E' la scena che segna il solco
Dal barcone di Gad Lerner ai tavoli di legno fino agli sgabelli di plexiglas della Berlinguer, la scenografia nei talk-show è simbolo, feticcio e celebrazione della scomodità de’ sinistra
All’epoca della vertenza Nortel, Michele Santoro faceva le dirette dal tetto coi lavoratori in cassa integrazione (era l’anno degli U2 in cima al palazzo della Bbc e cinquantenario del “rooftop concert” dei Beatles). Oggi Gad Lerner mette due operai della Whirlpool sul barcone-fantasma che domina lo studio de “L’Approdo”, seduti tra Carlo Galli e Angelo Panebianco che se ne stanno adagiati uno a poppa, l’altro a prua, ma almeno sopra una sedia in plexiglass. Si espande così tutta la galassia semantica di quel nuovo feticcio scenico: il viaggio impervio, il mare come spazio aperto di una nuova lotta di classe, i migranti, gli operai, i barconi, le fabbriche, la poesia omonima di Primo Levi letta da Gad in chiusura di puntata e pure l’ultima Biennale di Venezia con l’installazione “Barca nostra”, progetto dell’artista svizzero, Cristophe Büchel, che ha portato all’Arsenale il relitto del barcone naufragato al largo della Libia nel 2015. Lo sdegno dell’arte si salda alla “suggestiva scenografia” realizzata da Beppe Chiara, già autore dell’acquario di Fazio, che a sua volta ha avuto l’idea del barcone affondato “ispirandosi alla Barcaccia di Roma semisommersa nella fontana di piazza di Spagna”; e in questa vertigine di arte, riflessività e indignazione, i due operai della Whirlpool se ne stanno lì, seduti sul fianco del relitto, un po’ attoniti, sicuramente molto scomodi, in quota Anna Longhi installazione-vivente nelle “Vacanze intelligenti”.
La scenotecnica dei talk-show ha sempre raccontato e dato forma alle trasformazioni, ai tic, alle ossessioni della telepolitica
Dai fondali di legno di “Profondo Nord” al barcone de “L’Approdo”, dagli schermi di “Mixer” alla lavagna di “Propaganda Live” dove Diego Bianchi legge i tweet come un maestro Manzi due punto zero, la scenotecnica dei talk-show ha sempre raccontato e dato forma alle trasformazioni, ai tic, alle ossessioni della telepolitica, con le sue infinite variazioni di “allestimento dell’attualità”. E’ lì, nella scenografie televisiva, che emerge meglio la stretta parentela tra il teatro e i talk-show. La scenografia del talk riflessivo, specie su RaiTre, è in genere scarnificata, altamente allegorica, sempre immersa nella penombra. Si porta molto il buio intorno al conduttore che esalta la forza della “televisione di parola”: il buio gravido di dolore, fantasmi, sensi di colpa che circonda il barcone de “L’Approdo”, oppure il buio che racconta le pieghe oscure e gli anfratti dell’inconscio in “Lessico amoroso”, con Massimo Recalcati in total black e girocollo che fa tutt’uno con la scena, lasciandosi alle spalle un po’ di immagini da screensaver, ectoplasmi, schiuma quantistica o forme primordiali di vita acquatica, come nei peggiori “momenti filosofici” dei film di Terrence Malick. Dobbiamo soprattutto a Michele Santoro l’introduzione di questo buio molto brechtiano, molto “off-off” che oggi si ostenta un po’ ovunque nella tv di approfondimento. D’altro canto, al “teatrino della politica” Santoro ha sempre opposto un teatro di ricerca e sperimentazione (“ho preso in prestito da Pina Bausch l’immagine delle sedie ribaltate sulla scena per frantumare il salotto televisivo e provare a cambiare il ritmo della narrazione”, spiegava presentando l’ultima stagione di “Servizio pubblico”; come dimenticare poi il dirigibile di Umberto Nobile per “Italia”, con il conduttore che apriva le puntate camminando tra i container di legno buttati per terra ma senza la tenda rossa e senza Titina).
