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Saverio Raimondo tra satira e politica

L'ansia muove l'universo ma non la tv, è la noia del sabato sera

Andrea Minuz

La televisione generalista non sa più a chi parla, e non ha più nemmeno sensi di colpa. Ogni programma subisce la dittatura degli agenti. Imitare gli eletti non ha più senso, bisognerebbe imitare gli elettori

"Io vorrei essere governato da una persona migliore di me, non da uno come me che ha una laurea in Dams”. Con la sua laurea in Dams Saverio Raimondo avrebbe potuto scalare i vertici del M5s, diventare ministro, presidente della Camera, sottosegretario, quantomeno capogruppo, ma alla fine ha scelto la televisione. Se fai televisione e vuoi essere preso sul serio, prima o poi però devi scrivere un libro. Lui ne ha appena pubblicato uno sull’ansia: “Stiamo calmi” (Feltrinelli). E’ un libro umoristico, quindi non è chiaro se valga lo stesso. “Secondo me no”, dice, “ti si filano solo se fai un romanzo”. Il romanzo deve essere sofferto, tormentato, gravido di ricordi d’infanzia, preferibilmente ambientato in collina, fine estate. Il suo libro invece è un elogio dell’ansia, “motore che muove l’universo”. L’ansia come musa, forza, guida spirituale, stile di vita, l’ansia come progetto politico e trionfo di civiltà. Ci sono guide e manuali che insegnano come gestirla, corsi di autocontrollo con test, giochi, questionari, liberarsi dall’ansia, ridurre lo stress, vivere felici, liberi e uguali. C’è “Storia della mia ansia”, l’ultimo libro di Daria Bignardi che però è, appunto, un romanzo (“ho immaginato una donna che capisce di non doversi più vergognare del suo lato buio, l’ansia”). Il libro di Saverio Raimondo invece non si sa bene dove metterlo. Quando ho chiesto al commesso della libreria dove l’avrei trovato mi ha portato nel reparto “medicina, salute & benessere”, anche se gli avevo spiegato che l’autore è un comico. D’altro canto, in bella vista c’era il libro di Giulia Innocenzi sui vaccini, quindi perché no? “Certo, anche io mi sono molto documentato sull’ansia”, mi spiega Raimondo, “ma non mi fiderei mai di me stesso”. “L’altro giorno, l’ho visto accanto a quello di un sopravvissuto del Bataclan, da Feltrinelli invece stava tra i saggi politici, lo mettono un po’ ovunque, tranne che nella categoria libri umoristici”.

 

Se fai televisione e vuoi essere preso sul serio, prima o poi devi scrivere un libro. Raimondo ha appena pubblicato “Stiamo calmi”

“Io ho 34 anni. Ho sempre sofferto di ansia, poi il mondo è diventato ansioso come me”. Tutto più semplice

Nell’epoca del terrorismo globale, il vantaggio di un ansioso cronico è che non ha bisogno di cambiare il proprio stile di vita, come recita il mantra che ci infliggiamo dopo ogni attentato. “Io ho 34 anni”, dice, “ho sempre sofferto di ansia, poi il mondo è diventato ansioso come me”. Tutto più semplice. Con Saverio Raimondo parliamo di ansia, satira, televisione italiana e americana. Parliamo della comicità che ormai non sappiamo più bene in che scaffale mettere. Per esempio, prendere in giro quelli che dopo il voto si sono messi in fila ai Caf per riscuotere il reddito di cittadinanza non va bene. Esprime disprezzo, classismo, scarsa sensibilità per i problemi del sud, ed è pure uno spot per i Cinque stelle. Altro che religione o censura. E’ la retorica della “poveraggente” che uccide la satira. “La storia dei Caf ci ricorda che la battaglia da fare non è sul reddito di cittadinanza, casomai sulla pensione di invalidità”, dice Raimondo, “perché se il giorno dopo le elezioni vai lì a informarti vuol dire che sei deficiente e il fatto di essere povero non ti rende una persona meno deficiente. Il fatto di essere povero non fa di te una persona migliore di me che ti prendo per il culo. I Cinque stelle sono, o vorrebbero essere, l’elettorato al potere, quindi il loro elettore dovrebbe essere un bersaglio satirico perfetto, ma proprio qui le cose si complicano”. Perché? “Perché sta svanendo il senso dell’ironia del pubblico, tutti prendono tutto sul serio, bisogna spiegare sempre le battute. Siamo in un’epoca di “pride” totale: ogni causa e ogni cosa hanno il loro “orgoglio”, ed è un orgoglio che reagisce in modo violento, un orgoglio ottuso e permanente che trasforma tutto in una cosa offensiva”.   Fare le imitazioni dei politici come Crozza è più semplice. I politici rubano, i politici sono corrotti, quando non rubano o non sono corrotti sono ignoranti, grezzi, idioti. Non esiste l’orgoglio della politica. Non c’è il casta-pride. Per questo oggi la vera satira da fare è quella sugli elettori, anzi sulla “deriva autoritaria dell’elettorato”, come dice Raimondo. “Gli elettori sono rabbiosi, violenti, feroci. Basta con le imitazioni dei politici, bisogna fare le imitazioni degli elettori”.

