati dalla chiusura della fabbrica di zona o dall’apertura di un campo profughi o un campo rom, striscioni da stadio. Insomma, quella “provincia che è dentro di noi”, come dice Maria De Filippi, e che appena le danno il microfono urla “Tutti a casaaaaaa”, perché parla, pensa, scrive solo in “caps-lock”. Grillo ringrazia. In “Quinta colonna”, tutto l’armamentario del populismo santoriano viene rovesciato, scarnificato nelle sue polarizzazioni essenziali e voltato di segno in una pregevole operazione di puro “pastiche” postmoderno. Il populismo televisivo crea continuamente nuovi eroi, martiri, personaggi scomodi. Come Marta Fana, cervello in fuga riparato a Parigi e collaboratrice di “Internazionale” che si scagliò contro Farinetti in nome della classe operaia. Pregiatissimo populismo anticapitalista di una che su Twitter si definisce “ostinata a sinistra”, si eccita alla parola “tasse” e “patrimoniale” e quando racconta il lavoro è sempre un “viaggio agli inferi”, come recita il titolo del suo libro uscito per Laterza. Come il populismo dell’Essere di Diego Fusaro, inesauribile miniera di supercazzole heideggeriane che sembrano uscite dai duetti di Arbore e De Crescenzo, una parodia televisiva del pensatore parolaio all’italiana, dunque antimoderno, oscuro, impegnato nella guerra tra l’Essere-per-la-morte e l’Ente parastatale, solo che anche qui di parodia non c’è traccia (anzi, lo pubblica Einaudi).
“La tv”, scrive Stefania Carini, “negli ultimi anni ha fatto proprio il populismo non per spiegarlo ma per indossarlo. E’ diventato allora puro stile e posa, fine a sé stesso”. “ Nell’Italia del miracolo economico”, dice sempre il rapporto del Censis di quest’anno, “il ciclo espansivo era accompagnato da miti positivi che fungevano da motore alla crescita economica e identitaria della nazione. Ma adesso l’immaginario collettivo ha perso forza propulsiva”. Non è vero. Adesso c’è il mito populista che funge da motore alla decrescita felice. Persino una trasmissione dai toni pacati come “Otto e mezzo” (almeno secondo gli standard italiani) si avvale ormai in modo sistematico del populismo di interesse culturale, ovvero dei pareri di Riccardo Scamarcio sull’euro, di Alessandro Gassmann sulla crisi della sinistra, di Anna Foglietta su Mafia Capitale. Il cinema italiano si sa è sensibile all’impegno civile. Dopo tanta militanza a sinistra si avvicina lentamente il momento dell’M5s. Lilli Gruber pare averlo capito prima di tutti. La scorsa settimana, il duo Scamarcio-Di Battista è stato a dir poco formidabile e ci ha regalato momenti indimenticabili. Come quando Di Battista dice che “il fascismo oggi è il primato della finanza e del capitalismo” e Scamarcio non gli lascia neanche finire la frase, lo guarda negli occhi e aggiunge: “Esatto”. Dissolvenza. Nero. Sipario