Il populismo burlesque
S’avanza in televisione lo spettacolo dell’indignazione contro i vitalizi e le pensioni d’oro, contro i campi rom e le cooperative del Pd. Con un mattatore clownesco e incontenibile: Mario Giordano
Se provate a guardare una puntata di “Fuori dal coro” togliendo l’audio, Mario Giordano potrebbe essere un consumato predicatore televisivo americano. Solo che invece di andare in estasi per Gesù, cade in trance, sviene, si dimena per un vitalizio, una pensione d’oro, le ruspe, i campi rom, una cooperativa gestita del Pd. In una puntata dedicata alle speculazioni immobiliari dell’Inps porta in scena un enorme contenitore di monete con su scritto “contributi per le pensioni”; dalle quinte dello studio arriva un ladro vestito da ladro che comincia a prendere le monete dell’Inps e le infila in un borsone. Allora Giordano urla “bastaaaa!” e il ladro se ne va. Finita la gag, l’uomo-ladro rientra in scena ma è travolto dal pubblico con un lungo “buuuu”. L’indignazione è alle stelle, la drammaturgia è quella degli animatori delle feste per bambini: elementare, didattica, clownesca. Trasformato in “one-man-show” puntata dopo puntata e rilanciato in prima serata da Rete 4 anche per la prossima stagione, “Fuori dal coro” è oggi il manifesto della televisione populista più sfrenata, surreale, avanguardista. Un esperimento di “populismo burlesque”. Il programma è sempre “pazzesco”, le inchieste tutte “incredibili”. Ecco una scaletta a caso dalle ultime puntate: “Uscite di casa e quando tornate non c’è più, ve l’hanno portata via”; “I rom non pagano l’acqua”; “I viaggi organizzati dell’Inps”; “La verità sulle pensioni d’oro” (un cavallo di battaglia di Giordano); “Tutti parlano dei rubli di Salvini, noi parliamo dei ladri di bambini di Bibbiano”. Tiè. Un’escalation di titoli, denunce, rivelazioni choc che andrebbero lette con la voce di Sandro Mayer quando lanciava i numeri di “DiPiù” e “DiPiùTv”.
Tutto ciò che in Funari era commedia all’italiana, sberleffo, sembra in Giordano scaturire dal mondo dell’opera buffa
Per comprendere il fenomeno Mario Giordano c’è chi ha scomodato il magistero di Gianfranco Funari, ma tutto ciò che in Funari era commedia all’italiana, sberleffo, paraculaggine trasteverina, telepolitica intesa come show, cabaret, happening, sembra in Mario Giordano scaturire più che altro dal mondo dell’“opera buffa”. Una voce recitante, un crescendo di situazioni comiche, mascheramenti, capriole, gran finale concertato. Il talk-show come “dramma giocoso”. Nella sua fase crepuscolare, Gianfranco Funari camminava su e giù per lo studio col bastone, puntava il dito verso la telecamera, si avvicinava al video per guardare negli occhi lo spettatore, “io ti capisco, lo so perché sei incazzato, pure io so’ tanto incazzato”. Era il sintomo autentico della sua conduzione televisiva, la ricerca di un contatto fisico con la telecamera, un segno di irriverenza, di prossimità, di spudorata empatia con la “gente” (“in tv per essere eccezionali bisogna mascherarsi da normali”, spiegava Funari, “te devi abbassa’ al gradino più basso, corteggiare senza pudore le casalinghe”). Ma la mortadella ingurgitata a un palmo dalla telecamera oggi non basta più. Nell’epoca delle dirette Facebook, tutti parlano in nome “in nome della gente” e il “gradino più basso” si abbassa ogni giorno un po’. Così Mario Giordano prova a spingersi più in là, verso territori ignoti e inesplorati. Se Funari cercava la prossimità con la telecamera, Mario Giordano la telecamera la abbraccia, la scuote, la prende a capocciate, ci monta sopra, la violenta, come Jimi Hendrix con la sua Fender Stratocaster. A volte prende la rincorsa come Batitusta dopo il goal su punizione col Milan, quando si fiondò verso le telecamere a bordo campo per urlarci in faccia “Irina te amo!”. Anche Giordano urla. “Si avvelenano le persone e non si rischia una beata mazza! Una beata mazzaaaaa!” dice avvinghiandosi alla telecamera, come in preda a un raptus, la faccia schiacciata contro il video, gli occhi spiritati, le vene fuori dal collo. “Riprendi me!” urla Giordano alla regia, “riprende me! Non i rifiuti”. I “rifiuti” sono la scenografia messa su per l’occasione: sacchi della spazzatura, materassi, vecchi televisori, tazze del cesso, un solitario bidet. In questo piccolo teatrino della mondezza, Mario Giordano si aggira stizzito, poi si volta e se ne va gettando all’aria un bustone della spazzatura. Il pubblico è in estasi. Applausi. In una puntata ormai