Gli sponsor che lasciano il Grande Fratello sono un problema di democrazia percepita
La scelta delle aziende di andarsene dal programma è la conseguenza di una frattura tra il pubblico: c'è un maggioranza silenziosa che guarda senza commentare e una minoranza rumorosa commenta con posizioni e opinioni omogenee
Ora che gli sponsor abbandonano il Grande Fratello è già tempo dei primi bilanci. In quattro settimane è successo di tutto. Omofobia, razzismo, bullismo, triangoli e quadrilateri amorosi, figli ripudiati, corpi post-umani perturbanti, ex che si chiariscono e si augurano “nuovi percorsi”, tradimenti decisi a tavolino, ragazzi dismorfici ma “sensibilissimi”, democrazia della rete, rivolte e boicottaggi. Tutto trattato superficialmente, con il ritmo di una soap mandata avanti veloce, dove quel che è giusto lo decide Barbara D’Urso nella doppia veste di piromane e pompiera. Ha fatto di tutto per non annoiarci, compresa la scelta dei concorrenti: a panettieri e bagnine ha preferito il proprio cast di casi umani per rinnovare un format morto che non rendeva più. E ha funzionato: il pubblico è tornato a guardare il Grande Fratello, un po’ guilty pleasure da guardare dietro il filtro dell’ironia o del trash, un po’ di nascosto facendo zapping notturno per poi stigmatizzare. Tutti d’accordo nel dire che lei è bravissima ma il programma è tv cattiva maestra. Capita che le opinioni più banali e conformiste ci facciano sentire intelligenti.
Ai concorrenti la produzione ha dovuto ritirare le lenzuola, l’acqua in bottiglia, i trucchi, i costumi da bagno, i giochi offerti dai brand, e se potessero i chirurghi rivorrebbero indietro la faccia dei Ken. Sempre più sponsor ritirano i propri marchi dal reality perché, si legge negli imbarazzanti comunicati, non vogliono essere associati a un programma che promuove messaggi negativi. Tutti fingono di non sapere che a essere spettacolarizzata è la punizione dei bulli, e che in nessun momento è stata promossa l’idea che la violenza sulle donne, verbale o fisica, fosse positiva. Mai. Ciò che è successo è invece che due tipi di pubblico si sono scontrati. La maggioranza silenziosa che guarda senza commentare e la minoranza rumorosa, una fan base di siti di gossip (Trashquotidiano.it e Bitchyf.it in testa), che passa il tempo a guardare le dirette, fruculiare il web, commentare online tutto ciò che accade nella casa con posizioni e opinioni omogenee.
La frattura tra i due pubblici è avvenuta quando Aida Nizar è uscita col televoto. Aida è percepita sul web con simpatia: sopra le righe, isolata per le proprie stranezze linguistiche e culinarie, vittima del branco. Poteva essere la rivincita dei nerd contro i bulli che le avevano urlato di andarsene, che l’avevano presa in giro, che le avevano fatto discorsi deliranti e conservatori sui valori italiani (la pizza, il tiramisù, il burro: ogni scusa gastronomica era buona per litigare). E invece la maggioranza silenziosa ha deciso che Aida doveva andarsene, con oltre il 50% dei voti, perché come si dice in questi casi: «Non gli è arrivata».
La minoranza rumorosa non ha accettato la sconfitta e la parabola è stata 1) sconfitta generale (“che schifo, gli italiani hanno preferito il fascista Favoloso”), 2) il complotto (“televoto pilotato”), 3) infine la rabbia espressa nel boicottaggio (#Adiosgf15).
La minoranza rumorosa ha deciso che in televisione passano messaggi negativi mentre online è il regno della democrazia rappresentativa, della rivincita sociale, del pensiero critico. È la stessa che urla barabba barabba, che in genere offende Barbara D’Urso con epiteti irriferibili, e che con il proprio nome e cognome scrive messaggi di questo genere: “Dovete togliere il trucco ai concorrenti per far sì che vi possiamo credere. Quest'anno è stato uno schifo. X forza, lo conduce pure la scema. Bisogna cacciare tutti. Hanno trattato problemi Seri in un programma di merda”.
Facciamo un passo indietro: il primo cazziatone spiegava già tutto. Barbara era chiamata al confronto con Danilo in merito ad alcune segnalazioni online circa ciò da lui scritto qualche anno prima su Facebook. Messaggi equivoci sulla comunità senegalese (qualcosa del tipo “se non vi piace qui tornatevene a casa”, e commenti vagamente omofobi nei confronti del video di un ragazzo femmineo che ballava). Barbara gli aveva mostrato gli articoli dei pezzi di gossip (e già qui potremmo sintetizzare il rapporto coi media in “se ti leggono sei interessante”, che tu sia La Stampa o un quindicenne che si esprime in gif non conta), lo aveva messo di fronte alla percezione del pubblico, identificato interamente come quello rumoroso online, lui aveva abbozzato delle scuse che lei aveva finto di non pretendere dicendo una cosa tipo “se è quello che pensi veramente lo rispetto perché rispetto le opinioni di tutti”.
Ma tutti chi? Anche se i concorrenti del GF pensano d’essere visti da tutti gli italiani il pubblico è di circa quattro milioni di spettatori, tra questi ci sono quelli che interagiscono (minoranza rumorosa) con messaggi sui social. Per esempio #adiosfavoloso, il cancelletto con cui si chiedeva l’eliminazione di Luigi Favoloso via Twitter, contava diecimila messaggi. Ne basta anche solo uno, un solo commento, per convincere un marchio a dissociarsi, a eliminare i propri prodotti dalla casa, a fare bella figura. Ma il pubblico della maggioranza silenziosa, o se vogliamo la democrazia, non è rappresentato da quelli che passano il tempo su internet a lamentarsi, diffondere schermate, memi, gif, e che prendono frammenti di messaggi scritti in chissà quali circostanze e le interpretano a seconda dell’umore o della simpatia. (Potremmo dire anche che non è rappresentato da quei quattro gatti che scelgono con un sondaggio i propri rappresentanti politici, ma è un discorso complicato). Quando la maggioranza silenziosa ha cacciato Aida (una che ha più futuro nel salotto di Barbara D’Urso che nella casa), la minoranza rumorosa ha deciso di fare lobbying: per dimostrare di contare di più nel D’Urso-universo e di essere l'unico vero pubblico. È quello che succede quando dai la parola a tutti e fingi che t’importi.
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