 

Saverio Raimondo ha iniziato a diciotto anni come autore per Serena Dandini e poi non si è più fermato. Oggi è arrivato alla quarta stagione di “Ccn”, il suo late-night satirico trasmesso su “Comedy Central” (canale 124 di Sky). I modelli di riferimento sono tanti. Woody Allen su tutti e poi Louis C. K., David Letterman, Stephen Colbert, Jimmy Kimmel, insomma la televisione e la comicità americane. Il format però è originale. E’ stato venduto anche in Spagna e Sudafrica, anche se i diritti sono tutti per Comedy Central. Saverio Raimondo punta a una rivalutazione postuma, una class-action dei suoi avvocati o degli eredi. La proposta gli è arrivata quattro anni fa. “Comedy Central mi convocò e mi dissero: hai presente John Oliver, vorremmo qualcosa del genere. Ovviamente, non mi è parso vero”. Recentemente tutti hanno familiarizzato con John Olivier per via del suo video sulle elezioni italiane trasmesso su Hbo. Dopo avere presentato e perculato i candidati, Olivier concludeva che “se in Italia siamo messi così, potrei candidarmi anch’io”. In molti si sono offesi per via degli stereotipi e i luoghi comuni sull’italianità. In realtà il video non diceva nulla che non sapessimo già sulla politica, casomai rilevava l’abisso cosmico tra la nostra televisione e quella americana, tra la nostra idea di comicità e la loro. Saverio Raimondo fa parte della new wave comica italiana che sperimenta moduli alternativi al sistema Crozza e allo stile “villaggio-vacanze” di “Colorado Cafè” o “Made in Sud”. Lui, Edoardo Ferrario, Martina Catuzzi, Michela Giraud sono nati tra la metà e la fine degli anni Ottanta, cresciuti con una televisione globale e ancora di più con la stand-up americana vista in streaming (un giorno bisognerà ringraziare pubblicamente i fansubber italiani che ci hanno messo i sottotitoli). “Quelli di Comedy Central sono stati gli unici a voler fare una cosa all’americana in Italia”, mi spiega Raimondo, “un paese in cui molti non sanno bene cosa sia la stand-up comedy”.

 

“Sta svanendo il senso dell’ironia del pubblico, tutti prendono tutto sul serio, bisogna spiegare sempre le battute”

“Gli elettori sono rabbiosi, violenti, feroci”. La vera satira da fare oggi è quella sulla “deriva autoritaria dell’elettorato”

Tutto parte nel 2009, da un’idea di Filippo Giardina. L’idea si chiamava “Satiriasi”, ovvero serate di stand-up che si tengono nei locali romani. Giardina la prende sul serio e ci scrive su persino un manifesto in quindici punti, tra Lutero e Stanislavskij. Prima elenca i principali difetti della comicità nazionale, poi reclama il gusto per il lavoro di scrittura, la costruzione di un punto di vista personale, l’appello al vissuto del comico, il recupero della performance dal vivo. L’operazione era rischiosa. Appiccicare una cosa americana nella realtà italiana genera spesso l’effetto “raduno di musica country a Ladispoli”. In realtà, spiega Raimondo, “avevamo solo bisogno di nuovi modelli, più vicini alla comicità con cui eravamo cresciuti. Non si trattava di scimmiottare l’America ma di aggiornare la comicità italiana a modelli più attuali”. Insomma, di fare il contrario del “Saturday Night Live” con Claudio Bisio. In questi anni, i reiterati, fallimentari tentativi di portare o tradurre in Italia lo show americano hanno dimostrato che gli innesti funzionano solo se passano da una radicale operazione di riscrittura. Peraltro, la forza e l’originalità del “Saturday Night Live” sta nel cambio continuo di conduzione. Il presentatore fisso non esiste. Una cosa inconcepibile nel paese del contratto a tempo indeterminato, così quest’anno ci abbiamo messo Bisio. “Ccn” invece si muove in un’altra direzione. “La parte più importante è il desk”, mi spiega, “l’editoriale satirico che deve esser costruito sulla velocità d’esecuzione della battuta, sulla precisione e la calibratura delle parole. La comicità è più un lavoro ingegneristico che artistico. La comicità ha a che fare col ritmo, prima che col significato”.

