C'è vita oltre la Rai
Il colore, il satellite, il digitale. Ora internet e il fenomeno Netflix, e non è finita. Quando è in crisi, la televisione riesce sempre a inventarsi un futuro. Oggi lo si gioca sul prodotto e sul controllo dei due pilastri del tempio: l’informazione e l’intrattenimento. Un’indagine
La stanza è piccola, illuminata solo da schermi di computer normalissimi, a giudicare dall’apparenza. Non c’è nulla di grande, nessun effetto speciale, niente polvere di stelle, né mirabilia da Cinecittà: nella palazzina della Lux Vide, tutto assomiglia piuttosto a un laboratorio high tech. Due giovani, un ragazzo e una ragazza, stanno doppiando. “In inglese?”. “No, in italiano”, risponde Luca Bernabei quasi meravigliato dalla domanda. Poi dopo una breve pausa nella quale assapora una certa soddisfazione: “Perché ‘I Medici’ lo giriamo in inglese. Il primo requisito per gli attori è parlare la lingua di Shakespeare senza inflessioni americane né birignao oxoniensi”. L’inglese della Bbc, dunque, l’idioma della globalizzazione. “Guardi qua”. E mostra qualche ripresa di un casting dove un candidato si destreggia con una pronuncia perfetta. “Ecco, poi vedremo come recita”. Il confronto è davvero arduo, con mostri sacri del calibro di Dustin Hoffman. La società di produzione è nata da un uomo che ha in gran parte costruito la Rai così come la conosciamo, Ettore Bernabei il quale, arrivato alla pensione, nel 1992 fece una scommessa: tradurre in immagini il libro più letto al mondo, cioè la Bibbia; tutta, il Vecchio e il Nuovo Testamento, non singole parti come aveva fatto John Huston. Un’idea semplice e di grande successo: 21 film venduti in 140 paesi. La Lux Vide è presieduta da Matilde Bernabei e gestita da suo fratello Luca. Dal 2000 produce per Rai1 una serie come “Don Matteo” che si rigenera a ogni stagione (ne è stata annunciata già una dodicesima). “Lavoriamo in base ai target. Conquistiamo pubblico nuovo con nuove linee narrative, per esempio abbiamo attratto molta audience anche tra giovani”, spiega l’amministratore delegato. “I Medici”, lanciata due anni fa, ha fatto compiere il salto dalla coproduzione vecchio stile a una vera integrazione internazionale. Netflix la distribuisce nel mondo americano e in India, anche se nasce e rivive, puntata dopo puntata, in via Settembrini nel quartiere Prati, a duecento metri dalla direzione Rai.
Non c’era bisogno di Netflix per introdurre i serial di gran successo, ma l’azienda californiana ha cambiato il paradigma
Non c’era bisogno di Netflix per introdurre i serial di gran successo (pensiamo solo ai “Sopranos” di Hbo), ma l’azienda californiana ha cambiato il paradigma, facendo compiere un salto all’intero mondo dell’intrattenimento. E’ qui, dunque, il futuro della televisione? Calma, non arriviamo a facili conclusioni. Il cammino è lungo, molte e diverse sono le caselle da riempire. Una sola cosa appare chiara: è in corso una metamorfosi profonda e dal bozzolo uscirà un essere ibrido, oggi come oggi difficile definire. Tante volte hanno intonato il de profundis per quel decodificatore di impulsi che ha cambiato l’esistenza di almeno due generazioni. La televisione, però, ha molte vite, forse ancor più di sette; adesso sta attraversando soltanto la sua sesta esistenza: dalla macchina dello scozzese John Logie Baird nel 1928 siamo passati al tubo catodico, la diretta dalla Luna ha segnato una svolta davvero spaziale, poi il colore, il satellite, la rivoluzione digitale e internet.
