La televisione e le dodici serie tv che spiegano il mondo
Prodotti che nessun algoritmo avrebbe mai congegnato, titoli italiani che hanno del miracoloso e altri che sono presepi contro cui combattere. Cattivi sentimenti, vecchietti irresistibili, dialoghi a raffica
Seconde e terze stagioni o affermati debutti, produzioni italiane ma per lo più, naturalmente, americane. Ecco le serie da non perdere: il meglio che offrono le piattaforme tv in quest’ultimo squarcio di 2018.
THE END OF THE F***ING WORLD
di Jonathan Entwistle
• Netflix
“Ho 17 anni e credo di essere uno psicopatico”. James esibisce le prove a suo carico: ha immerso la mano nell’olio bollente della friggitrice, per vedere l’effetto che fa; non capisce le barzellette, ha ucciso animali di piccola e media taglia. Ora intende passare a qualcosa di più grosso. Una ragazza, magari. Lei si mette in posizione per il primo bacio, lui nasconde il coltello da caccia sotto i cuscini del divano. Insieme si perderanno nei boschi. Il coltellaccio troverà la sua collocazione nella pancia del serial killer, quello vero.
“The End of the F***ing World” riporta lo spettatore al tempo in cui le fiabe – come da contratto – servivano a fare paura. Poi le mamme, le maestre, le psicologhe addette ai piccini, hanno deciso che bisognava ripulirle dagli orchi che mangiano i bambini, dai lupi sventrati per estrarne la nonna, e dalle sorellastre che si mozzano i piedi per calzare la scarpetta di cristallo. Risultato: gli adolescenti cercano altrove storie di spavento e ribellione. Per i riti di passaggio, che nessuno nella vita impone più, provvede il cinema, con “Hunger Games” e le altre saghe compagne. Evidentemente ne sentono la mancanza.
All’origine di “Hunger Games” ci sono i romanzi di Suzanne Collins. “The End of the F***ing World” viene dalla graphic novel di Charles Forsman (editore italiano 001). Sta su Netflix perché la piattaforma lo ha comprato, per distribuirlo in tutto il mondo, da Channel 4. Nessun algoritmo avrebbe mai congegnato un prodotto simile, son cose che ancora bisogna fare a mano. Black humour a volontà, il Kent inquadrato come se fosse la provincia americana, un ragazzino e una ragazzina da lasciarci il cuore. Da vedere lasciando perdere la melassa ricattatoria di “Tredici”: una ragazza si suicida incolpando tutte le persone che ha conosciuto, con altrettante audiocassette registrate.
FAUDA
di Avi Issacharoff e Lior Raz
• Netflix
Previsioni della vigilia: “Pensavamo che la sinistra ci avrebbe accusati di razzismo, e la destra ci avrebbe accusati di troppa bontà verso i palestinesi”. Consuntivo, dopo due stagioni trasmesse in Israele sul canale satellitare Yes (anno 2015 e 2017): gran successo in patria, di critica e di pubblico, a dispetto del fatto che i dirigenti tv all’inizio erano scettici, convinti che gli spettatori a rischio terrorismo non volessero passare il tempo libero guardando come funziona l’antiterrorismo. Netflix ha comprato e sottotitolato la prima e la seconda stagione – “Fauda” vuol dire “caos”, serve come parola in codice per segnalare che la copertura di un’operazione è saltata, si salvi chi può.
La prima idea risale al 2010. I due ostinati showrunner sono Avi Issacharoff (giornalista di Haaretz) e Lior Raz: durante il servizio militare aveva fatto parte di un mista’arvim, i reparti speciali antiterrorismo che si infiltrano tra i palestinesi (figlio di un ebreo fuggito dall’Iraq e di un’algerina, sapeva bene l’arabo). Nella serie ha il ruolo di Doron Cavillio, ex agente ritirato in campagna a produrre vino. Finché scopre che il terrorista Abu Ahmed detto la Pantera (116 israeliani sulla coscienza) lungi dall’esser morto, è ancora in grado di nuocere. Tanto sfacciato da presentarsi a un matrimonio, travestito da vecchietto. Gli agenti infiltrati si fingono pasticcieri, avanti e indietro con vassoi di dolci. Qualcosa va storto, il comandante ordina di rinunciare alla missione, un agente ostinato continua da solo, inseguendo il terrorista senza più fingersi arabo, neppure addetto al catering.
