Quel che Fleabag sa di noi
Una risata triste che parla, e che ci guarda. Phoebe Waller-Bridge ha raccontato con cinico candore questa specie di età adulta in cui la cosa più rassicurante è trovare un taxi la notte
Nell’istante in cui Fleabag, sacco di pulci, con quel rossetto rosso, la pelle bianca e il sorriso sexy, dice a suo padre: ho il terribile sospetto di essere una donna avida pervertita, egoista apatica depravata cinica moralmente fallita che non merita di essere chiamata femminista, noi decidiamo di amarla (del resto il padre le risponde: beh, hai preso tutto da tua madre, e sono le due di notte e non la invita nemmeno a entrare in casa). L’amiamo perché le persone sono anche questo, depravate ciniche moralmente fallite, sull’orlo del pianto e sole, e se il tango è un pensiero triste che balla, “Fleabag”, la serie Bbc scritta e recitata da Phoebe Waller-Bridge è una risata triste che parla, e ci guarda. Parla e parla, non smette mai di parlare, parla da sola ma parla a noi: abbandona il suo amante, suo padre, il suo orribile cognato, la sua nevrotica sorella, il suo fragile fidanzato con cui è a letto nuda, per fissare noi sul divano e dirci: vorrei solo che mi scopasse, lui invece vuole fare l’amore.
Lei lo pensa, anzi lo dice: mi sta sprecando. Ci chiede con gli occhi di capirla, ci chiede (lo chiede a se stessa, guarda noi per guardare se stessa, per non nascondersi la parte orribile, la parte divertente, la parte disperata) di amarla anche mentre fa le cose più egoiste, ciniche, depravate, ci chiede di passare continuamente dal pensiero semplice a quello complesso, e dal fingere soltanto di dire la verità al dirla davvero.
Lei ci guarda e ci chiede con gli occhi di capirla, di amarla anche mentre fa le cose più egoiste, ciniche, depravate
Dire la verità: è solo così che nasce qualcosa di bello, nell’arte. Dirla in un modo in cui nessuno l’ha ancora detto, dirla trovando il punto esatto e però sempre misterioso che offre la sensazione di essere andati qualche centimetro più avanti. Guardare Phoebe Waller-Bridge sola nella sua caffetteria dedicata ai porcellini d’india che si tormenta per quello che è stato, guardarla mentre alle conferenze femministe, a cui il padre manda lei e sua sorella, alza la mano con convinzione alla domanda: chi darebbe cinque anni della sua vita per il corpo perfetto?, fa venire voglia di alzare la mano insieme a lei, che non si toglie il trench perché altrimenti la sorella si accorgerà del golf che le ha rubato. Se ci guardiamo intorno, attraverso la letteratura, e ci sono libri che raccontano la verità dei rapporti fra uomini e donne con una precisione libera dalla vergogna di sé e dall’inibizione: Chris Kraus, con “I love Dick”, Sally Rooney, Rachel Cusk, Sheila Heti con “Maternità”. Tutto quello che vogliamo sapere, possiamo saperlo, come in una lunga conversazione tra amici. Tutto quello che non credevamo di pensare, invece lo pensiamo.
Phoebe Waller-Bridge qualche anno fa aveva creato “Fleabag” come monologo teatrale dopo averlo quasi improvvisato a una serata di stand up comedy, ha avuto molto successo e adesso ha scritto anche “Killing Eve” (Netflix) sulla possibilità di essere stronze psicopatiche serial killer, ma è con questa giovane donna affascinante e spiritosa senza un soldo e senza un vero nome, che fa sempre qualcosa di deludente o che si prende anche le colpe che non ha, e non soffre abbastanza oppure soffre male, è con “Fleabag” (due stagioni su Prime, puntate da venticinque minuti che finalmente offrono l’illusione di governare il proprio tempo) che il racconto indaga sui rapporti di potere fra uomini e donne, offrendo un punto di vista femminile spudorato e fresco, che apparentemente non ha bisogno di farsi domande perché ha scelto il caos (se lui scrive alle due di notte perché vuole passare a casa tua, devi fargli credere di essere appena rientrata e nel frattempo depilarti, rivestirti, aspettare davanti alla porta e poi aprirla fingendo di esserti dimenticata che stava arrivando e per educazione dire poi sì a tutto), ma che in realtà mette continuamente sotto esame il desiderio e il fallimento dei rapporti, e soprattutto prende il coraggio che serve per dire: le donne sanno sempre quello che stanno facendo, anche se per tutto il tempo fingono di no.
Forse è tutto più semplice, e complicato, di così: se la vendetta e la vanità fossero la stessa misera, unica, potentissima cosa?