Ogni nuova tecnologia ha spiazzato quella precedente, ma non l’ha seppellita. La tv doveva cancellare il cinema e il teatro, non parliamo delle videocassette; i cd avrebbero dovuto far sparire i concerti, non parliamo del personal computer o dello smartphone. Poi è arrivata la centralità della rete internet, cresciuta quasi in sordina nei primi anni 90, esplosa a cavallo del nuovo secolo e, dopo aver attraversato una crisi come sempre accade nelle innovazioni distruttive, è diventata così centrale da segnare l’epoca in cui ci è dato di vivere. Gli effetti dirompenti sono evidenti, tuttavia le due grandi I, Informazione e Intrattenimento, rappresentano ancor oggi i pilastri che reggono l’intero tempio televisivo. Film, canzoni, concerti, opere liriche, partite di calcio allo stadio, stanno ancora tutte lì. Nulla ha sostituito l’informazione in diretta, comunque e dovunque la si riceva, su un orologio da polso come su un maxischermo al Circo Massimo. Sembra un elogio del tempo perduto, il ragionamento di una generazione ormai passata. Invece, è esattamente il contrario: mentre il boom dei social media comincia a stancare anche gli investitori di Wall Street, la più grande “guerra di mercato” si combatte per controllare proprio il magico mondo delle due I.
Lo sbarco della tv nella rete è già nelle cronache, adesso in più la sua forza di attrazione sta cambiando la stessa internet
Stiamo assistendo a una contaminazione tra tv e internet che si svolge in forme parzialmente inattese. Il primo movimento, cioè come la rete ha trasformato il modo di usufruire la televisione è già molto evidente; il secondo movimento, ovvero lo sbarco della tv nella rete, sta già nelle cronache, ma quel che appare più nuovo e forse dirompente è il terzo passaggio, cioè la forza di attrazione della tv che sta già cambiando la stessa internet. “Tutti possono farsi un video, comporre una canzone, lanciare messaggi che possono essere visti da milioni e milioni di persone – dice Darren Childs – YouTube è una piattaforma aperta sulla quale chiunque può piazzare il suo canale tv, ma, siamo chiari, nessuno nella sua camera da letto può filmare nemmeno un episodio di ‘Downton Abbey’” (prodotta dalla Itv, rete privata britannica, e dalla Pbs, l’unica televisione pubblica americana). Yahoo, Google, Amazon, Apple, YouTube dopo aver spacciato l’illusione che tutti possano essere Steven Spielberg o Walter Lippman, spendono miliardi per cercare e assumere i nuovi Spielberg e Lippman. Dopo aver venduto a un pubblico in parte ignaro in parte credulone un’utopia, adesso diventano più realisti del re.
Nulla di quel che si temeva è accaduto, dice Darren Childs, il ceo di Uktv (joint venture tra Bbc e Scripps) che copre una quota di mercato del 10 per cento ed è stato uno dei maggiori successi degli ultimi anni. Certo, la tv è in crisi, ma la sua crisi significa più che mai cambiamento. La vera novità non è il mezzo attraverso il quale si vede la tv, e non è nemmeno l’avvento di internet che di per sé, finché resta una rete, è un canale distributivo sia pur gigantesco. Aldo Grasso, docente alla Cattolica di Milano e critico televisivo per il Corriere della Sera, mette in guardia da una visione deterministica, unilineare dello sviluppo: “Dobbiamo concepire le tecnologie e i mezzi di comunicazione in particolare quasi come organismi viventi che debbono essere capaci di mutare”. Questa mutazione può essere progressiva o avvenire per salti: come nell’evoluzionismo secondo Stephen Gould, c’è posto anche per la creazione. E adesso siamo nel bel mezzo di questo salto. Tutto scorre, allora, e nulla cambia? Non è così. Nessuno può negare che sia in corso una svolta profonda per mezzo della influenza convergente di diversi fattori. Le innovazioni tecnologiche hanno sfidato la televisione in chiaro, mentre sul piano demografico-sociale s’è creata una forte divaricazione tra una fascia d’età sempre più anziana legata alla televisione tradizionale e giovani alla ricerca di sempre maggiore personalizzazione e interattività.