La terza stagione di “Fauda” è in lavorazione, con un occhio al pubblico internazionale. Grazie a Netflix, non c’è bisogno di un remake, come è accaduto con “Hatufim” (diventato “Homeland”) e “Be Tipul”, rifatto ovunque con il titolo “In Treatment”: la peste psicoanalitica – lo diceva Sigmund Freud a Jung, nel 1909 – ha contagiato il mondo.
THE MARVELOUS MRS MAISEL
di Amy Sherman-Paladino
• Amazon Prime Video
Altro matrimonio reale in arrivo. Louis C. K. ha reso noto a tutti – dal palcoscenico del Théatre de L’Oeuvre a Parigi – il suo fidanzamento con la comica francese Blanche Gardin, confusa tra il pubblico (erano stati visti insieme la prima volta a New York, mano nella mano). Lui era al terzo spettacolo post-molestie, dopo due blitz newyorchesi al Comedy Cellar, non da tutti apprezzati. Lei aveva chiesto, durante uno spettacolo: “Dopo il #MeToo sarà ancora possibile offrire sesso per avere una parte, o toccherà imparare le battute e andare alle audizioni, perdendo un sacco di tempo?”.
Anche Blanche Gardin fa la stand up comedian, spettacolo americano come lo sono il musical e il western (i francesi da un po’ non disdegnano, Gad Elmaleh ha passato tre anni a New York, lasciando i teatri affollati per cantine da cento persone). Sul palco la ragazza si difende, ma la sincerità e la perfidia di Louis C. K. stanno su un altro inarrivabile pianeta.
La ragazza è anche carina, non proprio un vantaggio per una donna che vuole far ridere. Se ne accorge Mrs Maisel nella seconda stagione di “La fantastica signora Maisel” (scritta come la prima da Amy Sherman-Palladino, il marito Daniel Palladino dirige qualche episodio). L’agente Susie ha procurato a Midge una serata al Concord, celebre locale sui monti Catskill: negli anni 60 era il luogo di vacanza prediletto dagli ebrei newyorkesi, e dunque palestra per la comicità ebraica. Per ottenerlo, ha mostrato una foto di Mamie Eisenhower, che leggiadra non era.
Quando Midge Maisel arriva, il proprietario del locale quasi sviene alla vista dell’elegantissima e fascinosa signora. “Non è ancora truccata”, insiste Susie (bassa grassotta e vestita da maschio). Erano gli anni Sessanta, la penultima puntata della stagione è intitolata “Vota per Kennedy”. Ridiamo alla battuta, perché il pregiudizio rimane, e non c’è articolo su Sara Silverman (altra grande fan di Louis C. K.) che non ne rimarchi la bellezza. Lei, in risposta, fa sapere che il suo collo misura 15 centimetri, a riposo.
SUCCESSION
di Jesse Armstrong
• Sky Atlantic
“Lascia che ti parli di chi è molto ricco. Sono diversi da te e da me. Fin dalla giovinezza posseggono e godono, e questo li rende morbidi dove noi siamo duri, e cinici dove siamo fiduciosi. A meno di esser nati ricchi, sono cose difficili da capire”. Così Francis Scott Fitzgerald spiegava il fascino generato dal denaro in un racconto del 1925, “Il ragazzo ricco” (l’editore glielo pagò 3500 dollari).
