I romanzi non bastano più
Il memorabile Valentino e la scossa Ferragni, Renzi a Firenze e Dibba sulle “periferie del mondo”. Politici, scrittori, giornalisti, cittadinanze attive varie: tutti quanti vogliono fare i documentari
Renzi su Firenze, Dibba sulle “periferie del mondo”, Veltroni su Shoah, arcobaleni, bambini, Berlinguer. E poi ancora stilisti, architetti, scrittori, giornalisti: tutti quanti dicono “documentario”, tutti quanti vogliono fare i documentari. Forse è iniziata a metà degli anni Zero con Al Gore, trombato alla Casa Bianca e acclamato nel mondo con “An Inconvenient Truth”, documentario sul global warming che l’anno scorso ha avuto un sequel. Forse con Michael Moore. Forse c’entrano i reality, i social, la retorica dello “storytelling” che insieme hanno polverizzano le ultime, residue distanze tra fiction e testimonianza. C’è sempre stata questa supremazia etica del documentario sulla fiction, ma il documentario ora è anche cool. Si vede a casa. In streaming. Non più vittima sacrificale della ritualità cinéphile-festivaliera, il documentario si porta e si esibisce con tutto: docudrama, docufilm, docufiction, docusoap, docureality, i “documentari della Bbc”, misura di tutte le cose, quelli di Netflix, i documentari autoprodotti, autogestiti, il documentario collettivo, il documentario diffuso, la mitologia di Alberto Angela. Tutti quelli che una volta ti dicevano, “sto scrivendo un film”, oggi ti dicono “sto preparando un documentario”; e poi vuoi mettere: non devi neanche giustificare gli incassi o lo share in tv perché, si sa, “è un documentario”.
MM:
Si porta e si esibisce con tutto: docudrama, docufilm, docufiction, docusoap, i “documentari della Bbc”, misura di tutte le cose
La migliore è sempre lei, “La” Ferragni, che scavalca tutti e si fa il documentario da sola, e poi lo offre al miglior offerente. Lo ha cominciato a girare proprio a Noto, in quel nostro royal wedding che abbiamo testimoniato con impegno civile qui sul Foglio. Mi sa che è anche la prima in un suo genere, di documentario su influencer. Un cascame di quel mio sottogenere preferito, i documentari sugli stilisti. “The Last Emperor”, quello con Valentino e Giammetti. Scene memorabili. I carlini sull’aereo privato. I carlini a Gstaad. “Come è andata?” chiede Valentino affranto a Giammetti dopo l’ultima sfilata della loro vita. “Too tanned, troppo abbronzato”, risponde Giammetti.
AM: Queste sì “scomode verità”, altro che Al Gore. A un certo punto Valentino guarda Giammetti, lo fissa negli occhi mentre stanno litigando su una collezione, gli dice di tirarsi in dentro la pancia, glielo sussurra in francese, e dice “ton ventre” con un disprezzo, una cattiveria che neanche Bette Davis; però si sa, è una magnifica storia d’amore, di quelle che ormai gli etero se le sognano, specie al cinema.
MM: Non sapevo fossi anche tu un cultore.
AM: Scherzi? Piango sempre quando lo premiano a Parigi, lui si commuove e ringrazia Giammetti, il fard che cola, le lacrime di Giammetti che se ne sta nell’ombra, tra il pubblico; “The Last Emperor” ha cambiato la mia idea sui documentari, la mia naturale inclinazione a vederli solo se strettamente necessario, perché non è un documentario ma un “melodramma giocoso” scritto, diretto e recitato benissimo.
MM: V
Piace sia global che local. C’è l’Esquilino issue, diretto da Abel Ferrara: “Piazza Vittorio”, ritratto dolceamaro del quartiere romano
alentino poi andrebbe premiato con delle palme d’oro o orsi d’oro o rami d’oro perché ha generato tutto un indotto: tanti altri documentari sugli stilisti: quello su Karl Lagerfeld, “Lagerfeld confidential”. Che però andrebbe aggiornato alla sua discesa a Roma. Dice che viene tutte le settimane col suo aereo privato da Parigi per andare all’Eur al quartier generale di Fendi, col suo gatto. Lagerfeld all’Eur, magari bloccato da una mandria di cinghiali, non sarebbe mica male. Poi andando giù sulla Pontina – occhio ai ponti di Morandi pericolanti anche lì – ecco “The director”, del 2013, su Frida Giannini, all’epoca direttore creativo di Gucci. Bella stilista, ha un villone sulla duna a Sabaudia, dove ama cavalcare anche sulla spiaggia, molto dannunziana. Mentre sognerei un documentario decadente sui Volpi, alla villa Volpi, tipo Grey Gardens, ma du côté de Saporetti. Giovanni Volpi mi ha raccontato che l’architetto, Tomaso Buzzi, aveva sbagliato tutte le proporzioni in quanto piccoletto di statura, e quindi loro sbattevano continuamente la testa sul soffitto. Anche sua madre, la mitologica Nathalie, aveva chiesto “faites-moi une petite folie”. E l’archistar d’epoca aveva risposto con telegramma, finiti i lavori, 6 luglio 1957: “Venez avec projet temlo greco palladien avec colonnes”, con refusi originali. Anche se poi, dice Volpi, la casa è venuta fuori non molto palladiana, non assomiglia infatti molto alla villa Emo cui era ispirata, con un piano in più nel timpano. Semmai è più Via col vento. Comunque, beneficiando di film commission locali, bisognerebbe ricordare per l’ennesima volta che Voghera ci ha dato Valentino, Arbasino, la Angiolillo, e la casalinga autoctona. Basterebbe molto meno per girarci un documentario coi fiocchi, anche per vedere cosa mangiano, che dieta fanno, come con quelle popolazioni sarde o tibetane che campano fino a cent’anni senza colesterolo.