La possibilità di ricevere in streaming quello che veniva erogato dall’alto. I giganti “over the top”, o la tecnologia populista che insidia il predominio dell’oligarchia televisiva
Secondo alcuni è anche possibile individuare un momento in cui la ruota ha cominciato a girare: il 2011. Per 30, 40 anni la gente che vedeva la tv era rimasta sostanzialmente la stessa, da allora il tempo trascorso davanti allo schermo è sceso rapidamente, così come l’audience giovanile: da 24 a 15 ore la settimana per i ragazzi fino a 24 anni (dati del 2016, e oggi sarà ancora meno). “Abbiamo perso il controllo – spiega Tom Ascheim di Freeform, la ex Abc Family – Prima avevamo noi il telecomando, adesso è nelle mani dei consumatori. Ciò è dovuto, senza dubbio, alla centralità assunta dalla rete e alla possibilità di ricevere in streaming quel che veniva erogato dall’alto, in modo sostanzialmente rigido e uniforme”. E’ la ricaduta ludica della frammentazione sociale e dell’individualismo non solo nei gusti, ma soprattutto nei valori.
Sul piano demografico-sociale s’è creata una forte divaricazione tra una fascia d’età sempre più anziana legata alla televisione tradizionale e giovani alla ricerca di sempre maggiore personalizzazione e interattività
“Netflix introduce senza dubbio grandi novità – sottolinea Aldo Grasso – più personalizzazione, prodotti che vanno condivisi. Così attrae i giovani, mentre non si può negare che l’attuale produzione della tv generalista si rivolge a un pubblico di una certa età. E’ vero che la popolazione invecchia, ma è solo un’attenuante. Netflix ha riportato in primo piano il prodotto, ha ripristinato la sua centralità: è questo che conta a prescindere da chi lo distribuisce”. Tuttavia, anche Grasso riconosce che il nemico della televisione si trova nelle Ott: “Sono loro che rubano il clou del programma, sono loro che consentono di vedere l’immagine chiave o leggere la notizia esclusiva gettando tutto il resto. E’ un modo diverso di fare informazione”.
“E’ l’informazione per frammenti”. Massimo Mantellini, analista dei media per l’Espresso e con il suo Manteblog, la chiama così nel libro pubblicato per Einaudi, “Bassa definizione”. “La frammentazione riguarda anche la tv – aggiunge – Resta la necessità di un palinsesto, di un luogo e di uno strumento che offra una sintesi, un riassunto generale, in fondo è anche quel che fa Netflix per i suoi prodotti di intrattenimento. Tuttavia la televisione non può ignorare gli effetti delle nuove tecnologie, il loro impatto sul linguaggio e sulla conoscenza”. Nessuno può far finta di non sapere che i propri contenuti verranno amputati, poi ricostruiti e ciò crea un diverso immaginario. “Tutti tengono la tv accesa a dispetto delle previsioni di molti esperti come Clay Shirky – insiste Mantellini – Ma nonostante il suo successo, la tv è andata in mille pezzi lo stesso: oggi la sua più rilevante espressione, disponibile per un tempo sufficientemente lungo, quella che viene ripetutamente riproposta, consiste nei suoi frammenti migliori, pillole audiovideo archiviate dentro YouTube che è diventata la biblioteca universale per milioni di questi piccoli frammenti”.
Google, Yahoo, YouTube “rubano il clou
del programma, sono loro che consentono di vedere l’immagine chiave o leggere
la notizia esclusiva gettando tutto
il resto” (Aldo Grasso)
La Bbc più volte ha cercato di spezzare i confini tra la bassa risoluzione pulviscolare e l’alta definizione, trasmettendo in diretta e poi rendendo disponibile sul proprio canale YouTube i concerti estivi di Glastombury. Ma chi viene colpito di più dal nuovo ambiente a bassa definizione in fondo non è l’intrattenimento e nemmeno l’editoria, è l’informazione. Ciò investe la natura del prodotto e la sua qualità. Le notizie in pillole frantumano il quadro complessivo che è fondamentale per capire. Ci sarà sempre più bisogno di giornalismo di inchiesta, di analisi come di racconti dal basso, ma oggi come oggi nessuno è disposto a pagarlo. Ecco perché Google è l’avversario principe sia della televisione sia dei giornali.
