La tv e l'epopea populista
Come le reti televisive si sono impegnate fino allo spasimo per portare al governo Lega e Cinque stelle
La televisione è stata il grande nutrimento della narrazione populista e quando la narrazione è andata a sbattere, la tv è corsa in aiuto dei suoi eroi. Li abbiamo allevati noi, non potete toglierceli così. Dopo il gran rifiuto di Mattarella, Di Maio e Salvini vanno a protestare a “Pomeriggio Cinque”, “Matrix”, “Non è l’Arena”, “Che tempo che fa”. La tv a reti unificate sciorina la loro indignazione per il Quirinale, le banche, i mercati, la democrazia sotto scacco delle élite. Slogan elettorali riportati meccanicamente, senza contraddittorio, senza verifica delle fonti, mentre il “popolo” cerca “impingement” su Google. A “Che tempo che fa” va in scena una surreale telefonata con Di Maio che si prende tutta la prima parte della trasmissione. Fazio ammutolisce accanto a una sedia vuota, come Clint Eastwood quando sbeffeggiò Obama. “Non è l’Arena” fa il record stagionale (13,5 per cento di share). “E’ anche una mia rivincita personale”, dice Giletti, “domenica sera il servizio pubblico era su La7, non su RaiUno. Lì c’erano nani e ballerini”. La “notte della Terza Repubblica” è stata un trionfo per la televisione generalista e i format anticasta. Un risarcimento simbolico per la mancata qualificazione dell’Italia ai Mondiali: i populisti battuti in finale dalle élite nei minuti di recupero, con un rigore dubbio come quello del Real contro la Juve (si sa che i Poteri Forti hanno un bidone della spazzatura al posto del cuore). Eppure eravamo solo all’inizio. Dal giorno dopo, cambi di scena, smentite, ritorni, tutto a una velocità supersonica, raramente riscontrata in romanzi, film e serie tv italiane. Avercene di narratori così. Le nostre vite si sono trasformate in una “maratona Mentana” senza Mentana, spalmata su tutta la settimana con aggiornamenti ogni due ore.
Le nostre vite si sono trasformate in una “maratona Mentana” senza Mentana, tutta la settimana con aggiornamenti ogni due ore
L’incredibile vicenda politica si è costruita pezzo dopo pezzo come un racconto televisivo che ha definitivamente assunto i contorni di un reality, altro che “infotainment”. Per esempio, ormai si chiamano tutti per nome: “Luigi mi ha detto”; “no Lilli per favore”; “se Matteo vuole”; “Barbara, guarda”. “Sergio” è ancora Mattarella perché con le élite usa il cognome ma se sono dalla parte del popolo nome e cognome, come Paolo Savona. I tempi del bon-ton e delle liturgie paraistituzionali della “terza camera” di Bruno Vespa sembrano ormai lontanissimi. “Speravo di venire qua a raccontare il mio primo giorno da ministro”, dice da Barbara D’Urso Matteo Salvini, vestito come un giudice di “Ballando con le stelle”. “Io ti parlo come una del popolo, sono una del popolo”, spiega invece D’Urso a Di Maio: “Sicuramente”. Poi le “gallery” dei giornali: Conte e Di Maio col cartone della pizza sottobraccio, altra pizza di Di Maio a Napoli (“una pizza così Oettinger se la sogna”), Franceschini con gli scatoloni come i trader di Lehman Brothers a Wall Street. Perché non c’è solo la tv. La tv acquista spessore perché si incrocia con tutto mentre tutto si modella sui contenuti televisivi, a partire dalla liturgia della diretta. Ci sono le dirette streaming di Travaglio e Scanzi su “Loft Live”, quelle di Scanzi e Sommi su Canale 9, quelle di Di Maio su Facebook che a volte sembra parli da dentro uno sgabuzzino. C’è Instagram improvvisamente invaso da pagine evidenziate di manuali di diritto pubblico costituzionale, mentre Gabanelli spiega lo spread su “Dataroom”. Ci sono performance, adunate, flash-mob. Tutti col tricolore alla finestra, chi ha il balcone aggiungerà una pila di libri del professor Savona. Come ha scritto David Allegranti, mettendo tutto insieme sembra una puntata di “Black Mirror”, però diretta da Nanni Moretti. Una cosa è certa: gli italiani hanno imparato a conoscere l’Italia al cinema, l’italiano alla televisione e il diritto costituzionale su Facebook.
