Scrivere la tv nella stagione trumpiana
Due chiacchiere con gli autori di The good fight, tra allucinazioni, news e falsità
Diane Lockhart voleva solo vedere realizzato un sogno: una donna presidente degli Stati Uniti. Avvocato liberal con tanto di foto con Hillary Clinton in ufficio, Diane avrebbe potuto così ritirarsi a vita privata, avrebbe potuto godersi la sua pensione di lusso in Francia. Di mezzo però ci si è messa una truffa finanziaria ai suoi danni ma soprattutto la realtà, e cioè l’elezione non prevista di Trump. Il mondo di Diane è caduto a pezzi, e pure parte dell’impalcatura di The Good Fight, modificata in corsa. Proprio grazie a questa realtà divergente dalle aspettative, però, la serie non è più semplicemente lo spin-off di un successo precedente, il gioiello The Good Wife, ma lo specchio dell’America di oggi, tra populismo aggressivo e confusione liberal.
Da un punto di vista narrativo, non è stata forse una benedizione l’elezione di Trump per il personaggio di Diane? “Lei non sarebbe d’accordo”, mi risponde ridendo Michelle King, coautrice della serie insieme a suo marito Robert, che aggiunge: “In effetti è triste dirlo ma per noi è stato un dono del cielo”. A giugno, al Festival della Tv di Montecarlo, la coppia ha presentato la seconda stagione di The Good Fight (da mercoledì su TimVision). E’ ancora più bella della prima, perché tutta focalizzata sulla crisi di Diane. Che non sa più cosa credere. La realtà è impazzita, e pure le news: davvero, come dice la Tv, Trump ha deciso di tenere un maiale alla Casa Bianca? Diane forse ha le allucinazioni, ha iniziato ad assumere sostanze illecite per sostenere il crollo del suo mondo. “La realtà è folle – spiega la King – anche senza droghe. Regna la confusione”. E anche il giornalismo, tra infotainment, toni eccessivi, abuso di talk, uso superficiale dei social, pare avere ormai un linguaggio populista del tutto simile a quello dei populisti della politica. “I nuovi media hanno permesso la comunicazione tra persone in maniera diretta – dice la King – ma anche il diffondersi di ‘notizie’ senza il controllo editoriale da parte di giornalisti, e questo davvero influenza la democrazia”. Continua Robert: “Internet ha realizzato una democratizzazione dell’informazione, e ora è difficile capire chi stia mentendo e chi no. Prendiamo il sito The Onion: utilizza il format del Washington Post e del New York Times per fare satira. Adesso però alcune persone usano la stessa tecnica per manipolare vero e falso. E’ crollata la barriera tra quello che è ufficiale e non ufficiale. Se troppe persone dicono che quel che è bianco è nero e viceversa, questo impatta su tutta la cultura”.
La confusione populista è tanto linguistica quanto tecnologica: così nella serie si mostra come il microtargeting sui social possa influenzare una giuria attraverso notizie false ma plausibili. Una tecnica utilizzata pare anche nelle elezioni americane. “Ci sono due aspetti legati alle nuove tecnologie – continua Robert – Uno positivo, pensiamo all’uso dei social media nella primavera araba. In America però abbiamo visto il lato negativo: rendono più facile \controllare le comunicazioni e raccogliere informazioni sulle persone. E poi c’è l’aspetto commerciale. Nella serie ci siamo inventati l’azienda Chumhum, la nostra versione di Google/Facebook/Twitter. Attraverso le sue mosse, mettiamo in scena come le corporation fingano di essere ribelli e cool. In realtà dominano l’informazione, spesso usandola per manipolare le persone”. In questa confusione informativa, che fare? Meglio affidarsi alla fiction, capace più del giornalismo di far ordine nel caos? “Credo siano entrambi necessari, non possiamo affidarci troppo alla finzione!”, ride Michelle. Conclude Robert: “La fiction è più divertente, il giornalismo più arduo oggi. I tempi sono difficili… però è eccitante avere tutti questi temi da discutere, ti fa sentire vivo”. L’elezione di Trump sarà pure stata un male per il mondo, ma forse per Diane e soprattutto per Michelle e Robert King è pure una nuova sfida creativa.
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