Che fare? Lasciamo che l’informazione consumi prima o poi il proprio dilemma e trovi un nuovo modello, intanto costruiamo il Netflix europeo, come vorrebbe Vincent Bolloré, o magari quello italiano come sogna Luigi Di Maio? E’ diventato quasi un luogo comune, ma l’originale non ammette copia. Netflix nasce a Scotts Valley in California da Reed Hadtings e Marc Randolph, due venditori di videocassette, dopo che internet ha mandato a gambe all’aria Blockbuster e i suoi imitatori. Dal 1997 al 2008 ha distribuito dvd e videogiochi via internet, poi avvia l’attività di streaming on demand, due anni dopo sbarca in Sud America, dal 2016 è pressoché ovunque e produce non solo negli States, ma in ben 21 paesi in lingua nazionale, Italia compresa (anche se le attività italiane sono in capo a cinque addetti domiciliati ad Amsterdam). Rivendere film e programmi altrui a basso prezzo funziona finché i produttori non si accorgono che Netflix sta rosicchiando non solo i loro arti, ma tutto il corpo. A quel punto, non resta che compiere il grande salto che è anche un grande azzardo: è il 2013 e lancia “House of Cards”, la sua prima serie originale che si rivela un successo mondiale. E’ fatta, ma diventa un condanna seriale (letteralmente parlando). Il paradosso è che è stata una tv via cavo tradizionale come Hbo a lanciare le prime serie della nuova èra (si pensi ai “Sopranos”), ma Netflix surclassa tutti. Nel 2016 sforna 126 prodotti originali. E i costi s’impennano, mentre gli inseguitori sono a una incollatura. Disney che porterà in streaming i suoi superoi, Fox, Warner Bros, Hbo, ma non solo: Apple, Amazon, YouTube, la platea dei concorrenti diventa ogni anno più ampia, e Netflix deve spendere e deve indebitarsi.
Jeff Bewkes, l’ex capo di Time Warner, aveva paragonato Netflix all’esercito albanese, ma lui non aveva capito che Reed Hastings aveva ragione nello scommettere sull’evoluzione di internet, diventata in poco tempo un veicolo affidabile per prodotti di alta qualità. Così, gli albanesi si sono fatti largo, eccome, tra i dragoni imperiali. Il successo ha fatto lievitare il valore di borsa dell’ultimo arrivato: 170 miliardi di dollari, più di Disney, e per una impresa che non ha mai fatto un dollaro di profitto.
Netflix è una bolla finanziaria? Se lo chiede anche l’Economist che pure gli ha dedicato una simpatetica storia di copertina. Con un abbonamento medio di 10 dollari, quest’anno, aggiungendo i nuovi abbonati, potrà incassare al massimo 14 miliardi, ma deve spendere, secondo le stime di Goldman Sachs che si basa sui progetti messi in cantiere, almeno 22 miliardi l’anno di qui al 2022. Oggi come oggi i debiti ammontano a 8,5 miliardi di dollari. E sono destinati a impennarsi.
Jon Thoday, fondatore di Avalon Entertainment, è molto netto: “Il problema di Netflix è che il suo modello compra-subito paghi-dopo dipende da una crescita sempre più veloce dei suoi debiti, che salgono in modo esponenziale. Il rischio, dunque, è diventare vittima del proprio successo. Gli studios si sono svegliati e le grandi catene generaliste hanno cominciato a sfornare prodotti competitivi e non vedo come Netflix possa continuare a crescere se non fa sempre di più o non si assicura la maggior parte dei prodotti sul mercato”. La relativa tranquillità di Mediaset si basa anche sulla convinzione che Netflix, avvicinandosi al culmine della propria parabola, sarà costretta a entrare in una rete di relazioni più ampia. Il secondo trimestre dell’anno è stato deludente: la compagnia americana ha aggiunto 4,47 milioni di clienti in tutto il mondo invece dei 5 milioni previsti. Il valore delle azioni, che era raddoppiato lo scorso anno, è sceso del 14 per cento. Un crollo forse eccessivo, tuttavia riflette la debolezza dei fondamentali e la sensazione che il pallone si stia sgonfiando.