Altri danarosi erano in arrivo nel romanzo “Il Grande Gatsby”. Giusto per ribadire lo stesso concetto. Chi i soldi li ha fatti da grande, guadagnandoli per riconquistare la ragazza dei suoi sogni, non può competere con chi è nato ricco. Ernst Hemingway fece la battutaccia – “sicuro, son diversi perché hanno i soldi” – e l’editore di entrambi dovette fare da paciere.
Ricchi, anzi ricchissimi, sono i Roy nella serie “Succession”. Forse modellati sui Murdoch: il patriarca Rupert mollato dalla moglie cinese che lo tradiva con Tony Blair ha sposato Jerry Hall, la ex di Mick Jagger, l’avesse scritto uno sceneggiatore lo avrebbero accusato di essersi fumato un cannone di troppo. il patriarca Logan Roy nella prima scena fa pipì sulla moquette, non riuscendo a orientarsi nella nuova magione. Convoca i figli per il compleanno – l’azienda si occupa di media, l’erede Kendall è impegnato in una negoziazione feroce con il capo cinese di una digital company – e ne approfitta per annunciare cambiamenti. Entra nell’asse ereditario la seconda moglie: succede, quando una affettuosamente minimizza la pisciata sulla moquette. L’erede che sembrava designato – e gli altri tre figli, indietro di un passo – non sono per nulla contenti, mentre spunta un nipote in disgrazia. furbo, però: avrà il suo primo grande momento quando gli chiederanno di ricuperare per il vecchio un paio di pantofole, e i documenti pronti per la firma.
Cattivi sentimenti, non c’è di meglio per Natale. E i ricchi, da quando al governo c’è gente che discorre di decrescita felice, si guardano con più piacere del solito.
IL MIRACOLO
di Niccolò Ammaniti
• Sky Atlantic
L’Italia è alla vigilia di un referendum per uscire dall’Unione europea. La Madonnina piange litri di sangue (non le due gocce della tradizione). Siamo convinti che i romanzieri siano sempre un po’ più avanti, vale anche per lo showrunner Niccolò Ammaniti che ha ideato la serie. Alla regia c’erano con lui Francesco Munzi e Lucio Pellegrini. Nella writer’s room (per una volta che adottiamo un metodo di lavoro all’americana, usiamo i termini di chi ha inventato la serialità) c’erano Stefano Bises, Francesca Manieri, Francesca Marciano.
Siamo convinti che i romanzieri siano sempre un po’ più avanti, ma “Il miracolo” ha del miracoloso. La serie è andata in onda lo scorso maggio, le elezioni che hanno prodotto il governo gialloverde erano marzoline: i tempi tecnici per scrivere e girare otto episodi di una serie non c’erano. L’accordo sul nome del premier Giuseppe Conte si è avuto a fine maggio, ancora non era nota in tutti i suoi dettagli la sua devozione a Padre Pio con tanto di immaginetta da esibire a richiesta (neppure il tweet “Io e Papa Francesco riformatori delle rispettive comunità” – ma solo a noi, dai pensierini alle elementari, hanno insegnato a dire “Pincopallo e io”, chiunque sia Pincopallo, e certo non avevano in mente il Papa). I litigi sull’Europa non erano ancora esplosi in tutta la loro potenza. Né rientrati, in tutta la loro prudenza.
Dice Niccolò Ammaniti: “Doveva essere una serie tv, non un romanzo. Il sangue è qualcosa che bisogna vedere”. Se ne vede parecchio appena la serie comincia, nell’appartamento di un boss della ’ndrangheta. Lì si trova la statuetta della Madonna, con sotto la vaschetta di plastica per non inzaccherare la stanza. I registi, oltre che i romanzieri, si vedono dai dettagli: la vaschetta di plastica è un passo decisivo verso la sospensione dell’incredulità. Accorrono gli esperti, nel tentativo di spiegare l’inspiegabile. O forse basta avere fede, ognuno dei personaggi in commedia reagisce a modo suo.
