Gialli, racconti intimisti e saggi. Lì dove prima era tutto Vespa ora c’è un mercato assai affollato. Da Gramellini a Gruber, da Floris a Bonolis. Viaggio contromano nella battaglia tra conduttori
"E’ un giallo ambientato a Roma”, dice Floris ospite da Giletti che lo introduce non già come collega o giornalista ma “scrittore, saggista, romanziere”. Sprofondato nell’abnorme poltrona “Chesterfield” di pelle marrone, tra le scenografie di “Non è l’Arena”, Floris spiega il senso del suo ultimo romanzo, un “thriller serratissimo” che racconta una “vicenda che è lo specchio dei nostri tempi”, come dice Giletti, quindi “romanzo d’invenzione” ma “estremamente probabile”, scritto d’estate, nella sua villa in Sardegna, quando Floris trova finalmente il tempo di dedicarsi alla saggistica e alla narrativa. E’ libro che mette in fila “leoni da tastiera” e “lati oscuri del web” e macchine del fango, fake news, “identità violate”, gogne social e personaggi che si chiamano Fausto Maria Borghese, abitano ai Parioli, sono “vicini di casa di Samantha de Grenet” e vogliono candidarsi a sindaco di Roma dopo la Raggi; oppure si chiamano Antonio, sono tifosi della Roma, antirazzisti, antifascisti, amano il rock ma fino ai Nirvana, fanno i giornalisti freelance e scrivono tesi di laurea per quelli di CasaPound, anche se il contrario sarebbe stato più avvincente. C’è un incipit molto noir, concitato, à la Ellroy: “Buio fitto, odore di polvere e di chiuso. Chissà se quello mi ha registrato, o se ha fatto un video, mentre parlavamo”. Poi un super-flashback che ci scaraventa tra attici all’Aventino, barbieri della Nomentana e “navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di piazza Bologna”, come in un allucinato “Blade Runner” della Tangenziale est. C’è l’eterna figura sociale del più “importante imprenditore italiano degli ultimi venti anni”, segno inequivocabile che il Grande Romanzo Italiano si fa e si farà ancora solo e soltanto col fantasma del Cav. Ci sono, infine, frequenti riferimenti ironici, meta-riflessivi, forse autocritici all’universo espanso dei talk-show (“Antonio pensò si trattasse di una rockstar, o almeno di uno di quegli psicologi ospiti fissi nei talk-show politici, di cui lei si beveva i discorsi tacitandolo a cuscinate quando lui provava a fare dell’ironia”). Tacitando del resto per non spoilerare, “L’invisibile” di Floris mette insieme tanto cinema, serie tv americane, saggi apocalittici su internet, troll russi, hacker, talk-show, un po’ di gravame civile col bimbo abbandonato senza cittadinanza in quota “apolide originario”, incorniciando il tutto in un doppio esergo di Robert Musil e Floris padre che esorcizzano a modo loro la scomparsa dei fatti e del reale.
Se è vero che “leggersi un buon libro” è meglio che guardare la tv, non è chiaro come regolarsi con i romanzi scritti dai conduttori
Se è vero che “leggersi un buon libro” è meglio che guardare la tv, non è chiaro come regolarsi con romanzi gialli, neri, rosa, thriller psicologici, saggi intimisti, memoir, trattati, confessioni e instant-book, scritti dai conduttori televisivi. Una produzione fluviale, inesauribile, interminabile, seconda solo a quella di youtuber e magistrati, con la differenza che i primi vendono e i secondi diventano non di rado film, docufilm, fiction d’antimafia e impegno civile, mentre nel pianeta talk-show si registra solo il Gramellini portato al cinema da Bellocchio. Se prima si scrivevano libri sperando di riuscire a promuoverli in tv, ora si scrivono soprattutto perché si fa la tv, saltando quindi un passaggio inutile e dando vita a un valido esempio di economia circolare. Questo avvicendamento dal tele-giornalismo alla letteratura non è certo una novità, ma lì dove prima era tutto Bruno Vespa c’è ora un mercato assai affollato. Il Premio Strega si può affidare direttamente a Cairo Editore. Scomparsi gli intellettuali, travolte le élite, ridotti a due o tre i protagonisti della scena politica, c’è insomma ampio spazio per i dibattiti intorno alla letteratura trasversale e laterale dei telegiornalisti. Il libro arriva in genere verso la fine dell’anno, con l’approssimarsi delle feste e la segreta speranza di rosicchiare qualche lettore a Bruno Vespa, venerato maestro della letteratura catodica, incontrastato Signore delle strenne natalizie a forma di libro, anzi di “libroide” (copyright Gian Arturo Ferrari, vicepresidente Mondadori Libri, che definisce così i libri interamente costruiti sulla fama del loro autore ma in ambiti diversi da quello letterario). Quest’anno però sono usciti tanti libroidi, e un po’ tutti insieme.
