Contro la tv che urla e non ragiona
Si può resistere al palinsesto dello sfascio? Mario Orfeo, dg Rai, scommette di sì, lo chiama “fare servizio pubblico” e mette nel mirino un certo modo di fare talk-show, “noi non lo facciamo più”. Idee e qualche numero. Intervista
Si può fare una televisione che sia un’alternativa, magari persino di successo, all’insostenibile palinsesto dello sfascio? Perché mai la rappresentazione dell’Italia deve essere affidata a una “scaletta del malumore” più percepita che reale? Perché i talk-show mettono in poltrona i professionisti dello sfascio, e se c’è un ospite che obbietta finisce a fare il punching-ball? Questo si chiedeva il Foglio di ieri, provocatoriamente, ma anche al lume dell’evidenza: basta accendere la tv, quasi tutte le sere. Mario Orfeo è direttore generale della Rai dal giugno scorso, ma ha diretto il Tg1 e prima il Tg2, nonché testate della carta stampata, ed è un giornalista, prima di tutto. E siccome non ci sta, non gli sembra proprio, o forse dovete guardare altri canali, non i quattordici del servizio pubblico, accetta di dire la sua, di prendere sul serio la provocazione del Foglio. In attesa di vedere (noi, a lui laicamente la polemica non interessa) se qualche altro editore vorrà farlo. Guarda il sole dalla mitica finestra del mitico settimo piano, Mamma Rai non esiste più, sarebbe un anacronismo, e non esiste più nemmeno la tv-finestra sul mondo, o la tv-specchio innocente della realtà. Esistono aziende che hanno la responsabilità di non barare, col pubblico e con i fatti. Non si tratta di educare, edulcorare, dice Orfeo, “ma di raccontare, per bene. Il vero. Senza omettere. Perché questo significa essere servizio pubblico, e respingo con orgoglio l’accusa dei palinsesti dello sfascio. Non siamo noi”.
Snocciola argomenti e anche un po’ di numeri. “Roberto Bolle in prima serata, la Prima della Scala. Certo che c’è una tv che mostra ‘anche’ un’Italia della bellezza. Ma stasera (ieri, giovedì) va in onda il primo dei quattro speciali di Alberto Angela sui tesori italiani dell’Unesco. Poi tornerà Benigni. Poi ci sono, premiate dal pubblico, le fiction che raccontano le storie positive dell’Italia – Olivetti, Chinnici. Io questo lo chiamo servizio pubblico: non ‘parlare bene dell’Italia’ chiudendo gli occhi, ma rispecchiare quello che è, anche nel positivo. E questo vale anche per l’informazione, per il nostro stile di infotainment”. Secondo. “C’è probabilmente chi – in tv ma anche nei giornali – pensa che urlare, allarmare, presentare le cose come se fossero sempre peggio porti un decimale in più di ascolti, qualche copia in più. Ma l’evidenza è che non è vero che paga, fare quella che voi avete chiamato il palinsesto dello ‘sfascio’. Magari qualcuno scrive anche fake news sul crollo degli ascolti Rai. Ma i dati sono diversi: sul totale della programmazione da settembre a dicembre 2017 la Rai è cresciuta di mezzo punto, e i concorrenti diminuiti. Nel prime time, è cresciuta di quasi un punto in un anno, nel giornaliero, anche. Che significa? Che fare qualità paga, non strillare paga, non essere volgari paga. E, appunto, non solo soltanto i grandi eventi. Invece pagano meno altre scelte: o forse gli ascolti dei talk-show urlati vanno bene?”.