WHO IS AMERICA?
di Sacha Baron Cohen
• Sky Atlantic
Era il primo film di Alexander Payne, intitolato “Citizen Ruth” in omaggio al “Citizen Kane” di Orson Welles. In soccorso allo spettatore italiano, la “Cittadina Ruth” era diventata “La storia di Ruth, donna americana”. Laura Dern era una trentenne senza fissa dimora, incinta per la quinta volta dopo quattro gravidanze interrotte. Si ritrovava in mezzo al fuoco incrociato delle femministe da una parte e dei gruppi pro-vita dall’altra. Prima mossa, per entrambi i contendenti, rivestire la ragazza: t-shirt con Frida Kahlo, poi maglioncino rosa confetto con ricami e nastri.
Torna in mente il film di Alexander Payne quando vediamo i travestimenti di Sacha Baron Cohen. Lo riconosciamo perché sappiamo che la serie è sua, i parenti stretti avrebbero difficoltà incontrandolo per strada. Per esempio, nei panni del fanatico trumpiano Billy Wayne Ruddick Jr. PhD, che a dispetto dei titoli accademici spara sciocchezze prese da internet (tra gli intervistati ci sono Sarah Palin, Bernie Sanders, Dick Cheney, il grido di guerra del nostro è “Drain the swamp”, prosciughiamo la palude). Per esempio, nei panni della controparte liberal, altrettanto mostruosa: il Dr. Nira Cain-N’Degeocello: “Sono cisgender, bianco e eterosessuale, tutte cose di cui mi scuso”. Impedisce al figlio di pisciare in piedi, e a cena riferisce “la mia compagna ha avuto una storia con un cetaceo” (se gli animali sono considerati umani, perché fermarsi davanti agli amori tra specie diverse?).
Magnifici i siparietti artistici, con la fattiva collaborazione di una gallerista bionda che beve ogni parola e osserva con aria compunta i quadri del detenuto che in carcere ha spalmato artisticamente la merda sul muro. Con altri fluidi corporei produce altri capolavori, anche lì per lì: scompare nel bagno e torna con un quadro ancora fresco. Al confronto, le Puppy Pistol – animaletti di peluche con pistola incorporata, per insegnare ai bambini a sparare – sono giochini.
MCMAFIA
di James Watkins e Hossein Amini
• Amazon Prime Video
I mafiosi italiani – nella serie “I topi” di Antonio Albanese – vivono da latitanti nella villetta costruita dal geometra, giù al nord (l’irriducibile zio non esce mai dal bunker sotterraneo, passa il tempo ascoltando le previsioni del traffico e chiedendo più zucchero nel caffé). I figli vorrebbero mangiare con le posate, ma è vietatissimo, roba da ricchioni). “McMafia” riconcilia con il lusso criminale. Se fai tanti soldi magari ti va anche di spenderli, e magari ti va di spenderli in oggetti e lussi meno inguardabili dei tigrotti in ceramica, dei divani ricoperti di broccato, degli specchi con cornici dorate stile Casamonica.
Siamo ai piani altissimi del crimine internazionale – tra Londra, Mosca, Dubai, Istanbul, Praga, Tel Aviv. Lo racconta Misha Glenny, ex corrispondente della Bbc in Russia e nei Balcani, nel reportage “McMafia – Droga, armi, esseri umani. Viaggio attraverso il nuovo crimine organizzato globale”. C’era un’opzione per farne un film ma la faccenda stava andando per le lunghe. Sono arrivati di corsa James Watkins e Hossein Amini, gli showrunner della serie. Produttori, la britannica Bbc e l’americana Amc che ha in carnet “Breaking Bad” e lo spione “Better Call Saul”. Ottima accoppiata, gli inglesi da soli tendono alle rifiniture più che all’azione (e va pure detto che, da quando gli episodi vanno in streaming tutti insieme, capita che gli sceneggiatori se la prendano con più calma del solito).