“Porta a Porta” è uno dei pochi talk fondati sulla poltrona e per di più di pelle bianca, simbolo di purezza. La nostra memoria collettiva
Nato in un angolo dello studio del Tg3, “Samarcanda” aveva all’inizio un arredamento molto classico (poltrone, tavolino, soprammobili), poi dalla seconda edizione cambiò tutto: via gli interni piccolo-borghesi, via il naturalismo, Michele Santoro balzò in piedi, il salotto lasciò il posto a uno studio buio e lui prese a “usare il corpo come una macchina da scrivere”, come avrebbe spiegato anni dopo raccontando quell’euforica mescolanza di teatro agit prop e televisione di stato. Non solo “semplici scenografie” ma metafore, simboli, feticci, come il maxischermo per i collegamenti con la piazza, altra grande novità introdotta dalla tv santoriana, finché non arrivarono i tavoli. Dal mattino a notte fonda, ormai da anni ospiti e conduttori dei talk-show si riuniscono attorno a tavoli di ogni tipo, come a voler dare un’immagine plastica e concreta al racconto della cronaca politica: tavoli di crisi, tavoli di concertazione, tavoli sindacali, tavoli tematici, tavoli di lavoro, tavoli sociali, rigorosamente di legno, come in un bistrot al Pigneto, uno stand alla festa del Pd o come a “Ballarò” nell’edizione con Massimo Giannini; e poi ancora tavoli di plexiglass, tavoli di design, quasi sempre variazioni sul motivo del tavolo circolare, allungato, espanso, differito, come a “Otto e mezzo” di Lilli Gruber, come a “In mezz’ora” di Lucia Annunziata. La vera differenza tra il trash televisivo e l’opinionismo politico sta infondo nel tavolo: il gossip si fa quasi sempre sul divano, sprofondati in una poltrona o in quelle capsule da “sci-fi” anni settanta che usano a “Non è la D’Urso”; l’approfondimento si fa sempre attorno a un tavolo. All’inizio, gli ospiti di “Piazza Pulita” sedevano dentro ampie e probabilmente fuori budget poltroncine di pelle, poi in soccorso della produzione arrivò il tavolo comune (più del digitale terrestre, Leroy Merlin e Ikea dividono la storia dei talk-show in due). Sviluppato in tutte le sue potenzialità nei format della politica, il tavolo ha invaso tutti i programmi (c’è il tavolo ovale a “90° Minuto”, a “Sky Sport”, c’è il tavolo-bancone per i giudici dei talent). Si capisce quindi tutto il clamore e lo scalpore suscitato dal relitto di Gad Lerner, raccontato e portato in trionfo come la vera star del programma: “Grazie alle maestranze della falegnameria Rai che hanno realizzato la nostra scenografia” scrive Gad Lerner su Twitter lanciando la seconda puntata, mentre su “Repubblica Tv” possiamo ammirare il “making of”, il video in timelapse della costruzione della scenografia, oppure il video, “Gad Lerner dietro le quinte de ‘L’Approdo’: ecco come è nata la scenografia”, come usa per le grandi mostre, i vecchi kolossal, gli allestimenti d’opera.
La vera differenza tra il trash televisivo e l’opinionismo politico sta proprio nel tavolo: il gossip si fa quasi sempre sul divano
Come le varie macchinerie teatrali in uso nel teatro greco permettevano di aggirare la proibizione di mostrare un assassinio sulla scena, come “i semicerchi girevoli” descritti da Polluce fornivano la veduta di un paesaggio lontano lasciandolo per lo più immaginare allo spettatore, così il barcone di Gad Lerner se ne sta lì per atterrire lo spettatore. Un ritorno al classico, evocato già d’altronde dal titolo di una trasmissione che è il remake in salsa politica di uno dei più longevi programmi culturali della Rai pedagogica, messo su nei primi anni sessanta da Carlo Bo, Roberto Longhi, Giuseppe Ungaretti. Un ritorno al classico anche rispetto, ad esempio, alla scenografie elisabettiane di Floris a “DiMartedì”, a sua volta in debito (Floris, non Shakespeare e Marlowe) con l’incompreso “Macao” di Boncompagni. L’esaltazione della falegnameria fa molto RaiTre e ci rimanda anche ai beati anni degli esordi di Lerner con “Profondo Nord” e “Milano, Italia”, qui intese soprattutto come altrettante variazioni scenografiche sulle sconfinate possibilità del legno. Il 22 ottobre del 1992, durante la seconda puntata di “Profondo nord” allestita all’ultimo momento nel teatro Silvio Pellico di Trieste, anziché a Brescia dov’era inizialmente prevista, Gad Lerner sottolinea il grande lavoro della sua squadra: “Consentitemi di dire un grazie di cuore ai miei scenografi che hanno fatto miracoli per creare la scenografia di questa trasmissione, una trasmissione che vuole raccontare la realtà, anche quando la realtà appare dura”. E’ la celebrazione delle famigerate casse di legno da imballaggio sui cui si siedono gli ospiti di “Profondo Nord”. Si montano in pochi minuti, sono riutilizzabili, robuste, pratiche, pieghevoli; ideali per il talk-show itinerante di Lerner, per il racconto di una realtà “dura” e gravide di significati simbolici nell’Italia a un passo da Tangentopoli. Le casse di legno da imballaggio come metafora cristallina di un pezzo di paese che lavora contro la politica delle poltrone.