celeberrima sulla difesa del cibo italiano, “Cous Cous Klan”, Mario Giordano trasforma “Fuori dal coro” nella versione sovranista de “La prova del cuoco” e mette in scena il funerale del pomodoro pachino. “Stiamo perdendo le nostre ricette, stiamo perdendo la nostra pasta italiana, il nostro sugo bello denso” (Giordano mima il ribollire della salsa). In collegamento c’è una signora che fa i cappelletti in casa, “come si facevano una volta”. Tutto un mondo destinato a scomparire per colpa dei “programmi chimici delle multinazionali”, e tra qualche anno, spiega Giordano, le nostre tavole saranno ricolme di “cavallette, insetti, grilli al curry e locuste al vapore”, emblema del “cibo etnico”, e tanti altri “piatti riproducibili in vitro” (alla fine non è chiaro il ruolo del cous cous, se non per il pregiato gioco di parole con “klan”). Quello alimentare è comunque un filone promettente, già cavalcato all’epoca delle quote latte e della difesa del pecorino sardo da Massimo Giletti. Ora si porta molto “vitalizi e pomodori”. Nel finale della puntata, Mario Giordano insegue il cesto di pachino che l’addetto alla regia porta via dallo studio urlando “noooo, il pomodoro noooo”. Corre in modo scomposto, agita le braccia per aria, le immagini sembrano velocizzate, come nelle vecchie comiche dei film muti. Nella puntata su Bibbiano (“Ladri di bambini, l’inferno di Bibbiano”), Giordano si accascia travolto dal dolore e scoppia quasi in lacrime dopo averci mostrato le foto dei regali dei bimbi comperati dai loro genitori biologici (“diranno che ho esagerato, ma quando toccano la famiglia mi vengono i brividi”), il pubblico si alza in piedi per una standing ovation. C’è sincera commozione.
Icona “transgender”, è anche un autore Mondadori dalla vertiginosa produzione saggistica. Una media di un volume all’anno o quasi
Renato Franco sul Corriere della Sera ha definito Mario Giordano, “l’unico vero stand-up comedian” della tv italiana, ma viene in mente anche Jim Carey in “The Mask”, flessibile, plastico, un’identica parata di smorfie, ghigni, lazzi che a Giordano serve per trasformare i principali avvenimenti della politica e dell’attualità in uno spettacolo da mimi acrobatici. Aveva ragione Cocteau: “Tutti gli italiani sono grandi attori, tranne quelli che recitano a teatro”. Le performance di Mario Giordano alimentano, specie quando è ospite di altre trasmissioni, tutto un circuito di “video incredibili” messi in rete dai giornali (soprattutto Libero) che lo immortalano in risse epocali, con Cacciari, Sgarbi, Gino Strada, Laura Boldrini. Tutte le risse televisive si assomigliano, ma quelle con Mario Giordano hanno sempre qualcosa in più, anche perché non di rado i suoi avversari finiscono col mettersi a imitare la sua celeberrima laringe da bambino (come Gino Strada, come Sgarbi nell’incontenibile “fuori onda” di “Quarta Repubblica”: “Domani telefono a Berlusconi, non se ne può più di questo qui”). Suo malgrado, cioè nonostante sia uno strenuo difensore della famiglia tradizionale, Mario Giordano è celebrato come icona “transgender” in vari forum femminili su Internet, sin dai tempi della prima direzione di Studio Aperto, nel 2000. E’ sopravvissuto alle tante rivoluzioni editoriali di Rete 4, prima volano e carburante del governo gialloverde, poi argine improvviso alla deriva populista, poi, con la repentina uscita di scena di Gerardo Greco e il ritorno di Paolo Del Debbio, non si capisce più bene. La conferma e il rilancio di “Fuori dal coro”, nato un po’ per caso come esperimento tappa buchi del palinsesto, diventa intanto una sonora rivincita di Giordano e della tv populista, poi chissà, vedremo al termine della crisi. Ciò che permette a Mario Giordano di attraversare indenne il mare in tempesta di Mediaset e di vent’anni di politica italiana è la sua peculiare struttura nata dalla fusione di Gad Lerner (che lo ha introdotto nella tv) e Marco Travaglio (che lo ha introdotto nei “giornaloni”, direbbe Giordano), che ne fanno una specie di Ogm dell’informazione. Mario Giordano divenne celebre come “grillo parlante” nella trasmissione “Pinocchio” di Lerner, andata in onda sulla Rai dal ‘97 al 2000, poi da direttore di Studio Aperto varò la rubrica “Lucignolo”, poi il programma “L’alieno”, per un definitivo distacco dal mondo di Collodi. Potrebbe essere un’idea trovargli una parte nell’imminente “Pinocchio” di Matteo Garrone, magari come “grillo parlante”, al posto di Davide Marotta (meglio noto come “Ciribiribì, Kodak”).