Anche quando è una grande cazzata, anche quando poi per strada rimangono solo gli ubriachi, e il rimmel cola da tutte le parti e qualche volta anche il sangue dal naso nel bagno di un ristorante. Phoebe Waller-Bridge usa questa assoluta libertà nel mostrare personaggi femminili (la matrigna infida, la sorella anoressica, l’amica incasinata, la psichiatra acutissima) che non sono mai totalmente negativi, o totalmente fantastici: sono contraddittori, e il dentro e il fuori non coincidono mai. E allora Fleabag, sacco di pulci, ci mostra con una specie di cinico candore il dentro mentre fa compagnia o mentre fa a botte con il fuori. Mentre parla con il prete e finge di interessarsi alla conversazione alta e intanto pensa: oddio il suo braccio, oddio il suo collo, oddio mi ha toccato. Non lo fanno soltanto gli uomini, di fregarsene di quello che stiamo dicendo quando parliamo con loro, non è una cosa offensiva della dignità di nessuno, è una cosa che riguarda le relazioni e quindi il potere. Il potere della seduzione, la necessità di usare le armi che si hanno (la conversazione, la disperazione, la comicità, la religione, il rossetto, la schiena nuda, una domanda diretta) perché tutto quello che si desidera è avvicinarsi a quel corpo oppure farsi avvicinare da quel corpo. E’ la goffaggine del sesso, anche. “Non è che sono ossessionata dal sesso, è che non riesco a non pensarci”, dice Fleabag seduta sul water, dopo avere fatto qualche disastro. Philip Roth descrive questo meccanismo infernale ne L’animale morente (“Per quante cose tu sappia, per quanto tu ordisca e trami e architetti, non sei mai al di sopra del sesso. Un uomo non avrebbe i due terzi dei problemi che ha se non continuasse a cercare una donna da scopare. E’ il sesso a sconvolgere le nostre vite, solitamente ordinate. Ogni vanità, portata alle estreme conseguenze, finisce sempre per burlarsi di te”) e Fleabag viene a dirci che per le donne è la stessa cosa: la vanità è la stessa, la burla è la stessa, il momento prima, “quando ti rendi conto che qualcuno desidera il tuo corpo” è lo stesso, la vendetta verso tutto ciò che nella vita ti ha sconfitto è la stessa.
La matrigna infida, la sorella anoressica, l’amica incasinata, la psichiatra acutissima. Qui il dentro e il fuori non coincidono mai
Philip Roth è un grande scrittore con l’ossessione del sesso, Phoebe Waller-Bridge è una giovane sceneggiatrice e attrice che ha ossessionato i suoi fan per il colore delle labbra (il colore si chiama “Phoebe” ed è ottenuto mischiando diversi toni di rosso); lei finge che sia tutto molto poco intellettuale, solo molto aderente al reale, una piccola cosa vera ma: “Vuoi scoparti il prete o vuoi scoparti Dio?”, chiede la psichiatra anziana alla ragazza con le labbra rosse.
E’ questa, infine, nella seconda stagione, la vera domanda. Vuoi colmare il vuoto che hai dentro, il fallimento che sei, la madre che non hai più, o vuoi sentirti onnipotente? Vuoi vendicarti di quello che ti ha ferito o vuoi portare fino alle estreme conseguenze la tua vanità, senza alcun senso del ridicolo? Però forse è tutto più semplice, e complicato, di così: se la vendetta e la vanità fossero la stessa misera, unica, potentissima cosa? Che Roth prende immensamente sul serio e su cui Phoebe Waller-Bridge immensamente scherza, come un pensiero triste che balla, facendo per un attimo vacillare la sua protagonista sotto lo sguardo insistente di un cane (“No, però non posso uscire con un cane”, dice scrollando la testa e proseguendo per la sua strada). E infatti la giovane Fleabag incontra una Fleabag molto più sicura, realizzata, molto più adulta e molto meno confusa, Kristin Scott Thomas, donna d’affari che ha appena vinto un premio per le donne (“Che buffonata i premi per le donne”) e loro due finiscono in un pub a ubriacarsi. Il monologo di Kristin Scott Thomas è bellissimo, e affronta diritto il dolore, che Fleabag nella sua giovinezza e nella sua finzione di spensieratezza non ha ancora intenzione di teorizzare. “Le donne nascono con il dolore congenito. E’ il nostro destino fisico. Ce lo portiamo dentro per tutta la vita. Gli uomini no, devono cercarselo”. Questo dolore congenito permette di sopportare molto altro dolore, o almeno permette di trasformarlo in una storia divertente, permette di sorridere con il rossetto rosso anche quando hai gli occhi lucidi e non ci sono taxi. Permette di capire che tutto ciò che abbiamo sono gli esseri umani, e quel che accade fra di loro dentro una stanza. A una festa, per la strada, dentro casa. Quello che ancora non sai che succederà. Kristin Scott Thomas dice: “Mi manca entrare in una stanza senza sapere quello che mi aspetta”, e la differenza forse è questa: un uomo non smette mai di entrare in una stanza senza sapere quello che lo aspetta. Fa parte del corpo e fa parte della volontà. Fleabag ha trentatré anni e la sua amica più anziana le dice: oddio, poverina, vedrai che poi passa. Poi passa, però intanto bisogna dire la verità, almeno nell’arte: e la verità è che è terribile e divertente questa lotta per la supremazia, fra uomini e donne.
Non lo fanno soltanto gli uomini, di fregarsene di quello che stiamo dicendo quando parliamo con loro. Philip Roth e l’Animale morente
Questa risata triste che parla e che guarda verso di noi che la guardiamo. Questo continuo equivoco su chi sia il più forte, e su cosa sia giusto desiderare. La sorella della protagonista a un certo punto lo capisce, che cosa desidera, si taglia i capelli in un modo orrendo e chic e scappa dal matrimonio di suo padre. Lei, Fleabag, aspetta un autobus che non arriva. Ed è perfino sollevata di dover ricominciare a camminare. Salutandoci.
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