Il clima anticasta e i politici seduti sulla cassa di legno pronti alla gogna, un’anticamera dell’inginocchiamento sui ceci
Un ribaltamento epocale, la rappresentazione plastica del clima anticasta, con i politici che non venivano più fatti “accomodare” ma esposti a una sempre più imminente gogna televisiva (la cassa di legno come anticamera dell’inginocchiamento sui ceci mentre la “società civile” sedeva comodamente in platea o si radunava nelle piazze, nei maxischermi di Santoro). Nella storia della scenotecnica dei talk-show si apre un ciclo. Da “Profondo Nord” fino a “Propaganda Live” (passando per ristoranti macrobiotici e winebar dei centri storici) le casse di legno da imballaggio raccontano un altro motivo profondo del talk, soprattutto “di sinistra” o riflessivo: ci sedemmo sul legno perché tutte le poltrone erano occupate. Ambra e Gramellini invitano lo scorso anno gli ospiti su un divano di legno a forma di rogo di spine, ultima frontiera del disagio di RaiTre, ed è nota la pericolosità delle scenografie di “Cartabianca”, dei suoi letali sgabelli in plexiglas, tanto che lo scorso anno Berlusconi pretese una tradizionale sedia con i braccioli, usandoli come supporto per appoggiare documenti, carte, appunti, e la povera Bianca Berlinguer ci rimase male. In questa continua celebrazione della scomodità, “Porta a Porta” è uno dei pochi talk fondati sulla poltrona e per di più di pelle bianca, cioè simbolo di purezza, quantomeno di presunzione di innocenza della casta. Tutto il rituale del programma di Vespa (il maggiordomo, la campanella, l’arredamento neoclassico e laccato, tra richiami “stile Impero” e reminiscenze di ristoranti e templi degli after hour romani anni ottanta, il “Gilda”, il “Jackie ‘O”, l’“Easy Going”) è anche un formidabile lavoro sulla memoria collettiva, un’esaltazione della dimensione istituzionale del format storico di RaiUno (il tavolo di ciliegio bianco su cui si firmò il “contratto con gli italiani”): “Porta a Porta” come zona-lounge e riparo dello spirito nelle scorribande notturne dei talk-show, ultimo “salotto signorile” della tv, più che “terza camera”, col pubblico che ritorna a essere pura scenografia, muta, composta e non isterica claque come da Floris. Però infondo, tutta questa insistenza sul legno (nei tavoli, nelle sedute, nelle scenografie dei talk “de sinistra”) si fonda anche sull’inevitabile simbologia post-comunista delle “radici” che ci ha sopraffatti una volta dismesse le falci e il martello: è stato tutto un legno continuo, dalla quercia del Pds e dei Ds fino all’Ulivo e ai “tavoli e le lavagne della Leopolda”; una specie di tenace resistenza alla plastica colorata degli anni ottanta e al colorato berlusconismo di governo.
La storia della Leopolda di Renzi andrebbe per esempio letta più dentro le trasformazioni degli allestimenti scenici dei programmi televisivi che in quella dei congressi politici. Di tutte le scenografie della Leopolda fu senza dubbio quella del 2014, la prima di Matteo Renzi da uomo di governo, a incarnare meglio l’ideologia del renzismo: una lavagna di legno, due vecchi banconi da falegname, il monoscopio a colori della Rai, una bici capovolta in riparazione un po’ Italia neorealista, un po’ bike sharing, un po’ ready-made di Duchamp. La Leopolda è infondo televisione senza la tv (come nel vecchio slogan della Hbo: “It’s not television, it’s Hbo”) e tutta quella parata di oggetti vintage sul palco (palloni da calcio anni Settanta, pezzi del Subbuteo, vecchi televisori) sembrava tirata giù dalle soffitte di una puntata di “Anima mia” con Fazio e Baglioni. Se le piramidi luminose dei congressi craxiani resteranno per sempre come monito alla grandeur imperiale, la “metafora del garage”, il legno, la bici rovesciata, la vecchia lavagna della scuola con lo schermo a led o l’ultimo MacBook Pro aperto sul bancone da falegname, sintetizzavano il progetto di una sinistra che voleva essere semplice e moderna, solida e liquida, liberale, cosmopolita e nazional-popolare (il renzismo come formidabile prosecuzione del “ma anche” veltronico con altri mezzi, vent’anni di meno, molta più energia e aggressività). Anche tutto quel legno con la sua inevitabile simbologia stava lì in quota “base” e “radici”, ma evidentemente non abbastanza “profonde”.