Il professor televisione
Aldo Grasso, il critico che ha scritto la storia del presente con il piccolo schermo. Esageruma nen, ma non troppo
Esageruma nen. Non c’è bisogno di un Google Translate piemontese per capire il significato, e anche l’inflessione e l’intonazione. “Non esageriamo”. C’è tutto il sapore, e il sapere, di un mondo solido e terrigno, in quell’atavica prudenza modesta. La prudenza e la sapienza di essere nati a Sale delle Langhe. Un punto di vista sul mondo, una scuola di vita. Così che quando il maestro di scuola, relazionando sul comportamento dei figli, immancabilmente diceva “il Piccolo è molto bravo” (lui è sempre stato “il Piccolo”, in quegli anni Cinquanta che ancora sapevano di Pavese e Fenoglio) suo padre rispondeva soltanto, immancabile: “Esageruma nen”. Ed è così che molti anni e molte visioni dopo Aldo Grasso – il professore della televisione, il critico della televisione – ha ringraziato per la festa accademica che gli ha offerto la sua università, la Cattolica di Milano, di cui è stato docente di Storia della televisione e dove ha fondato e dirige il Centro di ricerca sulla televisione e gli audiovisivi. Ha risposto: “Esageruma nen”. Gli hanno dedicato, come si usa in accademia, un volume di studi in onore, a più mani. Su quegli argomenti che, quando iniziò, ancora non esistevano, in Italia, come materia di scienza. La televisione, per Moravia, era ancora una cosa per italiani di serie B, come l’amore per l’Avvocato: una cosa da cameriere. Intanto però la televisione faceva la storia del Novecento, e non ha smesso di farla nemmeno adesso, anche se il televisore non è più “il nuovo focolare domestico”, il totem adorato sopra a un mobiletto con centrino di pizzo, ma è diventato tanti device che ci inseguono e da cui ci facciamo voluttuosamente raggiungere.
La festa accademica organizzata nella sua università, la Cattolica di Milano, di cui è stato docente di Storia della televisione
Alla Rai dei professori gli toccò la direzione della radiofonia. Poi arrivò Berlusconi, il politico uscito dalla tivù, e i professori andarono a casa
E allora esageruma nen, ma se non vogliamo stare a parlare del professore che ha tracciato il solco per studiare la televisione come oggetto di storia e produttore di storia, si può ben parlare della televisione. Di quella nuvola di elettroni che ci gira attorno, che ci attrae come un magnete e costruisce e determina gli avvenimenti del mondo molto più di quanto faccia finta di raccontarli, il rettangolo magico “che ci fa tanto feroci”, direbbe Dante: nel trash urlato, che abita ai piani bassi del popolo televisivo, nel magheggio della politica che occupa il mondo di mezzo (quindici anni dopo l’editto bulgaro, in Italia siamo ancora impantanati al caso Fazio-Salvini), o nelle costruzioni di senso che vengono disegnate nei piani altissimi del potere, dove regnano i veri grandi influencer: da Trump in giù. Ecco. Di tutto questo, senza esagerare, Aldo Grasso è il capostipite degli studiosi, in Italia. Il primo che ha messo in ordine i fatti, i testi e i “paratesti”, la storia dell’industria e quella delle idee, e che ha avuto la capacità paziente, come un vignaiolo delle Langhe, di scavare e preparare il terreno. Di fare storia della televisione come un settore specifico della “storia del presente”. E’ quello che, in estrema sintesi, di lui scrive nel volume in suo onore Lorenzo Ornaghi, scienziato della politica, ex rettore della Cattolica, amico e sodale accademico.
