Dai vietcong a Bobby Charlton. Il racconto epico dell'anno che cambiò il mondo
Sport, politica, musica. Federico Buffa su Sky racconta il 1968
Roma. “Saluto l’anno 1968 con serenità”, disse il presidente Charles de Gaulle entrando attraverso la televisione nelle case di milioni di francesi, ancora assopiti per i festeggiamenti del 31 dicembre. In effetti, tutto faceva pensare che sarebbe stato un anno tranquillo, il New York Times titolava “se Dio vuole, il 1967 ce lo siamo lasciato alle spalle”. Che Guevara era morto pochi mesi prima, il suo ritratto era già un simbolo. Nella Parigi bene si leggevano Camus e Sartre. Il 1968 anno di due Giochi olimpici, prima Grenoble e poi Città del Messico. Ma sarebbe stato l’anno dell’agguato “all’autoritarismo in tutti i campi”. Tra i mille e più documentari che nei prossimi dodici mesi saranno trasmessi e ritrasmessi per ricordare quel che fu il ’68, una menzione speciale spetta alla prima delle quattro puntate curate e condotte da Federico Buffa che Sky, in pieno clima natalizio, ha mandato in onda. Un racconto che si snoda tra le vie e i palazzi della Ville Lumière, lungo la Senna e i boulevard che ne seguono il percorso cittadino verso il mare. Lo schema è quello già sperimentato tante volte da Buffa: raccontare un evento, un anno, un momento decisivo nella storia partendo dallo sport, dalle storie particolari, dai personaggi che hanno lasciato un segno, anche se oggi esso appare sbiadito.
Applicare il canovaccio al ’68 è un’impresa complicata, come dimostra il passaggio dalle prime vittorie di Eddy Merckx alla guerra civile del Biafra, dall’assassinio di Bob Kennedy alle due mete di O. J. Simpson al Rose Bowl di Pasadena. Da Star Trek al reportage dal Vietnam di Walter Cronkite, capace di far tremare la Casa Bianca di un sempre più disilluso e cupo presidente Lyndon Johnson. Ha scritto non a caso Aldo Grasso che quell’anno “è stato talmente dirompente da rischiare di schiacciare il racconto dello sport, notoriamente la cosa migliore delle puntate di Buffa racconta”. Non c’è retorica, i toni sono asciutti, poco spazio viene dato alla divagazione futile e non necessaria all’itinerario predisposto. Passano davanti agli schermi “i due pugni neri e lo sguardo negato” di Città del Messico, gli unici Europei di calcio vinti dall’Italia grazie a Gigi Riva, “Rombo di tuono”. L’impresa che Vittorio Pozzo, il commissario della Nazionale campione del mondo nel 1934 e nel 1938, fece in tempo a vedere prima di andarsene. E poi Benvenuti che riconquista il Mondiale dei medi, con 18 milioni di italiani incollati alla radio, la storia dimenticata del “Rosso volante” cantato da Gianni Brera, il formidabile Eugenio Monti che vinse due ori a Grenoble. Grande sciatore costretto a diventare bobbista dopo due tremendi infortuni consecutivi. A Innsbruck, in Austria, nel ’64 vinse un argento. Sarebbe stato oro, ma decise di cedere un suo bullone agli inglesi, che avevano problemi di stabilità. Con quell’aiuto, il primo posto fu loro. A Monti, la gloria della medaglia De Coubertin per la sportività.
Ma in un anno così, la politica per forza di cose si lega allo sport. E proprio alle Olimpiadi invernali accadde l’imprevedibile: la Cecoslovacchia, nel torneo di hockey su ghiaccio, sconfisse 5-4 l’Unione sovietica. I giocatori non ci credono, le immagini dell’epoca rendono bene l’idea dell’impresa che andava ben oltre quel campo. In patria, migliaia di bandiere nazionali sventolano come si sarebbe visto, di lì a qualche mese, con ben altra tensione. Studenti in movimento, primavera di Praga, maggio francese. Gli assalti a sorpresa dei vietcong. Mentre tutto questo accadeva, il Manchester United vinceva la sua prima Coppa dei Campioni, a Wembley contro il Benfica di Eusebio. L’anno prima il trofeo era andato agli scozzesi del Celtic: c’era l’orgoglio nazionale da difendere e certe distanze da ripristinare. Partita ostica, al novantesimo si era sull’1-1. Il gol dello United era segnato da Bobby Charlton, “il re che visse due volte”. Doveva fare l’elettricista, poi un osservatore vide in quel quindicenne la stoffa del calciatore. Divenne un campione, come il suo compagno di squadra George Best.
In quella squadra, “nove spostavano il pianoforte e tre lo suonavano”, ricorda Buffa. Ma bastò. Per un po’ gli inglesi lasciarono da parte i Beatles, “gli unici a raggiungere la divinità”, che già tra di loro non andavano più d’accordo come prima e tempo due anni avrebbero annunciato lo scioglimento del gruppo che aveva rivoltato le secolari abitudini degli isolani, con l’esplosione ineguagliata della musica britannica sulla scena mondiale.