La vicenda ora anche in un film
Il Caravaggio rubato, Totò Riina e le imposture dei pentiti
Quasi cinquant’anni di indagini, senza risultati. Il regista Roberto Andò fa i conti con un mito, tra realtà e immaginazione. Le riprese a Palermo, tra gli interpreti Micaela Ramazzotti e Alessandro Gassmann
Pioveva a dirotto quella notte di quasi cinquant’anni fa. I ladri entrarono in un oratorio della vecchia Palermo e staccarono la tela dalla grande cornice. Tra il 17 e il 18 ottobre 1969 iniziava il mistero. La “Natività con i santi Lorenzo e Francesco”, mirabile opera di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, spariva nel nulla. “Perché nella Palermo di fine anni Sessanta scomparivano le persone e anche le cose”, dice Roberto Andò. Non importa se la “cosa” ha una dimensione di 298 centimetri per 197. Quella notte pioveva a dirotto. C’era silenzio in vicolo dell’Immacolatella. Che fosse un silenzio reale o connivente cambia poco. I ladri caricarono il dipinto su un trabiccolo e andarono via indisturbati. “Una storia senza nome” è il titolo dell’ultimo film di Andò. O meglio, il tema del lungometraggio del regista palermitano. Una produzione Bibi Film con Rai Cinema che uscirà probabilmente in aprile.
Valeria, (Micaela Ramazzotti) giovane segretaria di un produttore cinematografico, vive appartata con una madre eccentrica (Laura Morante) e scrive in incognito per uno sceneggiatore di successo, Alessandro (Alessandro Gassmann). Un giorno la donna riceve un insolito regalo da uno sconosciuto (Renato Carpentieri): la trama di un film. Ma quel plot è pericoloso, la storia senza nome racconta, infatti, il misterioso furto della Natività. Da quel momento, Valeria si ritroverà immersa in un meccanismo implacabile e rocambolesco. La troupe ha già finito di girare le scene nel quartiere della Kalsa, fra le stradine del centro storico, dove l’Oratorio di San Lorenzo ospitava il dipinto. Un olio su tela incastonato fra le figure religiose, e giocose, di Giacomo Serpotta. Una copia di pregevole fattura, ma pur sempre una copia, attutisce oggi il senso di vuoto.
Pioveva a dirotto quella notte. I ladri entrarono in un oratorio della vecchia Palermo e staccarono la tela dalla grande cornice
Non è un film sul quadro, ma il quadro ne segna i confini. Ci si muove fra immaginazione e realtà con il pesante ingombro dell’impostura. Impostori, d’altra parte, sono stati diversi pentiti che del quadro hanno raccontato una verità, infarcendola di fantasie, nella migliore delle ipotesi, e di bugie nella peggiore. Lo hanno fatto spesso. Perché dovrebbe essere andata diversamente per la Natività. Se il mistero persiste la colpa è anche e soprattutto loro. “Mi faceva piacere, ora che il cinema appare sempre più fragile e marginale, raccontare una storia al cui centro ci fosse un film e il suo misterioso, imprescindibile, legame con la realtà – spiega il regista –. Con Angelo Pasquini e Giacomo Bendotti abbiamo scelto una vicenda leggendaria degli annali criminali italiani”.
La sensibilità di Andò per l’argomento è qualcosa che ha custodito nel tempo: “Sono siciliano (il regista è nato proprio a Palermo), il furto è una ferita aperta. Ero bambino quando avvenne. Ricordo che fece clamore, specie negli ambienti borghesi e intellettuali della città. E mi colpì parecchio. La città è piena di cose che spariscono. Come Villa Deliella, scomparsa in una notte”. Era un gioiello della Palermo Liberty, Villa Deliella. Attirava gli sguardi in piazza Croci, dove iniziano i platani di viale della Libertà. Progettata da Ernesto Basile e demolita in una notte. Era l’inizio del sacco di Palermo, della devastazione edilizia figlia del peggiore connubio affaristico fra mafia e politica.
La Villa non esiste più. Il quadro forse sì, anche se i pentiti di mafia ne hanno descritto la miserevole fine. Mangiato dai topi o dai maiali, bruciato e le ceneri disperse nell’Oreto, il fiume che nasce limpido e diventa putrido quando raggiunge la città.