Se è così, il progetto di Vivendi per una alleanza europea anti Netflix è già invecchiato. Sono passati due anni da quando Bolloré ha lanciato la sua scalata a Mediaset. L’attacco è stato respinto da Silvio Berlusconi, dalla famiglia e dai fedelissimi di sempre, come Fedele Confalonieri, Gianni Letta e in particolare Ennio Doris, con il suo decisivo pacchetto di quasi il 3 per cento. Quel matrimonio forse si poteva fare, ma certo non in quei modi. Le cose non vanno granché bene per Canalplus, la pay tv di Vivendi. E Bolloré sta contando le perdite dell’intera sua campagna italiana: per esempio ha svalutato per circa mezzo miliardo di euro il suo investimento in Tim.
Il rischio di Netflix, diventare vittima del proprio successo. Sky, il probabile “campione europeo” del futuro, Comcast permettendo. Disney che vuole recuperare l’egemonia sull’immaginario esercitata nel Dopoguerra. Il caso Lux Vide. Le piccole dimensioni del settore radiotelevisivo italiano
Il vero “campione europeo” sarà probabilmente Sky. Rupert Murdoch con la Fox ha il 39 per cento e vorrebbe anche il resto, ma la piattaforma televisiva europea fa gola anche a Comcast. D’altro canto, la stessa Fox si è accordata con Disney per cedere gran parte delle attività legate all’intrattenimento, oltre che la stessa Sky News onde evitare problemi con l’antitrust. Su questi asset ha messo gli occhi anche Comcast, che ha provato a inserirsi nella trattativa tra lo Squalo e Topolino. Sky è il veicolo per conquistare il mercato europeo, incrociando i ferri anche con Amazon che preoccupa forse più di Netflix. “Jeff Bezos ha una linea tradizionalista sul cinema e la distribuzione dei suoi film: la sala continua a giocare un ruolo importante; Amazon è persino più tradizionalista delle major, come Warner e Universal che cercano nel futuro un’abbreviazione della finestra distributiva, dal cinema all’home video”, sostiene Gianmaria Tammaro sulla Stampa. Sky ha speso qualcosa come 9 miliardi di dollari nella produzione di serie tv in Europa, ma preferisce il modello distributivo lineare, con un giorno di messa in onda precisa, pubblicità, una (o al massimo due) puntate a settimana. Il binge watching – vedere una serie per intero senza interruzioni, un episodio dopo l’altro – è un fenomeno nato quasi in concomitanza con Netflix che ne ha fatto la fortuna, almeno all’inizio. I canali via cavo di nicchia, come Hbo, Fx e le inglesi Channel4 e Itv, continuano a produrre serie sempre più particolari e originali, che spesso trovano un distributore internazionale.
Disney compra tutto, Apple occuperà una fascia più sofisticata, Amazon sarà il re della distribuzione, YouTube parte dal basso, ma salirà sempre più in alto
La Lux Vide gestisce in autonomia i propri progetti, dall’ideazione alla post-produzione, seguendo il modello introdotto dagli americani; ha sempre scelto tecnologie innovative (è stata la prima a lavorare in digitale) e ha messo in cantiere produzioni orientate al pubblico internazionale coltivando al tempo stesso le proprie radici. Luca Bernabei lo chiama il “Mediterranean Drama”, storie forti che ruotano attorno al nostro spazio storico e geopolitico, a partire dai Medici per arrivare a “Devils”, i diavoli, la serie sui lati oscuri del mondo della finanza, prodotta per Sky, che parte da Milano e si dirama a Londra e Francoforte; oppure a “Costiera”, lo spy-thriller in lavorazione tra Sorrento, Positano e Amalfi. “La competizione sui contenuti mette in gioco anche l’egemonia culturale”, sostiene Bernabei. Disney compra tutto, dai Marvel a Pixar e ora Fox perché vuole recuperare quella egemonia sull’immaginario esercitata nel Dopoguerra. Apple occuperà una fascia alta, più sofisticata, fa parte della sua business culture. Amazon sarà il re della distribuzione, Jeff Bezos è il più grande mercante della nuova èra. YouTube parte dal basso, ma salirà sempre più in alto. Il mondo internet, quello di cui si è nutrito il populismo, viene spinto in un’altra dimensione, quella della qualità, del prodotto sofisticato, costruito da talenti competenti, finanziato in modo professionale. L’età dell’innocenza, insomma, sta per finire.