Alex Goldman, figlio di russi in esilio, ha messo su un fondo di investimento con il suo nome (l’attore è James Morton, in pista come il prossimo James Bond, dopo la rinuncia di Daniel Craig). Ha pure una fidanzata che si occupa di finanza etica, dovrebbe bastare per tenersi a distanza dagli affari loschi del genitore e nel misterioso Zio Boris (“sono la sua yiddische mame”, spiega). Non andrà così, per questo i miliardari russi non sono più tanto graditi al governo britannico.
L’AMICA GENIALE
di Saverio Costanzo
• Rai
Ognuno ha un presepe contro cui combattere. Noi ne avremmo più di uno, ma lasciamo stare, affrontiamo una cosa per volta, è sempre l’ultimo dispiacere che ferisce. Riformuliamo: il più recente presepe contro cui combattere è la versione “serie tv” di un presepe che abbiamo combattuto prima che diventasse un presepe (è importante dissentire subito, sulle scrittrici sopravvalutate, per non sentirsi dire poi: tutta invidia, perché ha successo; tutta bastianite contraria, per farsi notare).
Da quando abbiamo visto le prime due puntate alla Mostra di Venezia, il presepe che irrita è “L’amica geniale”: saga che non siamo riusciti ad amare, quasi neanche a sopportare, dopo ripetuti tentativi di lettura. Se sta in questa lista, è perché illustra magnificamente il carattere nazionale in materia di spettacolo e di faccende culturali. L’entusiasmo irresistibile per i manufatti culturali che Dwight MacDonald chiamava “midcult”.
Vale a dire: libri e film che si presentano con le stigmate della cultura alta – mica sono videogiochi, mica sono fumetti, mica sono cinepanettoni – e come tali vogliono essere trattati. La scrittrice Elena Ferrante (o chiunque si nasconda dietro lo pseudonimo) è celebrata in tutto il mondo. Il regista Saverio Costanzo ha un bel curriculum alle spalle, tra l’altro con la serie “In Treatment”. Le bambine neorealiste sono prese dalla strada. C’è l’Amicizia Tra Femmine e il Melodramma. Solo gli Incontentabili potrebbero volere di più.
A nome degli incontentabili: non vorremmo più cose. Ne vorremmo di meno. Meno neorealismo e meno Roberto Rossellini, in una Napoli che non somigli al Messico ricostruito a Hollywood, tutto un cactus e tutto un sombrero. Ma è una battaglia persa, siamo tornati alla sceneggiata napoletana, con i fan che scrivono #ninosarratoremerda (i loro nonni e genitori, a teatro, mettevano in guardia i buoni dagli agguati del cattivo). Unica consolazione, il New Yorker che scrive “A Prada ad for a working-class gloom”: una pubblicità Prada per la miserabile classe lavoratrice.
LOVE
di Judd Apatow, Paul Rust e Lesley Arfin
• Netflix
Terza stagione, sarà anche l’ultima. Non si può andare avanti a oltranza, in materia di indecisione e goffaggine sentimentale. Magari succede nella vita, più noiosa di una serie (per questo le guardiamo). Appena entra in scena un professionista della drammaturgia, lagne e tira-e-molla non durano a lungo. Mickey (Gillian Jacobs) e Gus (Paul Rust, un naso che non si dimentica facilmente) si erano conosciuti al drugstore, lei era scesa in pigiama per comprare le sigarette, lui le presta i soldi. Non si scambiano i numeri, non prendono impegni, dopo la prima scopata sono nei rispettivi gruppi di supporto “temo di stare rovinando tutto”.
Non vivono neppure insieme. Gus di mestiere fa l’insegnante per un’attrice ragazzina sul set di una serie intitolata “Witchita”; dorme spesso a casa di lei, che lavora in una radio. In un episodio della terza stagione devono vedersela con il primo fine-settimana in quattro: coppia con altra coppia, alleanze, rese dei conti, bacetto della buona notte per poi buttarsi sul porno, casetta che dovrebbe essere a Palm Springs e invece sta nel deserto, con un vicino da “Tranquillo weekend di paura” che spara ai droni.