Chi scrive questo articolo sta ricostruendo in un libro cinquant’anni di indagini. Dalla notte di ottobre di mezzo secolo fa fino ai giorni nostri, alla ricerca di uno squarcio che riapra la speranza di riconsegnare il dipinto all’ammirazione del mondo. Perché un quadro non scappa. E nei suoi spostamenti lascia tracce. La prospettiva schiacciata degli eventi, a distanza di mezzo secolo, rende difficile il ritrovamento. Difficile, ma non impossibile.
Si parte da un punto fermo. La storia del furto è una storia di mafia. E oggi il bagaglio di conoscenze su Cosa nostra non è quello scarno di allora. Le maglie si stringono di fronte ai racconti dei collaboratori di giustizia. Figure poco raccomandabili, spioni di borgata, delinquenti di quartiere che avevano tutto da guadagnare e nulla da perdere: quando la notizia del furto della Natività divenne di pubblico dominio le indagini si popolarono di personaggi e racconti improbabili. Per escluderli si sono dovuti vagliare tutti.
"Ero bambino", ricorda Andò, "il furto fece clamore, specie negli ambienti borghesi. Ma la città è piena di cose che spariscono"
Mentre si coltiva la speranza del ritrovamento, il cinema offre un punto di vista slegato dalla fredda cronaca. Sposta il ragionamento su un piano diverso: “Questo infittirsi di leggende e deposizioni non lascia molte speranze che si arrivi alla verità. Il caso del Caravaggio rubato è uno di quei buchi neri della cronaca civile italiana e siciliana – racconta Andò – che probabilmente non riceveranno una risposta certa, almeno non in termini di legge. A meno che non sia una risposta escogitata attraverso un atto di fantasia. Infatti, ‘Una storia senza nome’ è un film sul cinema, sulla forza dell’immaginazione”.
E se il quadro esistesse ancora? “Perché no? Potrebbe anche essere – spiega il regista –. In quegli anni, in quella Palermo era perfettamente plausibile che qualcuno, non proprio interno alla mafia, concepisse un furto di quella portata. Un signore che voleva togliersi lo sfizio, il furto su commissione di una cosa bella e desiderata. Ma è anche logico pensare che la mafia fosse informata oppure che si sia accorta a posteriori, a furto avvenuto, del valore del quadro e che, a quel punto, si sia attivata per avere un ruolo nel piazzarlo”.
La “Natività con i santi Lorenzo e Francesco” di Caravaggio (nella foto un particolare) risale al 1609: è stata rubata nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969
E’ vero, un regista sviluppa la trama su un piano diverso, ma Andò conosce i dettagli della cronaca. Li ha studiati a fondo, leggendo i resoconti giornalistici che sulle pagine dell’Ora portavano la firma di Mauro De Mauro. Già, De Mauro, sarebbe scomparso il 16 settembre 1970, un anno dopo il dipinto. Del quadro si sono perse le tracce. E pure del cronista giudiziario. Non ci sono colpevoli né per il furto del Caravaggio, né per la lupara bianca del giornalista di cui è stato imputato, e assolto, il solo Totò Riina. Sono entrambe storie senza nome che il cinema affronta, nel caso del Caravaggio rubato, perché, come spiega Andò, “l’interferire leggendario delle ipotesi investigative oggi diventa simbolo della mortificazione della bellezza di cui la Sicilia è protagonista. E’ romanzesco che oggi si ipotizzi che l’opera sia finita bruciata, mangiata dai topi o dai maiali. Come se ci fosse già il segno di una metafora, il tratto di uno scrittore. Ed è interessante che per riappropriarsi della vicenda si debba agire con l’ingegnosità di un romanziere. Quando i pezzi non collimano, o non esistono più, per colmare la lacuna bisogna attivare il romanzo”.
Un romanzo che nasce e si sviluppa a Palermo. Non c’era altra città che potesse contribuire a una sceneggiatura che affonda nella cronaca e si fa leggenda. La palermitanità di Andò diventa un valore aggiunto specie se si riesce a proiettare lo sguardo oltre le cose: “Ero diciottenne e andavo in giro per Palermo. Allora visitare un oratorio del Serpotta era un’avventura. Si arrivava lì e si scopriva che i custodi non c’erano. Erano malati, o non avevano le chiavi, o erano momentaneamente assenti. I luoghi d’arte erano spesso sequestrati, o nascosti. Palermo era una città sfuggente a se stessa. Se il furto fosse accaduto a Londra, forse avrebbero recuperato il quadro dopo tre giorni. In quella Sicilia era difficile trovare la collaborazione necessaria”.