Soltanto che lui, questo lavoro, da trent’anni lo fa anche attraverso un’altra cattedra, la sua rubrica quotidiana di critica televisiva sul Corriere della Sera. Il primo, finora l’unico, professore ordinario applicato al caleidoscopio degli schermi e dei palinsesti day by day. E anche in questo Aldo Grasso ha segnato un prima e un dopo. Non che quello che c’era prima fosse per forza brutto, o male: semplicemente era diverso. Prima, scrivere sui giornali di televisione era come affacciarsi dal terrazzo di un circolo letterario, o di un atelier di eletti, e sbirciare la pubblica piazza, lo strano brulichio, e sbertucciarlo o drappeggiarlo a seconda del proprio trasporto. Ma sempre rimanendo su un piano (morale, culturale, o del palazzo) più in alto. Poteva essere il ghirigoro di Achille Campanile, o la critica agra, perforante di Luciano Bianciardi. Finché anche nella provincia italiana gli studiosi iniziarono a studiare come una cosa seria quell’elettrodomestico, e si chiamavano Umberto Eco o Gianfranco Bettetini (alla Cattolica, appunto). La critica televisiva era bella e scoppiettante anche prima che Aldo Grasso iniziasse a portare il suo magistero quotidiano nel transeunte palinsesto dei giornali. Aveva la satira incorporata e cattiva di un Sergio Saviane, finché l’Espresso non gli chiuse la rubrica e lui dovette emigrare dalle parti di Montanelli; o aveva la letteratura incorporata di un Beniamino Placido, firma della prima Repubblica scalfariana; o aveva incorporate le incursioni crossover, tra il colto e il pop, di un maestro divertito come Oreste del Buono e della sua nidiata di discepoli linusari. Insomma era un guardare non metodologico e fatto di gusto, d’estro, di guizzi, di ferocia, quel che il maestro Bettetini definiva un “approccio impressionistico”, ma ben calato negli eventi, ben dentro al flusso catodico (allora era catodico) che si faceva vieppiù impetuoso e cangiante. Erano gli anni in cui nasceva la “neotelevisione”, fortunato neologismo di Eco, un tutt’uno con la televisione commerciale e multicanale e con l’ombra inquietante di Silvio Berlusconi. E a dissodare gli studi sugli audiovisivi, a metterci un metodo diverso arrivava in quegli anni, dalle parti della Cattolica, questa strana banda di giovani studiosi. Che avevano iniziato col cinema, e con un cineclub a Savona, dove Grasso era andato a fare il liceo. C’era Tatti Sanguineti, c’era Carlo Freccero. E’ lì che nasce la leggenda metropolitana della “pesto connection”, un legame fluido ma indissolubile (i legami sono sempre fluidi ma indissolubili) capace di percorrere la storia della televisione e della critica italiana, arrivando ad agganciare persino Fabio Fazio, di parecchi anni più giovane e destinato dagli dèi a stare dall’altra parte della telecamera. A Milano, quelli del pesto incontrarono Alberto Farassino, che se ne andò molto presto, Francesco Casetti, che in Cattolica poi insegnerà Storia del cinema. Insomma si andava formando non una scuola, ma un modo di studiare, di appassionarsi all’audiovisivo con un metodo e un rigore diversi. Proprio nel bel mentre che, sul crinale tra gli anni Settanta e gli Ottanta del secolo breve, la centralità del cinema come medium cruciale lasciva il posto allo strapotere della tivù. Come scrive Massimo Scaglioni, che insegna a sua volta in Cattolica e ha coordinato il volume: “Il discorso sulla televisione come istituzione e come ‘mezzo di comunicazione’ iniziava a diventare sempre più ricco e urgente. In quello stesso periodo si stava concludendo la prima fase della storia del piccolo schermo, in Italia così come nella maggior parte dei paesi europei: l’età della ‘scarsità’ e dei monopoli pubblici, che avevano svolto un ruolo ‘nazionale’ di primo piano, specie nel nostro paese, frammentato culturalmente e linguisticamente”.
Quando inaugurò la sua cattedra del quotidiano attraverso cui fare la storiografia del presente, il professor Grasso portò così uno stile diverso, che un po’ intimidiva il lettore. Un lessico appropriato, un’attenzione ai linguaggi e non al colore. Per fare un esempio tra i recentissimi, di Chiara Francini può dire: “Il factual (il genere che racconta la realtà) tollera a fatica l’enfasi, la recitazione e la Francini recita troppo”. Però, dopo lungo magistero, oggi anche il lettore normale è tenuto a sapere cosa si intende quando trova scritto che un tal genere narrativo “subisce un processo di ‘soapizzazione’”. Più che i lettori, Grasso solitamente agita e irrita i personaggi televisivi: quando si sentono irrimediabilmente stroncati, ma anche quando non riescono a intercettare il registro linguistico del critico: mi starà facendo un elogio o mi starà tirando una legnata? Il problema, ma loro non lo sanno, è che per Grasso è perfettamente possibile svolgere le due fasi in contemporanea, nel testo e nel sottotesto delle stesse parole. Esistono sul web e su Facebook infiniti elenchi di nomi di “stroncati da Aldo Grasso”. Da Paola Perego a Dario Caressa, da Luca Telese a Selvaggia Lucarelli. Nasce probabilmente da qui, da quella libertà di tono nel bacchettare chi vuole, ma sempre facendolo con la canna di bambù lunga lunga, come un maestro giapponese, irraggiungibile alle repliche, la leggenda dell’Uomo di Potere. Di un’eminenza grigia che al riparo nei sacri palazzi del potere televisivo ed editoriale fa e disfa carriere. Lo pensano in molti, tanto più in questa epoca in cui ogni competenza è sinonimo di sospetto. Anche se poi basta una controprova fattuale: prendete l’elenco delle vittime preferite di Grasso, su alcune ci prova proprio gusto: nessuno è sparito dai palinsesti. Lo stesso per le sue preferenze. Che ha, come le hanno tutti. Che poi basterebbe l’unica uscita fuori dal mondo del Corriere e dell’accademia, “la Rai dei professori”, per capire qualcosa del potere vero della televisione. Era il fatidico 1993, mentre crollava la Prima Repubblica qualcuno pensò di salvare almeno Mamma Rai con dei “competenti”. A Grasso toccò la direzione della radiofonia. Poco dopo arrivò Berlusconi, il politico uscito direttamente dalla televisione, e i professori andarono a casa.