In questo scenario, dispiace dirlo, i lunghi pensosi post di Matteo Renzi non smuovono granché. Si perdono nelle onde tumultuose dell’oceano populista. Nei momenti di mestizia ci si augura con Oettinger che l’andamento dell’economia italiana o un minimo di alfabetizzazione economico-finanziaria (siamo sempre penultimi, davanti alla Colombia) possano un giorno essere un segnale per gli elettori. Ci crediamo poco. Magari i mercati spostassero un decimo dei voti che sposta la televisione, specie la resa della televisione all’egemonia culturale del populismo. Da dove partire per immaginare una televisione generalista non populista? Toccherà mica rispolverare il modello pedagogico? Per carità. Primo: respingere con forza l’idea che la colpa sia della tv in quanto tv. Anche se da Adorno a Bourdieu gli intellettuali ci hanno spiegato che con la tv è una battaglia persa in partenza, bisogna sempre ricordarsi che la tv la fanno le persone. Ci sono le inesorabili ragioni degli inserzionisti, della censura, dello share, ma ci sono anche le responsabilità dei giornalisti. Si prenda un bravo giornalista come Floris. Più in tv lascia ampio spazio al populismo, più nella saggistica diventa pedagogico. Recensendo il suo ultimo libro, “Ultimo banco. Perché insegnanti e studenti possono salvare l’Italia”, Ferrucio De Bortoli scrive che “Floris si domanda se tutto quello che sta accadendo nella politica, nel comportamento della classe dirigente, non sia l’inevitabile conseguenza del tracollo della scuola”. Nessuno dei due sembra sfiorato dal ragionevole dubbio che c’entri qualcosa anche il megafono anticasta in onda ogni martedì sera su La7.
Se la Rai democristiana ha formato gli italiani del dopoguerra, quella di oggi dovrebbe preoccuparsi di farli diventare europei
Poco tempo fa i giornali riportarono i dati di una ricerca di Paolo Pinotti (docente di Analisi delle politiche e management pubblico all’Università Bocconi), Ruben Durante (professore di economia all’Università Pompeu Fabra di Barcellona) e Andrea Tesei (ricercatore del centro di economia politica alla Queen Mary University di Londra) sull’influenza decisiva esercitata dall’ “infotainmente televisivo” sul voto populista. L’idea che la tv commerciale favorisca per forza di cose i toni forti, esagerati e spettacolar-indignati della narrazione populista regge sì e no. Fazio ha messo in mano la trasmissione a Di Maio senza battere ciglio. Mediaset ha chiuso “Quinta Colonna” e cambiato la squadra a “Dalla vostra parte”. Chiudere una trasmissione però può sempre alimentare lo spettro del bavaglio, dell’informazione scomoda, di un intervento di Bruxelles. Chiaramente, la paura è un formidabile carburante delle politiche populiste, dunque anche un ingrediente decisivo della televisione. La paura è fatta apposta per la tv, funziona sul piano narrativo, spettacolare, giornalistico, produce schemi oppositivi semplici. Si sa che una delle cose più complicate in televisione è far prevalere le categorie analitiche su quelle morali. A volte però basta anche un primo piano sulla faccia perplessa, sconsolata e incredula di Massimo Franco mentre parla Di Battista a “Otto e mezzo”. Ospite da Lilli Gruber, prima di partire per il Sudamerica a caccia di reportage, Dibba ci regala un’ultima perla: “Scrivere è il mio lavoro”, dice rivolto al giornalista del Corriere, “come d’altronde è anche il suo”. “Certo”, risponde Franco, con una faccia su cui si potrebbe costruire un manifesto politico. Il fatto è che di tutte le paure cavalcate dalla tv in questi anni (paura dell’immigrazione, paura delle riforma costituzionale, paura del fascismo, paura dell’Islam, paura del freddo d’inverno e del caldo in estate) mai una volta che abbia trovato posto la paura di uscire dall’euro, tantomeno quella di finire come il Venezuela. Basterebbe un bel reality en-plein air come “La strada senza tasse”, con Flavio Insinna, riscritto non già sullo schema della democrazia diretta e dell’autogoverno (lì si immaginava la vita di una comunità senza Comune alla prese con la gestione di tutte le spese) ma su quello dell’appartenenza all’Europa. Un reality condotto da Barbara D’Urso che racconta l’esperimento di due piccole comunità, una rimasta nell’euro e uno uscita dalla moneta unica con un bel referendum su Facebook. Titolo: “Piano B”.