Il tono si fa marcato nel pronunciare la parola “quella”. Perché “Palermo oggi è diversa, lo è anche dalla città del 2000, anno in cui ho girato il mio primo film, ‘Il manoscritto del principe’. Palermo ha vinto la battaglia contro la mafia. Non mi azzardo a dire che la mafia non esiste o non agisce più, ma sicuramente oggi è in difficoltà, mentre allora era ancora vitale e impunita. Oggi la magnificenza degli oratori barocchi è visitabile da masse di turisti, mentre prima poteva riuscirci solo la determinazione ossessiva dell’esperto. In generale, l’idea era che le cose belle fossero sottratte al godimento pubblico. Oggi è completamente diverso. E’ aumentata la sensibilità e l’attenzione per la bellezza. La città è sotto i riflettori, cerca di dare un valore alle proprie cose. Con difficoltà, per carità, ma molto meglio di prima”.
Alcuni pentiti hanno descritto la miserevole fine del dipinto: mangiato dai topi o dai maiali, bruciato e le ceneri disperse nell'Oreto
Migliorata, la città, lo è davvero, anche se non si è liberata da una maledizione eterna. Palermo si fa troppo spesso immaginare per ciò che potrebbe essere e troppo poco ammirare per ciò che è.
L’immaginazione, però, merita un atto di fiducia. Ed è questa la chiave del film. “Viviamo in un momento storico che oscilla tra la farsa e la tragedia, circondati da volti stupidi che si avrebbe voglia di seppellire con una risata – racconta Andò –. In un frangente in cui si avverte ovunque una sensazione di insensatezza, ho azzardato un film che vuole essere un atto di fiducia per le storie, per l’immaginazione, dunque, per il cinema. In effetti, il mio è un film sul cinema, un atto di fede, ironico e paradossale, sulle sue capacità di investigare la realtà e di trascenderla. Si è sempre sostenuto che l’immaginazione, anche la più potente e visionaria, paghi il prezzo di una impotenza a priori: l’impossibilità di provocare effetti reali, tangibili”.
E’ la forza dell’immaginazione che svela l’impostura. L’impostura dei pentiti e delle verità farlocche che hanno probabilmente spinto le indagini lungo strade cieche (“Come altro definire le deposizioni che si sono accumulate sul quadro?”). L’impostura di alcuni personaggi del film stesso (“Nessuno sa che la sceneggiatrice scrive per un altro”). La faccenda si complica quando l’impostura si fa reale. Sconfina dal cinema alla vita di tutti i giorni. “Ce ne sono molti di impostori in circolazione – racconta il regista – qualche giorno fa ridevo pensando a Donald Trump e alle sue dichiarazioni sul libro che lo riguarda. Si può sospettare che lui stesso si senta un impostore, arrivato alla Casa Bianca per scommessa, per gioco. E che si sorprenda di avercela fatta. Un dilettante che arriva al potere e deve recitare la sua parte, costretto dalla sua improntitudine a dettare la linea al mondo”.
L’America è lontana. Non è una consolazione, visto che dilaga l’impostura made in Italy: “Prendiamo la campagna elettorale in corso. E’ una sfida mal giocata, poco pensata. Non passa giorno senza che qualcuno dica: tagliamo questa tassa o quest’altra. E’ evidente che in qualche modo anche questa attitudine possa nascondere un’impostura. Sospetto quasi che chi fa politica pensi purtroppo che essa stessa sia diventata un’impostura. E’ una partita da giocare al rilancio, senza pensare agli effetti reali. La politica può permettersi il lusso di giocare su un piano fittizio, senza effetti reali. La disaffezione della gente verso la politica dipende anche da questo”.
Il cinema si muoverà pure su un piano diverso, ma la cronaca vera ne stimola la sceneggiatura: “Se custodire e tramandare la bellezza è la forma più elementare di civiltà, da noi questo grado minimo è da molto tempo in pericolo. La storia italiana è piena di fatti oscuri, una cronaca mutilata di cui solo un atto fantastico può risarcire il destino e ricucire il senso. Un capolavoro rubato e dato in pasto ai porci, come attestarono altri pentiti, è un racconto perfettamente aderente ai nostri trascorsi civili, e un ottimo pretesto per un narratore che voglia creare una miscela esplosiva tra fatti reali e fatti immaginati”.