 

Penso che non potrei mai fare questo lavoro. Una battuta che hai costruito in modo ingegneristico per chiamare la risata cade nel vuoto, un’altra che non ti convinceva fa venire giù il teatro. Come si fa? “Ci vuole l’orecchio comico, perché in realtà non lo sai mai prima quando una battuta funziona. Alla fine decide il pubblico. Io parto con l’idea che non farà ridere mai, perché ansia e comicità si tengono insieme, si assomigliano, entrambe distorcono la realtà. E poi la comicità è simile all’horror. Sono entrambi generi fisiologici, fanno appello a reazioni visibili, oggettive, misurabili: ridere o spaventarsi. Insomma devono funzionare”. Lo diceva anche Billy Wilder. I film seri e impegnati hanno questo vantaggio che non si sa mai cosa stia pensando il pubblico in sala. Magari si sta annoiando, forse pensa ai fatti suoi, ma non te ne accorgi. In una commedia, se in sala non si ride hai la prova empirica del tuo fallimento. L’ansia esalta questo meccanismo agonistico. “In più la satira è doppiamente difficile” dice Raimondo, “perché devi far ridere ma anche ribaltare un punto di vista, anche se io non sopporto l’idea che si debba far ridere ma anche pensare”. Dunque niente programma su RaiTre come Brunori Sas che cita Bauman e “Palombella rossa”. Ma in Italia è più difficile fare la stand-up comedy, la fantascienza o le riforme? “Decisamente le riforme. Lo spazio per la stand-up si sta creando, ci sono comici scarsissimi, ma ce ne sono anche di bravi, i The Jackal hanno fatto un film di fantascienza e poi c’è Jeeg-Robot che è andato bene. Le riforme invece sono impossibili, non si riesce a fare neanche quelle scarse, figuriamoci quelle utili”.

 


Foto tratta dalla pagina Facebook di Amici


 

Però anche il sabato sera italiano è ancora saldamente in pugno ai programmi “monstre” di Milly Carlucci e Maria De Filippi. Show di punta come “Ballando con le stelle” e “Amici” sforano spesso le quattro ore costringendo lo spettatore a una prova estenuante. Scalette tortuose e maratone di ballo che ricordano le coppie di danzatori con la schiuma alla bocca del film di Sidney Pollack, “Non si uccidono così anche i cavalli”. Quest’anno, la nuova edizione del talent di Maria De Filippi ha una struttura agile quanto il Tar del Lazio: ci sono i capisquadra, il televoto, la commissione “interna” formata dagli insegnanti, quella “esterna” composta dagli artisti (tra cui Heather Parisi, Simona Ventura) e tre fasi di gara. Un meccanismo lungo, contorto, inquisitorio, noioso. Però in omaggio alla temperie populista sono scomparsi i direttori artistici e la giuria, “per rimettere al centro i ragazzi”. “Ballando con le stelle” invece si gioca la carta dei contenuti col tango-gay, la polemica con Ivan Zazzarroni, la violenza sulle donne con Jessica Notaro che balla e legge una lunga lettera agli avvocati di Tavares che le rispondono sulle pagine del “Resto del Carlino”. E’ la sconfinata pesantezza del sabato sera televisivo. Due programmi sul ballo che rendono ampiamente desiderabile e movimentata l’alternativa di RaiTre: “Alberto Angela a spasso nei luoghi dei ‘Promessi sposi’”. Cosa ci dice il sabato sera della tv italiana? “Ci dice inevitabilmente che dall’altra parte ci sono delle persone anziane che non escono di casa”, dice Raimondo, “e che la tv generalista ormai dai anni ha deciso di parlare solo a loro. La pretesa ormai impossibile di parlare a tutti porta a palinsesti che non sono costruiti su target precisi di pubblico, ma su quella che potremmo chiamare la dittatura degli agenti”. Cioè? “Per esempio la durata davvero inconcepibile di questi programmi dipende dal fatto che il conduttore costa tantissimo e dunque cannibalizza il resto del palinsesto. Alla fine, visto che l’hai pagato molto lo devi usare per quattro ore”.