La critica televisiva era bella e scoppiettante anche prima che Grasso iniziasse a portare il suo magistero. Ma era diversa
La libertà di tono nel bacchettare chi vuole, ma con la canna di bambù lunga lunga, da maestro giapponese, irraggiungibile
Più che il talento per gli arcana imperi, il suo genio è un genius loci, è il metodo dell’agricoltore. Il titolo del libro di studi in suo onore è quanto di più distante da un frame televisivo: Appassionati dissodatori - Storia e storiografia della televisione in Italia (a cura di Massimo Scaglioni, Vita e Pensiero). Allusione al lavoro duro e paziente, di zappa. “Dissodatore appassionato” è un’immagine-ritratto che il langarolo Grasso ha dipinto da sé e per sé. Un lungo lavoro “fra questi due estremi – ipertrofico chiacchiericcio e invisibilità del medium – si situa il mio lavoro per il quale, immodestamente, rivendico una qualche attitudine pionieristica, il dissodamento di un terreno incolto, la prima stesura di mappe perfettibili di un esploratore appassionato”. Ipertrofia e invisibilità, non sono due parole scelte a caso (il professore non è uno che scelga le parole a caso, nemmeno quando ordina il caffè). C’è un troppo di parole dette, in televisione, fuori e attorno alla televisione. Parole di troppo che gonfiano la politica, la comunicazione sociale, la confondono, la sporcano. E da quel troppo che stroppia bisogna stare lontani, esercitare la critica e la diminutio. E poi c’è un’invisibilità, che è propria della regia e degli audiovisivi: il taglio dell’inquadratura, quello che vediamo e quel non ci è fatto vedere. Ed è invece compito del critico svelare. Il troppo e l’invisibile, a pensarci bene, sono una traduzione di “esageruma nen”. E anche un modo di parlare, di fare battute, tagliente eppure laconico. Uno stile in levare, che consente di restare circoscritti, puntuali, anche quando sotto si sente la voglia di invettiva.
Non è che l’uomo sia senza passioni. Gliene si conoscono almeno due. Una, ma va là?, è la televisione. Che è venuta dopo, cronologicamente, il cinema. La prima passione, il grande Ejzenstejn, oggetto di tesi di laurea. Martedì scorso, nell’aula austera della Cattolica, qualcuno ha celiato sul fatto che il primo libro di Grasso, un Castoro Cinema su Sergej M. Ejzenstejn, uscì quasi in contemporanea con Il secondo tragico Fantozzi, quello della Corazzata Potemkin. E questo, per parafrasare De Gregori, decise la sorte del cinema, l’avvenire dei suoi studi e il suo mestiere. Però la tivù, persino nella sofferenza del trash, gli piace. Nessuno starebbe a dissodarla ogni giorno ore e ore (e le sere, ah, le sere) su più schermi e in diretta per anni e anni, se avesse per l’oggetto davanti ai suoi occhi nient’altro che disgusto, o noia. Quella noia che invece spesso si intravvede nelle critiche dei colleghi. In Grasso, quando non c’è una civile indignazione, c’è spesso il divertimento sornione, il gusto di un altro bonbon mangiato. L’altra passione è il Toro, e si sa. Probabilmente usa i termini appropriati pure quando soffre davanti al video per il Torino, e lasciatelo da solo, nella stanza: lui, la tv e il Toro. Ma questo non gli impedisce di guardare con l’occhio del professore anche la narrazione sportiva. Di impartire consigli – regolarmente inascoltati – su come debba essere fatta una telecronaca, che non è una radiocronaca, e a cosa serva la doppia conduzione. O di scrivere: “Il testo (nel caso specifico, un modo di giocare) raggiunge la sua pienezza quando si dispone alla critica. Solo così si rigenera in continuazione”. Ma non stava insegnando in università: stava difendendo Lele Adani nella rissa con Max Allegri. Forse anche in questo ha cambiato il nostro modo di guardare la tivù. Ma, nell’incertezza, esageruma nen.
Politicamente corretto e panettone