Il regista conosce i dettagli della cronaca. Li ha studiati a fondo, leggendo i resoconti giornalistici che portavano la firma di De Mauro
Si è perso il valore delle bellezza e della necessità di custodirla. Il messaggio è chiaro. Guai, però, a definirlo tale durante la conversazione con il regista. Che vuole, per scelta, andare nella direzione opposta: “E’ un film molto divertente, con tono ironico, ma c’è anche il noir. Ci scherzo su citando Billy Wilder: ‘Quando sto per fare un film non lo classifico mai, non dico che è una commedia, aspetto l’anteprima, se il pubblico ride molto dico che è una commedia, altrimenti dico che è un film serio o un noir’. In ogni caso, non voglio dare alcun tipo di messaggio. Se c’è, è nascosto e ogni spettatore saprà trovarlo a modo suo (dice sorridendo). E’ la storia di un quadro che diventa il centro di una vicenda fra finzione e realtà. Non c’è una lezione, né una morale. Con questo film avevo voglia di ritornare a un tono leggero, e di ritrovare temi che mi accompagnano da sempre: il fascino dell’impostura, i sentimenti nascosti che aspettano il momento propizio per uscire allo scoperto, gli equivoci che fanno d’improvviso deragliare la vita lasciandone esplodere le contraddizioni, il lato comico e imprevisto”.
E se il quadro all’improvviso venisse ritrovato? “Spero che succeda dopo l’uscita del film – Andò sorride – ma le chiedo di dirmelo in tempo visto che lei ne sa più di me e ci sta pure scrivendo un libro. Scherzi a parte, in ogni caso avremmo la prova che l’immaginazione suscita e determina accadimenti reali. Sarebbe la prova delle concatenazioni fra immaginazione e realtà. Ci sorprenderemmo ancora una volta, e potremmo penetrare meglio la follia umana che sta dietro quel gesto. L’ipotesi che qualcuno guardi il dipinto da solo, in una stanza, può avere a che fare solo con la follia. Non può essere una gioia condivisa, è solo un gesto perverso. Io penso invece che quel quadro abbia comunque a che fare col potere, nel senso che chiunque abbia commesso il furto, in seguito abbia dovuto fare i conti con la mafia e con un livello di contiguità diffuso, ed è interessante comunque che la mafia abbia sentito il bisogno di appropriarsene e non sappia come liberarsene, è una deriva irresistibile. E mi piace che lo sfondo palermitano di questa storia, pur trattandosi di una vicenda tremenda, avvenuta in una Sicilia sfigurata e oltraggiata, abbia in sé qualcosa di buffo, quasi di parodistico”.
“Palermo oggi è diversa. Ha vinto la battaglia contro la mafia. E’ aumentata la sensibilità e l’attenzione per la bellezza
No, anche se il quadro venisse improvvisamente ritrovato la storia non perderebbe il suo appeal. Intatta, ad esempio, resterebbe la forza dei sentimenti nascosti, tanto cara al regista palermitano. “Mi è sempre piaciuto raccontare il non detto. E’ un grande tema siciliano, il pensare che ci sia una verità da catturare oltre le parole. La ragazza sceneggiatrice protagonista del film ci ha preso gusto, vuole stare in incognito, non si rivela per difendere la propria identità”. Il film racconta proprio questo: il modo di rivelarsi, la scelta di abbandonare la cautela, di uscire dal gioco delle ombre e gettare la maschera.
Ecco perché, conclude Andò, “è come se negli anni ci fosse stata una collaborazione fra vari autori, che hanno aggiunto dettaglio dopo dettaglio e alla fine hanno costruito un mito. La storia del furto è un pretesto perfetto per fare i conti con un mito, fra realtà e immaginazione”.
Una notte di quasi cinquant’anni fa qualcuno staccò l’enorme tela dalla cornice. Se la portò via, come se fosse un piccolo foglietto di carta. E’ buffo, ma drammaticamente vero, perché a volte la realtà supera l’immaginazione.
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