 

I fallimentari tentativi di portare in Italia lo show americano hanno dimostrato che si deve passare da una radicale operazione di riscrittura

Ripartire dal manifesto di Saverio Raimondo. Ricercare convergenze e affinità programmatiche attorno al senso di colpa

Così, si finisce a sbrodolare la scaletta in una ipnosi collettiva. La stratosferica assenza di ritmo dello show all’italiana viene anche da qui. Due settimane fa a “C’è posta per te” hanno inquadrato per otto minuti una porta nera. Maria De Filippi doveva convincere un ospite al confronto con la madre ma quello si è allontanato e ha lasciato tutti davanti la porta. “In realtà la pausa è durata venticinque minuti”, ha spiegato la conduttrice, “con il montaggio ne abbiamo lasciato otto per restituire televisivamente quell’attesa”. Maria De Filippi tra Andy Warhol e Kubrick. Una reazione “highbrow” all’ipnosi di Nadia Rinaldi nel salotto di Barbara D’Urso o più semplicemente la risposta di Mediaset al “blackout” della Rai che un po’ di tempo fa fece ottimi ascolti. Chiedo a Saverio Raimondo se c’è qualcosa che gli piace di questa assurda tv generalista che non ha freni perché non sa più a chi parla: “Mi piace molto la gestione di ‘Chi l’ha visto’. Federica Sciarrelli sembra abbia il banco degli scomparsi al mercato, con le offerte, le promozioni, gli scomparsi congelati e scongelati di tanto in tanto, come per il caso Orlandi”. Il fatto è che oggi per recuperare certi generi e certo pubblico non passi più dalla televisione ma dallo streaming. Però, “se RayPlay lo usi per rivedere le puntate di Don Matteo è come se non ci fosse”. Lo streaming dovrebbe permettere una diversificazione dell’offerta e dei contenuti. Nel 2015 Saverio Raimondo condusse un’edizione sperimentale del “Dopofestival”, in diretta streaming dal sito della Rai. “Un prodotto web-nativo, come bisogna dire in questi casi, cioè pensato apposta per il pubblico dello streaming e che dunque mi permetteva di fare un certo tipo di battute che in tv non avrei potuto fare”. Il “Dopofestival” andò bene e il progetto non fu portato avanti, “perché di fatto non hanno capito bene cos’era”. Il matrimonio tra internet e Rai da noi passa (o almeno doveva passare) da Milena Gabanelli. C’è il problema della Rai, ma c’è anche quello degli editori, perché la Rai è ovunque. La Rai è dentro di noi. “Quest’anno avevo realizzato per ‘Ccn’ una serie di interviste fake con la tecnica di Woody Allen in ‘Zelig’: io e Berlusconi, io e Grillo, Andreotti, Mattarella. La prima intervista doveva essere a Papa Francesco. Dopo averla realizzata, l’ufficio legale ci ha bloccato. Secondo loro, il Papa ci avrebbe denunciato”.

 

Anche una multinazionale come Comedy Central diventa Viale Mazzini. “Ma tu te lo immagini il Papa che guarda Comedy Central? E poi, anche fosse, pensa che straordinaria trovata di marketing sarebbe stata”. Meglio dell’Inferno di Scalfari. I contenuti nuovi passano dagli editori nuovi, ma se gli editori nuovi appena arrivano in Italia diventano come la Rai si fa tutto più complicato. “Io non sono per rivoluzionare il palinsesto, semmai per aggiungere contenuti”. I nuovi comici non sono rottamatori, anche perché, come ricorda Raimondo, “quelli che c’erano prima sono ancora tutti lì”.