In sostituzione, sta per arrivare “Modern Love”, serie Amazon tratta dalla rubrica che sul New York Times esplora le gioie e i dolori dell’amore. Da qualche anno, anche con video d’animazione, podcast, e storie raccontate in cento parole. “Il suo cane mi ha visto nudo” è un titolo recente, mentre una signora con un po’ di imbarazzo racconta la sua passione per il portinaio.
Difficile intrecciare le storie, solo il Robert Altman di “Short Cuts - America oggi” sarebbe potuto riuscirci, lì aveva lavorato sui racconti di Raymond Carver. Sarà quindi una serie antologica, come usava ai tempi di Alfred Hitchcock – a riguardarla vengono i brividi per quel che riuscivano a ficcare in una mezz’ora. Showrunner John Carney, il regista dublinese di “Once” e degli animali cantanti di “Sing”.
IL METODO KOMINSKY
di Chuck Lorre
• Netflix
Il primo sbarco di Chuck Lorre sulla piattaforma non è andato benissimo: “Disjonted” (scritto insieme a David Javerbaum) ha vissuto una sola stagione. Poiché Chuck Lorre è anche uno showrunner di straordinario successo nella storia della tv – pensate agli scienziati nerd di “The Big Bang Theory” – bisogna chiedersi perché.
Kathy Bathes era magnifica con gli stracci e gli amuleti di “Alternative Ruth”, ex hippie che gestisce a Los Angeles uno spaccio di marijuana (legale, su ricetta medica, da fumare in loco, convincendo la casalinga disperata che preferirebbe aspettare quando marito e figli sono a letto). “Disjonted” era un po’ ripetitiva, le sit-com lo sono. Erano peggio le risate e gli applausi registrati, da tv generalista (Sheldon e i genietti vanno sulla Cbs, noi li abbiamo promossi serie di culto).
Dovrebbe andare meglio “Il metodo Kominsky”, che vede al lavoro soltanto Chuck Lorre (il vero nome era Charles Michael Levine, cambiò cognome – secondo la leggenda – perché la mamma usava “Levine” come insulto). I due vecchietti irresistibili – di questo si tratta – sono Michael Douglas e Alan Arkin. Rispettivamente: l’attore Sandy Kaminsky, maglione da artista e barba di tre giorni, ex attore di successo che al volgere della fortuna ha messo su una scuola di recitazione. E il suo agente, nonché amico, Norman Newlander. L’attore vive solo, ma ha già messo gli occhi su una studentessa un po’ più matura della media. L’agente ha la moglie malatissima che quasi subito muore, lasciando i due stagionati amici a battibeccare sugli acciacchi e le tristezze dell’età.
Non sono i primi a farlo, il cinema di questi anni era pieno di “Bucket List” (ovvero l’elenco delle cose da fare prima di tirare le cuoia), e di vecchietti che vanno a Las Vegas (di solito uno muore e l’altro si innamora). Ma lo fanno benissimo: un occhio alla comicità ebraica, nessuna pietà verso la retorica dell’attore, una sfilata di guest star usate magnificamente.
THE HANDMAID’S TALE
di Bruce Miller
• Tim Vision
Margaret Atwood sta scrivendo il seguito del suo romanzo “Il racconto dell’ancella”, dormiente dal 1985 nelle librerie e risuscitato dalla serie “The Handmaid’s Tale” (8 Emmy e 2 Golden Globe). Uscirà a settembre 2019, ma intanto Bruce Miller con i suoi sceneggiatori si è portato avanti con una seconda stagione tutta sua. Comincia con i patiboli pronti per l’impiccagione di massa: in quel momento abbiamo cominciato a chiederci perché mai un racconto sventolato come bandiera del femminismo anti-Trump debba molestare così tanto le donne.