Stimolare il cinema italiano è l’obiettivo dichiarato della Vision Distribution guidata da Nicola Maccanico, frutto dell’accordo tra il Gruppo Sky e cinque tra le principali società di produzione indipendenti: Cattleya, Indiana, Lucisano Media Group, Palomar, Wildside. Maccanico viene dalla Warner Bros e conosce bene le sfide alle quali le major debbono rispondere. Occupare una nicchia è un passaggio necessario, ma non sufficiente. Per competere occorre ben altro potere di fuoco e, soprattutto, bisogna avere alle spalle un sistema. Il cinema nazionale, spinto e finanziato dalla televisione, ha compiuto passi avanti in questi anni, e la quantità alla fine ha generato qualità. Tuttavia, l’unico modo di difendere il made in Italy, nel cinema come in ogni altra attività intellettuale o manuale, è fare cose belle che piacciano al mondo, per citare lo storico Carlo Maria Cipolla. Dunque, bisogna presidiare grandi gruppi con disponibilità finanziarie e vaste capacità operative.
Il settore radiotelevisivo italiano è piccolo fuori dai confini. Nel complesso esprime ricavi di oltre 10 miliardi di euro (un decimo rispetto al totale europeo) e impiega circa 90.000 addetti, di cui 27.500 diretti (elaborazioni Crtv su dati del 2016). Nonostante la crisi economica, ha mantenuto livelli occupazionali sostanzialmente stabili. Il rapporto R&S Mediobanca sottolinea che il mercato è ancora estremamente concentrato: i primi tre gruppi, Mediaset, Rai e Sky detengono, secondo i dati Agcom, il 90 per cento dei ricavi televisivi. Il quinquennio 2012-2016 è stato terribile: nell’insieme il settore ha perso 1,3 miliardi di euro: 545 milioni Mediaset, 454 la Rai, 325 La7 che ha sempre chiuso in rosso, sottolinea Mediobanca, 33 milioni Sky. Fa eccezione Discovery con più 23 milioni. Anche in Italia le reti generaliste hanno perso ascolti (da 33,6 a 29,8 per Rai e da 28,6 a 24,9 per Mediaset) a favore di canali tematici, ma meno che in altri paesi e le quote di ascolto medie restano molto alte (ben oltre il 30 per cento sia per Rai sia per Mediaset) che surclassano tutti gli altri (Sky 7,9, Discovery 6,7 e La7 3,7).
L’Italia è un mercato meno chiuso di un tempo perché sono arrivati operatori stranieri come Sky, Discovery, Paramount e Netflix, la quale, però, opera da Amsterdam con appena cinque addetti. I due principali gruppi europei, la Bbc con 5,8 miliardi di euro e la tedesca Ard con 5,6 miliardi, hanno un giro d’affari doppio rispetto a Rai (2,8 miliardi) e Sky (2,7) mentre Mediaset raggiunge i 3,6 miliardi insieme alla consociata spagnola (il fatturato italiano è 2 miliardi e 636 milioni), superando France Télévisions (che incassa 3 miliardi di euro). Bbc e Rai sono finanziariamente le meno solide (con debiti pari rispettivamente al 288,6 per cento e al 134,8 per cento del capitale netto ), la spagnola Rtve e France Télévisions invece sono in buona salute. La Rai investe meno della metà di France Télévisions e Bbc, ma più di Rtve. Il canone ha una funzione fondamentale. Quello italiano ha il valore unitario più basso e la Rai è la tv pubblica che vanta il primato degli indici d’ascolto: nel 2017 abbiamo pagato 90 euro a testa e 74 sono rimasti alla Rai. In Francia il canone è di 136 euro, nel Regno Unito di 169,9 e in Germania di 215,8. Il basso canone unitario italiano è parzialmente compensato dalla pubblicità, non presente sulle reti Bbc e Rtve, e limitata per quantità e fasce orarie in Francia e Germania.