La paura è fatta apposta per la tv, funziona sul piano narrativo, spettacolare, giornalistico, produce schemi oppositivi semplici
Quando Di Maio disse che l’Italia avrebbe dovuto seguire “il modello economico Maduro”, giornali e televisioni hanno in gran parte lasciato che a indignarsi ci fosse solo uno sparuto gruppo di rappresentati della comunità venezuelana in Italia. Una televisione non-populista non è una televisione che censura la litania contro l’establishment, ma che all’occorrenza ne sa confutare e smontare gli sfondoni, la truffa e la fuffa dialettica. Come ricorda un bel libro di Ilya Somin (“Democrazia e ignoranza politica”), l’ignoranza dell’elettorato sui temi politici è un problema strutturale in ogni democrazia (anche se da un’indagine del 2014 su 14 paesi l’Italia era ultima davanti agli Usa) però colpisce in particolar modo i temi economici. E’ anzitutto dall’ignoranza economica – non conoscere i dati della crescita, le cifre sulle “diseguaglianze economiche”, sovrastimare il tasso di disoccupazione (ad aprile il numero degli occupati ha raggiunto il record storico di 23 milioni e 200 mila) – che trae energia il discorso populista. Ma ogni discorso su una televisione non sfascista, non catastrofista, non perennemente indignata, ogni discorso su una televisione che non accetta di consegnarsi armi e bagagli alla voce del populismo deve necessariamente partire dal servizio pubblico.
L’ignoranza dell’elettorato sui temi politici, un problema strutturale in ogni democrazia. Però colpisce in particolare i temi economici
Tralasciando il fatto che Alberto Angela è a suo modo una risposta concreta agli scellerati processi di disintermediazione e alla morte della competenza (“Nei dieci anni in cui ho lavorato come ricercatore ho sempre sentito che mancava un intermediario tra la ricerca e il grande pubblico”, diceva in un’intervista di qualche anno fa), proprio in queste ore possono tornare utili le tesi sul servizio pubblico televisivo di Jerome Bourdon, professore di Storia dei media all’Università di Tel Aviv. Nei suoi lavori Bourdon cerca di smontare i miti sui cui nel dopoguerra si è costruita l’ideologia del servizio pubblico, tra cui anzitutto quello pedagogico. Bourdon suggerisce che oggi una delle ambizioni più alte e significative per il servizio pubblico dovrebbe essere quella di funzionare da “collante europeo”, anche perché il servizio pubblico è in sé uno specifico della cultura e della storia europee. Un’ambizione culturale, identitaria e politica, perché di fronte alla minaccia di disgregare il progetto dell’Europa unita i tre termini non sono tra loro separabili. Solo che a parte “Giochi senza frontiere” e l’“Eurovision song contest”, sin qui si è fatto poco. Costruire una coscienza europea attraverso il servizio pubblico è certo un lavoro che dà i suoi frutti solo sul lungo periodo, ma se la Rai democristiana ha formato gli italiani del dopoguerra, quella di oggi dovrebbe preoccuparsi di farli diventare europei. Dovrebbe saper raccontare l’Europa come un modello di libertà e emancipazione, non solo di schiavitù economica e oppressione normativa. L’idea di servizio pubblico come collante europeo suggerisce la costruzione di un progetto identitario forte e profondo che supera i vecchi schemi culturali della tv pedagogica, ma realizzarlo concretamente non è facile. Per esempio, “fornire conoscenze che permettano di partecipare al dibattito democratico”, come scrive Bourdon è molto bello da dire ma complicato da mettere in piedi senza ritrovarsi a fare il maestro Manzi a Bruxelles. Il grande merito dell’affaire Savona potrebbe essere quello di aver finalmente introdotto il tema Europa nelle campagne elettorali italiane, ancora schiacciate fino a pochi mesi fa su fascismo e antifascismo. E’ da qui che si parte per immaginare una tv non asservita ai codici del populismo. In questi anni la Rai ha trovato delle punte di eccellenza con la divulgazione culturale e scientifica, sia in ascolti che in qualità. Vedi Roberto Bolle, vedi Alberto Angela. Manca però un Alberto Angela per l’Europa, un Alberto Angela per l’educazione economica, la cultura d’impresa, lo sviluppo tecnologico. Mancano programmi capaci di spiegare, ad esempio, che la causa dei problemi italiani non è l’euro ma, come ha ricordato Visco nella relazione annuale di Bankitalia, “l’irrisolto dualismo nord-sud, la scarsa produttività, una struttura di imprese troppo piccole, una bassa spesa per investimenti”.
Sin qui a sentire la parola “Europa” in televisione veniva già da sbadigliare. Improponibile il confronto col racconto populista dell’oppressione finanziaria della Bce su cui è costruita la serie Netflix, “La casa di carta”. Però bisogna provare. Bisogna correre il rischio. Ed è un rischio che può correre il servizio pubblico insieme a chiunque vorrà smontare il progetto di un’Italia senza Europa, senza euro, in balia dei talk-show anticasta.
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