 

Nel libro c’è un capitolo dedicati a grandi personaggi storici divorati dall’ansia. Chi è il più ansioso tra i politici italiani oggi in circolazione? “Purtroppo nessuno. I nostri politici non hanno l’ansia, perché la politica è diventata l’arte della deresponsabilizzazione. Magari avessimo degli ansiosi al governo! Abbiamo dei narcisisti, ma non degli ansiosi. Mark Zuckerberg convocato al Congresso per difendersi mi è parso molto ansioso, perché consapevole di doversi assumere delle responsabilità. Un politico italiano se la sarebbe cavata con un’alzata di spalle”.  Dare una connotazione politica a un libro umoristico può sembrare un po’ spericolato. Eppure, Saverio Raimondo suggerisce un’idea ampiamente condivisibile e politicamente rivoluzionaria: la riscoperta del senso di colpa come unico argine al tramonto della vergogna, piaga capitale della nostra epoca. “Una martellante campagna ideologica ha cercato di estirpare dalla nostra vita il senso di colpa: psicologi e pedagoghi sostengono che sia solo un dannoso retaggio cattolico da cui liberarsi, un ricatto emotivo responsabile di ansie e stress inutili che frena la nostra libertà”. Invece il senso di colpa era un vero, puro, profondo baluardo di civiltà. Senso di colpa o barbarie. “Il senso di colpa va ricollocato al primo posto. Abbiamo provato a costruire un senso civico ma lì abbiamo perso tutte le battaglie. Non è col senso civico che smetti di parcheggiare la macchina in doppia fila ma col senso di colpa per l’ingorgo che crei e con la vergogna di doverla spostare davanti a una folla inferocita. Ma non c’è uno né l’altra”.

 

“Ansia e comicità si assomigliano, entrambe distorcono la realtà. E poi la comicità è simile all’horror. Sono entrambi generi fisiologici”

I nuovi comici non sono rottamatori, anche perché, come ricorda Raimondo, “quelli che c’erano prima sono ancora tutti lì”

Avete voluto la scomparsa del senso di colpa, del voto cattolico e dei moderati? Eccoci qui. Soli, abbandonati a noi stessi nella terra desolata dell’uno-vale-uno. Ripartire quindi dal manifesto di Saverio Raimondo. Ricercare convergenze e affinità programmatiche attorno al senso di colpa. Non chiederti cosa il tuo paese possa fare per te, chiediti quanto dovresti sentirti in colpa per quello che non fai tu. La satira è stata ampiamente superata dalla realtà è arrivato il momento di trarne le dovute conseguenze. Ma poi è veramente in crisi come ci ripetiamo sempre? “Se la satira è in crisi”, dice Raimondo, “lo è come qualunque altra cosa. Anche Facebook è in crisi. Però la satira c’è sempre stata e ci sarà sempre. Esiste semmai un problema con la satira italiana. A furia di riempirla di contenuti pensosi, morali, indignati abbiamo trasformato la satira in una cosa minacciosa per lo spettatore. Alla fine di una registrazione di una puntata di ‘Ccn’, una spettatrice si è avvicinata per farmi i complimenti: quando mi hanno detto di venire a vedere un programma di satira ho pensato chissà che palle… invece fa ridere”.

 

Aldo Grasso ti ha definito il più bravo comico in circolazione. Quanta ansia ti mette questa cosa? “Tantissima. Ogni giorno compro il Corriere per vedere se Aldo Grasso fa una rettifica, o dice di essersi sbagliato. Poi io non sono uno di quelli che dice che dalle critiche si impara. Sono meglio i complimenti. Ogni complimento è un’ansia in più per il nuovo standard fissato. La cosa divertente di quella recensione di Aldo Grasso però è che uscita il primo aprile, quindi boh, chissà”.

 

Prima di salutarci gli chiedo di tranquillizzarmi sul romanzo, perché si inizia col libro umoristico, poi ci si prende gusto, arrivano le recensioni lusinghiere e si finisce invariabilmente col romanzo intimista della crisi di mezza età, che è l’alternativa riflessiva al giubbetto di pelle, alle T-Shirt con le scritte e alla moto. “No, no non me la sento di impegnarmi, ma comunque non credo, più che altro perché la forma romanzo fa a pugni con la comicità”. Però ci sono le pressioni degli editori, degli agenti, le circostanze, la sopravvalutazione di sé stessi. Col romanzo nel cassetto non si scherza. Mai abbassare la guardia. “Ma tanto io non sarei capace, non penso di essere in grado”.

 

Anche Roberto Fico diceva così e guarda dov’è.

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