La Rai è la tv pubblica con il canone più basso in Europa e il primato degli indici d’ascolto, ma resta un centauro enigmatico, metà pubblico (pagato dai contribuenti) metà privato (pagato dalla pubblicità)
Nel mondo occidentale c’è una overdose di serie tv e di prodotti in genere, una vera e propria sovrapproduzione che, se le leggi della economia valgono anche qui, produrrà un crollo e un ulteriore processo di concentrazione. L’Italia ha il vantaggio dello “sviluppo tardivo” come lo chiamava nel secolo scorso lo storico Alexander Gerschenkron, quindi può imparare dagli errori altrui. Mediaset ha deciso di focalizzarsi sulla tv in chiaro e il successone della coppa del mondo di calcio ha confermato la bontà della scelta. Ora lancerà la sfida a La7 sull’informazione, cambiando in parte il palinsesto di Rete4 dove saranno concentrate anche molte produzioni in proprio. Canale5 continua a investire sui reality show, su Italia1 ci sarà molta comicità. Firmato l’accordo con Mediapro sulla serie A, il Biscione ha lanciato una offerta pubblica di acquisto sul 60 per cento di Ei towers che ancora non controlla, per togliere dal listino la società che possiede 3.300 ripetitori associando Fqi, il fondo strategico che fa capo alla Cassa depositi e prestiti. Quel che le manca, tuttavia, è un partner estero. Vivendi aveva molto da offrire, ma come si è visto voleva comandare lei. Mediaset guarda alla Francia, a Tf1 di Bouygues? O ai tedeschi di ProSiebenSat.1? O magari tornerà d’attualità l’alleanza con Sky?
La Rai resta un centauro enigmatico e mutevole, metà pubblico (pagato dai contribuenti) metà privato (pagato dalla pubblicità), ma non si capisce mai se pubblica è la testa e privato il corpo o viceversa. Intanto, avviene la solita spartizione, più pasticciata che mai. I vincitori prendono tutto, si dividono le spoglie, e il governo gialloverde andato al potere contro la vecchia classe dirigente scopre anche qui di non avere una classe dirigente di ricambio. La scelta di Marcello Foa come presidente è un’altra provocazione politica inventata da Matteo Salvini che indebolisce la Rai rispetto ai concorrenti. Il nuovo amministratore delegato in quota cinque stelle, Fabrizio Salini, è un professionista preparato nel suo campo, viene dal mondo privato e questo di per sé è un bene: dietro le spalle ha la direzione de La7 di Urbano Cairo e questo solleva alcuni interrogativi. Beppe Grillo, con il suo cinico tempismo, ha spiazzato anche i suoi fidi, intenti a occupare le poltrone, rilanciando il progetto di spacchettare la Rai e riportando in auge la legge Maccanico del 1997. Dunque, una rete generalista competitiva, una rete pubblica senza pubblicità, e una terza rete in vendita? Secondo l’allora ministro Antonio Maccanico doveva toccare a Rai2 mentre Mediaset avrebbe dovuto liberarsi di Retequattro. La legge Gasparri, con il passaggio al digitale terrestre, ha rimescolato tutte le carte. Adesso qualcosa può cambiare di nuovo. In molti si candidano al public service (e di conseguenza anche al canone). Non nasconde la sua ambizione La7, piccola, ma sostenuta dal primo quotidiano d’Italia, il Corriere della Sera, e soprattutto con molte benemerenze da vantare nei confronti dei pentastellati che ha contribuito a sdoganare come una forza di lotta e di governo. E perché solo Urbano Cairo? E’ in corsa Mediaset, come abbiamo visto; c’è Sky con le sue news H24 e le sue dirette istituzionali, altri sono pronti ad arrivare dall’esterno o a nascere in casa.
Anche in Italia, dunque, il futuro è legato all’esito dello scontro di potere sulle due i, l’informazione e l’intrattenimento. Aldo Grasso sottolinea che tra tecnologia e contenuto c’è una sfasatura, la tecnologia è corsa avanti, i contenuti inseguono, ma non c’è dubbio che la tv generalista resta più forte sulla fiction e il prodotto di qualità non si può fare su YouTube. “La tecnologia consente alla gente di trovare i contenuti che vuole – insiste Childs – ma non può creare da se stessa i contenuti. C’è bisogno di grandi team creati attorno a una pietra miliare: il talento di scrivere e quello di recitare. Secondo un vecchio adagio di Hollywood, bisogna mettere i quattrini nelle parole e nella gente in grado di pronunciarle, il resto viene da sé. La gente richiede ancora alti standard e per questo la tv generalista continuerà ad avere un grande vantaggio”.