Il libro arriva in genere verso la fine dell’anno, con l’approssimarsi delle feste e la segreta speranza di rosicchiare qualche lettore a Vespa
Col romanzo o il saggio in promozione, i conduttori hanno convenuto fosse più facile invitarsi direttamente tra di loro. Facendo zapping tra un talk e l’altro si aveva l’impressione, vagamente post-apocalittica, che di colpo fossero terminati politici, ospiti, opinionisti, evidentemente anche loro a rischio esaurimento come le risorse del pianeta. Dopo Floris, a “Non è l’Arena” Giletti intervistava anche Bonolis; a “L’assedio” andava in onda un tête-à-tête tra Bignardi e Berlinguer, mentre Fazio ospitava Lilli Gruber e Lilli Gruber ospitava Gramellini. Sembrava il festival del giornalismo, una convention aziendale, un lungo talk-show a reti unificate. Era invece il potere catartico della letteratura. Tra i più prolifici, ambiziosi e con una già definita fisionomia di “autori” ci sono senz’altro Floris e Gruber. Se il primo ha tratto ispirazione da un barbiere sulla Nomentana, a Lilli Gruber è bastata la ribalta di Matteo Salvini: “Dopo tutto quel testosterone ho deciso di scrivere questo libro, mi ha ispirato lui”. Ben detto. Eccola quindi da Fazio per presentare “Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone”, un pamphlet ricco di fatti, numeri, nomi, scritto per “scuotere l’opinione pubblica”, con copertina rossa e grafica shock, come i migliori libri di Mario Giordano. “C’è stato un attacco concentrico della stampa di destra a questo libro”, dice Gruber, ma “i maschi al potere stanno lasciando un mondo a pezzi” e “gli uomini vanno rieducati”. Il ragionamento, si capisce, è ampiamente condivisibile, ma dopo aver lamentato che “il populismo misogino e maschilista” è una risposta semplice a problemi complessi, Gruber si lancia in un elenco di problemi complessi causati unicamente dal testosterone: “debito pubblico, tasse, disoccupazione, fuga dei talenti, mancanza di servizi, disuguaglianze, il territorio che si disgrega, scuole e ponti che crollano”. Se così fosse, ci si permetta di far notare a Gruber che basterebbe spargere un po’ di bromuro nell’aria e nell’acqua, come nell’utopia di Timothy Leary, messia della controcultura hippie che voleva rovesciare acido lisergico nelle condutture delle metropoli per sovvertire l’ordine mondiale. Se l’aggressività maschile rovina il pianeta, pare infatti che a sua volta proprio l’inquinamento atmosferico sia causa di impotenza, infertilità, abbassamento del testosterone, insomma non se ne esce tanto facilmente.
