Il Nome della rosa è fuori fuoco
La serie di Rai1 è passata dal 27,38 per cento di share al 16.7 in tre serate. Cosa c'è dietro alla decrescita infelice di spettatori
Nel giro di tre serate “Il nome della rosa” è passato dal 27,38 per cento di share e 6.5 milioni di spettatori al 16.7 per cento di share e 3.8 milioni di spettatori. Qualcuno dirà che è colpa della serie: troppo piatta, poco chiara; piena di cose che, con il libro di Umberto Eco, che in mente aveva Sherlock Holmes, hanno poco a che vedere. Però c’entra anche un altro elemento, che è tanto importante quanto la messa in scena. E cioè: la comunicazione.
In quanti, prima di Sanremo e la messa in onda del primo, scialbissimo teaser, sapevano de “Il nome della Rosa”? In quanti hanno visto il primo episodio – che primo episodio non è, ma prima serata: perché di puntate, poi, ce ne sono due – per curiosità e non, invece, perché sapevano che cosa aspettarsi?
C’è stato un cortocircuito tra comunicatori (i livelli più alti, non quelli più bassi: gli esecutori, spesso, non hanno nessuna voce in capitolo) e pubblico, e questo è fuori discussione. “Il nome della Rosa” è mancato dalle pagine dei grandi quotidiani – a parte, chiaro, le solite celebrazioni pre-messa in onda. Non ci sono stati veri approfondimenti, e quelle poche, rarissime anticipazioni sono state relegate nelle pagine dei settimanali: un po’ troppo fuori target, forse, rispetto agli spettatori di Rai1.
Gli obiettivi, poi, non sono mai stati chiari. Non solo quelli della storia (il Guglielmo da Baskerville di Eco era una riproposizione, in chiave medievale, del personaggio di Conan Doyle; questo interpretato da John Turturro, invece, che cos’è?), ma anche dei riferimenti. Chi – eccola la domanda cruciale – avrebbe dovuto vedere “Il nome della Rosa”? Il pubblico generalista, i lettori di Eco, gli appassionati del medioevo? E perché – altra domanda fondamentale – non c’è stato alcun tentativo di cavalcare il successo de “L’amica geniale”? Perché, ecco, i vertici Rai non hanno pensato bene di dare una continuità alla serialità internazionale della televisione pubblica?
Troppo poco tempo, forse. O – di nuovo – idee troppo poco chiare. Non basta mandare in onda i programmi più commentati dei social network (l’esperienza fallimentare di “Adrian” di Celentano ne è una prova abbastanza palese). Bisogna fare qualcosa di più. Bisogna vendere, prima ancora che il prodotto sia finito e pronto per essere trasmesso, l’esperienza che vivranno i telespettatori. Vendere la storia. Vendere i personaggi e gli attori. Dare il volto a una serie, e fare in modo che vada al di là dei palinsesti televisivi: che trovi una propria dimensione anche “offline”, tra una serata e l’altra.
Qualcuno dirà pure che “Il nome della Rosa” è troppo lungo, ma non è questo il problema. O meglio: non è solo questo. Ci sono serie molto più lunghe de “Il nome della Rosa” che hanno resistito. E ci sono serie peggiori de “Il nome della Rosa” che però, a livello di ascolti, sono andate molto meglio. Quello che ha messo in ginocchio la serie di Rai1 è stata la sua vaghezza. Il suo essere fuori fuoco. Una disattenzione generale che ha reso quello che poteva essere il nuovo gioiello della corona di Viale Mazzini, l’ennesimo ingombrante e rumorosissimo carrozzone.
È probabile che per la serata finale, prevista per lunedì 25 marzo, gli ascolti aumenteranno. Ma questa decrescita infelice di share dovrebbe far suonare un campanello d’allarme: non basta – non oggi, non più – mandare in onda qualcosa e sperare che lo spettatore medio, annoiato da una giornata di lavoro, o di non-lavoro, lasci accesa la tv sul primo canale e guardi tutto passivamente. Non bastano nemmeno più i grandi nomi (qui c’era John Turturro, bravissimo, mortificato dal doppiaggio italiano). Bisogna creare un discorso comunicativo. Bisogna fare bene dentro e fuori. Come, lo ripetiamo, era stato fatto per “L’amica geniale” (anche lì, inutile dirlo, c’erano stati ritardi e sbavature; ma alla fine tutto, vuoi o non vuoi, aveva trovato un suo flusso, una sua ragione). “Il nome della Rosa” è la dimostrazione che la serialità internazionale non va rincorsa solo nei suoi budget, nei suoi temi, nelle sue aspirazioni, ma anche nel suo linguaggio comunicativo. Non cambia solo il contenitore, il piccolo schermo; cambia anche chi lo guarda. E per fortuna.