L'altro mondo, il prequel guatemalteco di Dibba
Il viaggio al termine della legislatura di un antagonista da barzelletta
Il documentario di Dibba ha un incipit folgorante, alla Kerouac: “Ho conosciuto Sahra in un locale a Roma nord, dopo tre mesi le ho proposto di fare questo viaggio insieme perché avevo voglia di tornare sulla strada”. On the road, again. Parte così questo viaggio al termine della legislatura che avevamo seguito prima su Facebook e Instagram, poi con lunghi reportage sul Fatto, poi a puntate su Loft, fino all’approdo su Sky Atlantic che lo impacchetta in forma di docufilm, perché di Dibba non si butta via niente. Dura cinquanta minuti, si snoda per “sedicimila chilometri di mezzi pubblici”, e al ventiseiesimo minuto ti rendi conto che la cosa più inquadrata è il “Che”, in campo lungo, in primo piano, in dettaglio, in panoramica, a colori, in seppia, a mosaico, seguito subito dopo dal figlioletto Andrea che muove i primi passi in Sudamerica.
Questa, in sintesi, la trama: stanco di cercare il Guatemala tra le foreste di Villa Ada e i boschi di Monte Mario, deluso dalla politica e preoccupato per il Movimento, “unico argine all’illegalità diffusa”, Dibba torna dove tutto ebbe inizio: “E’ lì, nella comunità guatemalteca, che mi sono avvicinato alla politica”. L’altro mondo (questo il titolo) è quindi il prequel di Dibba, come sempre a un certo punto capita nelle saghe fantasy o nell’epica della Marvel. Il Messico e il Guatemala come la foresta di Sherwood ma con le mangrovie, i macachi e i mariachi; luogo di ristoro dell’anima corrotta dalla politica e dallo stile di vita occidentale, sorgente primigenia dei suoi superpoteri: “Alessandro non è cambiato”, spiega Sahra, la fidanzata, “è diventato ancora più puro e questo viaggio l’ha riportato alle sue origini”.
A furia di risalire fiumi e prendere autobus coi campesinos e guadare torrenti, Dibba arriva finalmente in Guatemala e qui si sente davvero a casa, conosce tutti e tutti gli fanno le feste. “E’ la sua famiglia carnale e io mi sono sentita come quando vai dai suoceri la prima volta”, spiega sempre Sahra. Come nei confessionali di Temptation Island o in un’esterna selvaggia di Uomini e donne, solo che qui è tutto più “anni Settanta”, quando seduti ai bar qualcuno proponeva di partire senza soldi per le vacanze, col sacco a pelo, l’autostop. Oggi va così, però col figlioletto nel marsupio, alla scoperta non già del sesso o della droga, ma della “povertà”, e in abbondante verbosità no global, come nei peggiori temi della maturità. “Non appena ci siamo confrontati con il turismo normale, quello di massa, diciamo, come quando siamo passati in California, volevamo scappare via”; “sono stato tanto tempo nella giungla”; “ci sentiamo a nostro agio solo tra le mangrovie”. Sembrano battute da Un sacco bello, solo che non c’è traccia di ironia. Perché Dibba si ricollega a quella italianissima, vitalistica tradizione di letterati amanti dell’agonismo e dell’esibizionismo, pronti a mollare la penna per calarsi nell’arena della vita o volare sui teatri di guerra o immergersi nelle periferie del mondo. Perché Dibba spiega cosa significa essere “libberi”, l’imbroglio dell’invasione americana di Panama e la sua crescita artistica: “Di solito fotografo primi piani ma quando ero più giovane mi piacevano delle inquadrature più ampie, oggi mi piacciono i dettagli”. A noi piace Dibba col suo antagonismo pagliaccesco perché in fondo ci fa tornare adolescenti. Come i libri di Fusaro, come la Casa di Carta su Netflix, come le conferenze mondiali di Greta. Più i tempi si fanno complessi, più si promuove una visione del mondo a fumetti, il bene contro il male, la purezza, la corruzione, il popolo, le banche e la “fine del mondo”, ma fatta così male, cioè nel modo più banale, involontariamente comico, sciatto e improbabile, che alla fine si resta ipnotizzati e ci si crede.
Politicamente corretto e panettone