Migliorano anche i conti, dice. Parla per il periodo da cui è dg, dal giugno scorso. Prima grana: sembravano sul punto di partenza Fazio, Alberto Angela. Avevano offerte importanti, non è un mistero. Ma, appunto: “Non sono restati per soldi, o per pigrizia. Ma perché in Rai possono realizzare un prodotto che non deve cadere nel banale, o nel volgare. La leggenda di Fazio? Sul prime time ha fatto guadagnare alla rete l’1,9 per cento rispetto al 2016. E portando grandi ospiti, artisti, temi di discussione. Da Bono ai genitori di Regeni a Camilleri: il ventaglio è ampio ed è il contrario di una tv urlata, sfascista, partigiana”. Non è tanto un tirarsi fuori dai problemi dell’informazione, come si sarebbe detto una volta, quando esistevano i partiti e le politiche culturali, ma è per ribadire che quello che sta facendo la Rai “è una rappresentazione positiva del paese. Perché il paese è anche positivo. Significa provare a rispecchiare anche gli indicatori positivi della realtà 365 giorni l’anno, 13 canali, h24. Senza fare il Grande fratello e l’Isola dei famosi”. E chi è allora che gioca allo sfascio? “I talk-show, va bene, costano un terzo di una fiction. E non è che non li facciamo. Ma li facciamo strillando di meno, senza insulti, senza tirare la politica. Forse c’è qualcun altro che pensa di racimolare pubblico così. Lo avete scritto voi del Foglio per primi che c’è qualcosa che non torna, in un editore televisivo che monta un palinsesto informativo tutto orientato in un senso, tra gabbie e piazze, e lo fa rimbalzare sul giornale della borghesia milanese, e utilizza come ospite a contratto il direttore di un altro giornale che fa di professione il giustizialista. Qualche mese fa la Rai aveva Giletti, ora non c’è più. E rivendico la scelta. Ne hanno fatto un caso, manco fosse censura. Invece è una scelta di ciò che è compatibile con lo spirito del servizio pubblico e cosa no. E infatti dov’è, ora? Noi i talk populisti non li facciamo più”.
Ma i dati dell’Osservatorio di Pavia indicano, 2017, “la presenza di una narrazione allarmistica” che è andata crescendo. Solo che, appunto, poi si scopre che le cose sono andate diversamente: “Mi sembra di poter dire che anche nell’informazione la rincorsa a enfatizzare la cronaca nera, o l’allarmismo, non ci sia da parte della Rai”, ribatte Orfeo. E chi fa il contrario? Lo sguardo fuori dalla finestra è una specie di risposta: non guardare da noi. “Pavia segnala un problema, che spesso è determinato dalla rincorsa di un decimale”.
Decimali, fatturati, forse l’orizzonte di giochi politici più ambiziosi. Spesso dai talk-show “liberi” e antisistema piovono le accuse a una Rai in mano ai partiti, che chiude i talk, caccia la Gabanelli (a Orfeo è spiaciuto, lo ammette, non è andata come avrebbe preferito). “Chi dice questo lo dice in modo strumentale. Qualcuno ogni tanto dice di essere lui a dare spazio al pluralismo, ma è detto da qualcuno che ambisce a un pezzo di canone e non è attrezzato per farlo, non fa servizio pubblico. Oppure qualcuno che ambisce a un pezzo maggiore di pubblicità, pure avendone già di più”. Ma sono scuse, dice Orfeo, essere servizio pubblico è scommettere sulla qualità di fare un servizio per l’Italia, non per affondare l’Italia pensando di guadagnare qualcosa. Rivendica che la Rai, proprio a fine legislatura, è riuscita a rinnovare il contratto di servizio con il Mise che era scaduto da cinque anni. Nel contratto, sempre per parlare della tv buona che non è solo Bolle e nemmeno solo Alberto Angela, c’è l’impegno per la realizzazione delle news online, e la realizzazione di un canale tutto nuovo, in lingua inglese, che sarà visibile in tutto il mondo, Italia compresa. “Di carattere informativo, di promozione dei valori e della cultura italiana… nonché volto alla diffusione di prodotti rappresentativi delle eccellenze del sistema produttivo italiano”. Senza sfasciare.
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