La televisione, dunque, vive la sua sesta vita. Ma come la trascorre? Oggi non esiste un solo percorso. Alla diversificazione della domanda corrisponde una offerta plurale. C’è la dimensione solipsistica di chi si fa il proprio video e se lo manda a un gruppo di amici, per lui è perfetto YouTube; c’è chi sceglie la sera di guardare un programma in intimità o con un piccolo gruppo di persone e per lui è perfetta la pay tv; ci sono poi i grandi eventi, le celebrazioni collettive e per questi nulla può sostituire la tv generalista. La natura dello sviluppo tecnologico attuale favorisce questa compresenza; il problema non è tanto prevedere quale sarà il paradigma dominante, ma come scegliere tra molti strumenti e modelli spesso in competizione tra loro.
Questa fluidità disorienta spesso gli esperti. Julian Aquilina e Andrew McIntosh in un loro rapporto per Endersanalysis sul mercato britannico, uno dei più aperti alla concorrenza e alle innovazioni, notano la relativa stabilità nei trend delle piattaforme televisive; al contrario di quel che comunemente si pensa e non prevedono cambiamenti radicali a breve termine. La maggior parte delle famiglie britanniche, per esempio, si dichiara soddisfatto dell’assetto attuale. Dave Evans, futurologo e stratega di Cisco, è convinto, invece, che “non abbiamo ancora visto niente. In dieci anni la tv sarà dappertutto: sul muro, in tasca, sul nostro polso, persino nella nostra testa. Le reti televisive dovranno creare prodotti sempre più personalizzati, ritagliati su preferenze individuali. La pubblicità stessa sarà spinta verso espedienti nuovi e sempre più vari. Lo spot diventerà parte integrante dello show, se un’attrice indossa un certo abito, se un attore usa un certo gadget, o quant’altro, chi guarda potrà comprare quel prodotto via internet in tempo reale. Il tentativo di attrarre audience attraverso una gran varietà di scelte al margine, provocherà reazioni estreme spostando il confine di che cosa mostrare e rompendo remore o limiti morali. Si pensi solo alla possibilità di utilizzare attori virtuali, attraverso una ricomposizione di immagini di veri attori. Ciò rende dirompente la questione del copyright. La qualità costa, ci vuole lavoro, competenza, l’esperienza di una vita.
“La televisione ha certamente un futuro, ma deve vivere ancor più in simbiosi con internet”, dice Dawn Ayrey che è passato dalla tv a Yahoo. Per Bruce Daisley, top manager di Twitter a Londra, proprio “la natura aperta, pubblica e viva di Twitter ne fa il complemento perfetto della televisione. Consente di sapere facilmente cosa stanno vedendo i nostri amici, ma anche quel che guardano gli altri e diventa possibile discutere attorno a un evento, a uno show, a un film”. Il Nielsen Twitter Tv rating è la fonte definitiva per capire l’impatto sociale di una trasmissione televisiva. In Europa ha scelto l’Italia per debuttare 4 anni fa perché, secondo l’amministratore delegato italiano Giovanni Fantasia, “gli italiani amano la tv, ma sono anche grandi utilizzatori di social network. Basti pensare che al piccolo schermo ogni giorno dedicano una media di 4 ore di visione e che è pari al 94 per cento la penetrazione dei social network sugli utilizzatori di internet via mobile”. Tra i due mezzi c’è una corrispondenza biunivoca, “più tweets più ratings”, insiste Daisley.
I gruppi televisivi hanno investito in contenuti, le aziende online hanno investito nelle tecnologie più potenti e stanno cambiando pelle. Yahoo prima era un catalogo e un motore di ricerca, adesso è diventato il maggiore editore sul web. Google ha il più ampio parco dati del mondo e sta provando a fare una televisione. La sfida è destinata a cambiare sfidati e sfidanti. E viene in primo piano la questione di fondo: che uso fare di quei dati; sono senza dubbio uno strumento per monetizzare i contenuti, ma la peculiare capacità umana di connetterli sarà mai rimpiazzata da un algoritmo? La domanda è destinata a restare in sospeso, forse la risposta verrà trovata nella prossima vita della tv.