Trasforma “Fuori dal coro” nella versione sovranista de “La prova del cuoco” e mette in scena il funerale del pomodoro pachino
Ma il personaggio Mario Giordano non si comprende solo attraverso la televisione. Com’è noto, Giordano è anche un pregiato autore Mondadori dalla vertiginosa produzione saggistica. Una media di un volume all’anno o quasi. Tutti “libri di inchiesta”, naturalmente, come recitano le quarte di copertina. Sono libri che Mario Giordano porta su e giù per l’Italia, specie d’estate, quando va in giro a presentarli, “fin nei più piccoli centri, da Frascaro a Favignana, da Courmayeur a Fano” e sempre rimane colpito “dalla bellezza incantevole di ogni nostra contrada”. Il suo ultimo libro lo ha presentato qualche settimana fa ad Alessandria, la sua città natale (Mario Giordano ha studiato al liceo Plana, lo stesso di Umberto Eco e Benedetta Parodi). E’ stata una gran rentrée, celebrata in occasione della “Notte Bianca in Corso Acqui”, con le canzoni di Lady Oscar e L’uomo Tigre, il calcio balilla umano, Marzo Setzu di “Striscia la Notizia”, l’apericena in compagnia della Grande Orchestra di Monica Riboli, una mongolfiera ancorata in piazza Cernaia, “con volo vincolato gratuito” per ammirare “Alessandria dall’alto e farsi un selfie”. Mario Giordano ha tagliato il nastro con una madrina d’eccezione, Anna Falchi, e dopo la presentazione è rimasto per autografare le copie ai lettori e farsi qualche selfie, chissà magari anche in mongolfiera. A colpire dei libri di Mario Giordano sono soprattutto i titoli “a effetto”. Grande amante dello zoomorfismo, Mario Giordano illustra la politica, la società e le magagne italiane sulla scia delle grandi tassonomie di Linneo o degli antichi bestiari medievali, come una sconfinata saga del mondo animale: “Sanguisughe” (sulle “pensioni d’oro”); “Pescecani” (sulle speculazioni economiche in genere); “Vampiri” (di nuovo sulle pensioni); “Avvoltoi” (sulle speculazioni di acqua, rifiuti, trasporti). Titoli terribili, apocalittici, minacciosi. Però sempre accompagnati dall’immagine rassicurante di Giordano e stampati in un font talmente grande e colorato (giallo, fucsia, arancione) da farli sembrare libri per bambini, tipo “Il mondo segreto degli insetti”. Capitoli e paragrafi fanno il verso agli “strilli” di “Cronaca vera”, versione indignata: “Il Nababbo di Treviso che aveva in garage 493 auto e 70 yacht”; “Il Buffalo Bill che si è comprato due ranch con i soldi dei comuni”; “L’accoglienza? La fa l’ex installatore di impianti idraulici (insieme con Miss Paesi Vesuviani)”.
Una parata di smorfie, ghigni, lazzi. Un circuito di “video incredibili”: risse epocali con Cacciari, Sgarbi, Strada, Boldrini
L’ultimo libro si intitola, “L’Italia non è più italiana”. Si apre con una lunga elegia patriottica dedicata alla figlia Alice e ispirata dalla visione di una vecchia cascina piemontese, un rudere di Ca’ di Fra’, presso Casalborgone, un tempo appartenuto alla sua famiglia. Qui Giordano fa ritorno “in un giorno di metà novembre, con una pioggia che sembra pianto” e subito Ca’ di Fra’ diventa l’Italia tutta intera, “così come l’ho trovata negli ultimi mesi, girando mille contrade”. Un “paese svenduto agli stranieri”. Lì nelle colline dietro Ca’ di Fra’ oggi ci sono “gli svizzeri, gli olandesi, gli inglesi, le hanno sistemate, le curano per poterle vendere in qualsiasi momento, ma loro non si vedono”, allegoria implacabile del capitale cosmopolita, sradicato, ovunque e in nessun luogo. Come un padre della letteratura risorgimentale, Giordano si abbandona a un fluire di ricordi e speranze tradite da vitalizi, pensioni d’oro, speculatori internazionali, “ahi dal dolor comincia e nasce l’italo canto”. Come Leopardi nel suo dialogo immaginario con l’Alfieri, immobile di fronte alle rovine di Ca’ di Fra’, Giordano si rivolge quindi alla figlia Alice che è a Tolosa, “per un dottorato di ricerca in filosofia, dopo un anno passato in Kentucky e sei mesi alla Sorbona e soggiorni a Heidelberg, Berlino, Amburgo”, ma che alla fine, dopo tanto girovagare, mai cederà alle lusinghe pertinaci delle élite globali, del ketchup e del kebab, e un giorno tornerà per sempre a vivere qui, nei tuoi confini, o Italia, che son questi.
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