AM: I capelli. A Voghera hanno tutti la stessa attaccatura di capelli. Un giorno bisognerà indagare.
MM: Mi fanno male i capelli. Ma tralasciando Voghera e l’incomunicabilità, e rimanendo invece nella moda, che mi sembra il settore più promettente, c’è poi tutto il filone dolente-orientalista su Yves Saint Laurent (su cui ne fanno uno all’anno). Mi piacerebbe vederne però uno su John Galliano con lo sbrocco antisemita, e il rehab. Mentre Matt Tyrnauer, quello del documentario di Valentino, dopo il successo bestiale ha proprio lasciato la carriera giornalistica – era un pezzo grosso di Vanity Fair America, candidato a diventarne il boss – e fa solo documentari. Guadagna e si diverte di più. L’anno scorso ha presentato alla festa del cinema di Roma quello su “Scotty”, un allegro marchettone tuttora in vita che allietava le notti e i pomeriggi delle star hollywoodiane, mettendo su un’agenzia di servizi molto premiata che forniva giovanotti a Rock Hudson, Spencer Tracy, Walt Disney, e Gore Vidal. Parente di Al Gore, naturalmente.
AM: Scomode verità, sempre lì (se ci pensi un titolo buono per ogni documentario, con questa stampella della “verità” che il documentario si trascina sempre dietro, specie da noi).
MM: Il documentario piace sia global che local. C’è il September issue, quello su Vogue. E c’è l’Esquilino issue, diretto da Abel Ferrara. Si chiama “Piazza Vittorio”, ritratto dolceamaro del mio quartiere romano. Perché ognuno documenta un po’ quello che conosce (all’Esquilino, anche, tanti documentari a chilometri zero. Abel Ferrara ci mette Willem Defoe che abita lì, e Willem Defoe fa il Pasolini nella Docufiction però qualche centinaia di metri più in là). All’Esquilino, anche, tanti documentari su Mas, i vecchi magazzini allo Statuto, il Department store de piazza Vittorio.
AM: In quello di Abel Ferrara, “Casa Pound” ne esce benissimo (“unico presidio culturale del quartiere”); infatti l’hanno stroncato, hanno detto che forse non li aveva riconosciuti. Quando entrano in scena i cattivi col documentario è sempre così. Come a Venezia, quest’anno, col documentario su Steve Bannon: lui che parla del suo amore per il cinema classico hollywoodiano e ti viene voglia di vederti i film di John Ford con Steve Bannon sul divano, gli hamburger home-made e la coca light sul tavolino.
MM: Ti viene voglia di essere Alan Friedman da Berlusconi. Ah, quegli interni di Arcore, lo studio bianco con le coppe e i premi, l’elicottero per Milanello. Denuncia o apologia? Come Putin con Oliver Stone. “The Arcore Interviews”.
AM: C’è questo schema infallibile. Da Reagan a Trump, passando per il Cav., i tycoon e i repubblicani fanno prima la tv o il cinema e poi la politica. I liberal il contrario. Al Gore che esce di scena, fonda Current Tv, si butta sui documentari; gli Obama hanno firmato un contratto con Netflix per “produrre contenuti edificanti che promuovano empatia e comprensione fra le persone” (che sembra il manifesto di Rai Fiction, “nessuno escluso”), e poi tutta l’opera omnia di Veltroni, adesso Renzi. I politici che escono di scena si buttano sui documentari. Dopo le poesie di Sandro Bondi e Nichi Vendola, i romanzi di Franceschini, dopo una pletora di magistrati-scrittori e una letteratura giudiziaria tra le più fantasiose e prolifiche al mondo, si va sul documentario, sul format, sul “reportage” per la tv. Entrare nell’internazionale del documentario, unirsi alla linea Al Gore-Michael Moore, oppure partire lontano, per un lungo reportage a braccio tra le foreste tropicali, para-ser-libre como el comandante Dibba.
MM: Lui fa servizio pubblico. Coi mezzi pubblici.