Abbiamo assistito a gravidanze forzate, torture, lavaggi del cervello promossi dalle Zie che con l’aiuto della pistola elettrica – una scossa a ogni risposta sbagliata – convincono le ragazza stuprate che sì, sono state loro a provocare lo stupratore. Esattamente il contrario di quel che succede nel romanzo di Naomi Alderman, che di Mrs Atwood è stata allieva: in “Ragazze elettriche” le donne danno la scossa, paralizzante o anche mortale, ai maschi che le aggrediscono.
La visione seriale di “The Handmaid’s Tale” fa rivalutare la violenza gratuita. Vale a dire, la violenza che non viene messa in scena con intenti educativi, per ribadire che le donne non vanno brutalizzate. Della stessa malattia soffriva “12 anni schiavo” di Steve McQueen, due ore di neri torturati, con schizzo di sangue sul fiocco di cotone candido, per deplorare la schiavitù.
Non sappiamo in che direzione Margaret Atwood ha deciso di continuare la storia. Alla fine del romanzo, e della prima stagione della serie, Difred – l’attrice Elizabeth Moss, con palandrana rossa e cuffia bianca promossi a simboli di protesta, come la maschera di “V come Vendetta” – era caricata su un pulmino verso ignota destinazione. Possiamo però farci un pensierino. Sicure che dobbiamo soffrire per le ancelle schiavizzate e costrette alla riproduzione in un mondo poco fertile? Non sarà più utile per la causa delle donne guardare “La fantastica signora Maisel”?
ATLANTA
di Donald Glover
• Fox Italia
Le serie tv sono più avanti. Anche se tra un po’, a furia di accumulare titoli per attirare abbonati sulle piattaforme streaming, sarà difficile raccapezzarci e censire tutte le novità. E’ la peak tv bellezza! E non ci possiamo fare niente. Se non citare chi già ha dismesso l’etichetta “Golden Age” (età dell’oro) a favore di “Gilded Age (età della doratura, un sottile velo d’oro e sotto materiali meno nobili). Lo ha fatto John Landgraf, il ceo di Fx che già aveva inventato il termine “Peak Tv”.
Al cinema sta per arrivare “Green Book” di Peter Farrelly (quel Peter Farrelly che insieme al fratello Bobby girava commedie demenziali come “Tutti pazzi per Mary”). Un concentrato di scene madri, tutte intinte nella melassa. Non se ne vedevano altrettante dai tempi di “A spasso con Daisy”, vecchietta bianca e autista nero che alla fine fanno amicizia, pioggia di Oscar nel 1990. Succederà lo stesso con “Green Book” e con “Se la strada potesse parlare” di Barry Jenkins (vari gradini più su, ma sempre melodramma) e probabilmente qualcosa beccherà anche Spike Lee con “BlacKkKlansman”.
Vincitrice l’anno scorso di un paio di Golden Globe – uno per la miglior serie comica o musicale, una per lo showrunner e attore Donald Glover, fuori dalla tv rapper con il nome di Childish Gambino – “Atlanta” sta più avanti. Sta nella sua “timeline”, per citare un’altra volta John Landgraf. E’ una serie contemporanea, scarsa di trama e zeppa di dialoghi da sentire con i sottotitoli – vorranno scusarci i doppiatori ma le serie servono meglio delle canzoni per imparare l’inglese. Donald Glover è un giovanotto separato e con un figlio (vive ancora a casa dell’ex fidanzata). Cerca di svoltare facendo da manager al cugino Paper Boi, rapper sulla scena hip hop di Atlanta.
Donald Glover (fu Tina Fey a scoprirlo, gli diede un lavoro come battutista nella serie “30 Rock”) ha avuto la parte di Lando Carlissian in “Solo: A Star Wars Story”. Dalle serie al cinema, nella precedente Golden Age televisiva non era neppure immaginabile.