AM:
Schema infallibile, da Reagan a Trump: i tycoon e i repubblicani fanno prima la tv o il cinema e poi la politica. I liberal il contrario
Vero. Sai quanto ci costava spedirlo un anno in Guatemala per Rai Tre? “Scriveremo un po’ di reportage per il Fatto Quotidiano e realizzeremo dei documentari per raccontare la periferia del mondo”, diceva Dibba prima di partire. “Florence è un viaggio dentro la bellezza” dice invece Renzi (oscurato però dall’omonimo uragano della East-Coast di questi giorni). La “periferia del mondo” e la “bellezza”, gli alberi guatemaltechi e i capolavori di Michelangelo. Si giocheranno qui le nuove leadership di Pd e Cinque stelle? Chissà. Intanto tutto è contaminazione: il trailer di “Florence” ha qualcosa delle televendite in notturna, i “video-reportage” di Dibba sono un’“Isola dei famosi” per lettori di Internazionale, un reality terzomondista, fricchettone, con l’hashtag #lorizzontelontano su Instagram. E non sono forse uno sterminato documentario tutte le dirette Facebook di Giggino Di Maio? Con mezzi di fortuna o con i droni, non importa: il documentario è la prosecuzione della politica con altri mezzi, la liquidazione dello scarto tra teoria e prassi. Mi metto in gioco, faccio un documentario.
MM: Io vorrei un documentario verità sui jet privati. Aerei da incubo. in America c’è. In Italia potremmo mandare al Sundance il video di Toninelli che ispeziona gli hangar di Fiumicino. Air Florence. Air Force Renzi. Gare di velocità tra l’Air Ferragnez e i voli della Bruganelli. Valentino coi carlini. Frecce tricolori.
AM: Potrebbe farlo solo Veltroni, ma gli dà un taglio drammatico-intimista e dai jet privati finisci subito sui resti dell’aereo di Francesco Baracca che sta al Museo dell’aeronautica di Bracciano o sul dirigibile “Italia”, Umberto Nobile, Titina, la tenda rossa. Il documentario veltronico ha poco a che spartire con l’agit-prop di Michael Moore (il nostro Michael Moore casomai è il Gabibbo). Distante dalla dimensione planetaria di Al Gore, potendo contare su testimonial come Cristina Capotondi e Massimo Recalcati, anziché Leonardo DiCaprio, Veltroni documentarista si ritira nelle segrete stanze della memoria. E’ tutto un equilibrio sopra la nostalgia, il frammento, il caffè con la moka, la schedina del totocalcio, il primo centrosinistra. I documentari “Feltrinelli” in dvd sono in effetti la prosecuzione dei Vhs dell’Unità con altri mezzi.
MM:
Non potendo contare, qui nelle nostre repubbliche, sulle Case reali, si trovano succedanei: diversi i doc sugli Agnelli
Non potendo contare, qui nelle nostre repubbliche, neanche sulle Case reali, che sono sempre un gran bel tema. Si trovano succedanei: diversi doc sugli Agnelli, come quest’ultimo per Hbo, prodotto da Graydon Carter ormai ex direttore di Vanity Fair, anch’egli convertito. Però fare docufiction nostalgiche potrebbe non essere impossibile, con Titti di Savoia a Casalpalocco nelle sgrinfie di Maurizio Arena, materiale volendo ce ne sarebbe. Che poi, su YouTube c’è ancora quel magnifico documentario sulla Regina Elisabetta anni Ottanta, con lady Diana ancora amichevole, e Cossiga in visita che le dice, a lei e a Carlo, “beautiful boys, beautiful boys”. Mentre tra le case reali superstiti, esaurito il filone Windsor ormai sfruttato in tutte le salse, davvero non si sa cosa si aspetti ad aggredire i Borbone: in fondo Juan Carlos e Sofia di Spagna tra cacce agli elefanti e generi avventurosi ne avrebbero da raccontare. Senza contare che lei, come ama ricordare, è figlia, mamma, moglie di Re, come probabilmente nessun’altra, nemmeno Elisabetta. Ricordarselo.
AM: C’era “Alberto il Grande”, filone imperiale, documentario di Verdone su Sordi. Bellissimo. Tutto giocato sul racconto dell’autista peruviano che gli spicciava anche casa, quella specie di Fort Apache sopra le rovine di Caracalla. Ma per il filone reale dovremo attendere il documentario di Chiara Ferragni. Nel frattempo ti consiglio quello sugli “ultimi giorni di Marino”, documentario Pd, titolo esatto “Gli ultimi giorni del coccodrillo” (coccodrillo, caimano, sempre lì), una delle storie più tristi dei nostri tempi.
MM: Basta con questa politica. Fare un documentario, per i maschi, è come disegnare gioielli per le ragazze: se sei ben nata, e non hai trovato un lavoro serio, è un po’ un obbligo a una certa età.
AM: Se non li fai, li devi almeno vedere. Prima dovevi aver visto tutte le serie, adesso pure i documentari. Finiremo a rivalutare i romanzi e le chiacchierate sull’ultimo Strega con le tartine in bocca agli aperitivi in terrazza.
Politicamente corretto e panettone