Nel frattempo, si può senz’altro assecondare l’esortazione a “diventare più femminili”, anche se sessant’anni dopo la “femminilizzazione della civiltà e della cultura di massa” di Edgar Morin, perché, si sa, si può sempre migliorare. Vedi Massimo Gramellini che presenta in questi giorni il diario della sua paternità, “Prima che tu venga al mondo”, ovvero “un padre, un figlio, l’attesa”, paure, ansie e riflessioni a braccio sul senso del diventare padre, sciolte in nove capitoli, uno per ogni mese di gravidanza, dove tra l’altro scopriamo che Gramellini appena nato pesava tre chili e duecentoquaranta grammi. Il Corriere lo presenta con le grandi paginate che si riservano ai classici, avvolgendolo nell’aura poetica e nella nostalgia crepuscolare d’un Gozzano, d’un Pascoli, o appunto d’un Gramellini, con “l’antica materna scheggia che l’autore ha piantata nel suo cuore” e un “umorismo con coloriture poetiche” (esempio: “tu e tua madre siete una pancia bellissima, sdraiata sul letto come una balenottera spiaggiata”). C’è la nascita della coscienza ecologica che si forma su una “filastrocca verde” (“Fratellino caro / se il tuo sedere perde / corri subito in bagno / a far la cacca verde”), ma c’è anche un “umorismo con intermittenza, come le luci dell’albero di Natale che aprono e chiudono gli occhi continuamente e quando tocca al buio, le ombre del passato ne approfittano per affacciarsi”, perché i fantasmi del buio, del passato e soprattutto del libro di Natale son sempre dietro l’angolo.
Emersa dalle ceneri della “Lettera al figlio mai nato” di Fallaci, la letteratura sulla paternità è oggi indubbiamente di gran voga
Emersa dalle ceneri della “Lettera al figlio mai nato” di Fallaci, eretta sui pilastri teorici della psicanalisi recalcatica, la letteratura sulla paternità è oggi indubbiamente di gran voga e non si fa mancare nulla, dall’aumento di peso del papà durante la gravidanza al “baby blues” che colpisce il maschio subito dopo il parto. Esempio supremo e affettuoso di “mansplaining”, come direbbero qui le femministe, ma appunto in salsa fragile, intimista, proustiana, la letteratura sulla paternità rivendica il diritto maschile alla gestazione pensosa di quei nove mesi troppo sbrigativamente affidati solo alla donna. Mancano copertine di Vanity Fair col padre a torso nudo e in sovrappeso nel bel mezzo della gravidanza, come fu con l’iconico pancione di Demi Moore fotografato nel 1991, eventualmente ora impugnabile anche come alternativa politica ai Putin e ai Salvini smutandati in Siberia o in riviera. Se gli universi editoriali “Augias” e “Vespa” andranno analizzati a parte – come il prolungamento libroide della televisione culturale e dei format di Piero e Alberto Angela uno, e come vera e propria “factory” del libro natalizio, l’altro – ecco che nuovi autori si affacciano nel frattempo all’orizzonte del romanzo d’invenzione e del saggio a tema libero e delle loro interminabili sovrapposizioni.
Tutti i libri dei conduttori corrono sul doppio binario della presentazione televisiva e dell’evento mondano
C’è Bianca Berlinguer che pubblica con La Nave di Teseo la storia della sua amicizia col trans Marcella Di Folco, una storia che inizia nella Roma occupata del ’43 e prosegue via “Piper”, via Veneto, Cinecittà, Dolce vita e “Satyricon” di Fellini, fino al fatidico taglio di Casablanca nel 1980, e conseguente minaccia di diventare un film di Ozpetek e un “grande affresco” dell’Italia di quegli anni prodotto da Rai Cinema. C’è infine, “Perché parlavo da solo”, il memoir, metà autobiografico, metà riflessivo, di Paolo Bonolis, che però mette subito le mani avanti e avvisa di non essere “un intellettuale, tanto meno un letterato, ma solo un vivente riconosciuto da alcuni per il mestiere che fa”. Poi spiega di prediligere “la saggistica sociale, Stephen King, Paolo Zardi, Dan Brown, Baricco, Stand By Me, Apocalypse Now, i documentari di Jacques Cousteau”, di essersi ispirato per la sua conduzione di “Domenica In” a un libro dei Wu Ming (di cui però non ricorda il titolo), nonché di assomigliare al “fanciullo nietzschiano che danza sull’abisso”. Ma la lettura è invero assai piacevole, perché tra un lungo bilancio esistenziale e uno “sguardo a volo d’uccello” sulla vita e i problemi del nostro tempo e riflessioni su internet, la privacy, l’Inter, i media, la critica televisiva, i figli, i gatti, i funerali di Fabrizio Frizzi, “le cose che un tempo si conquistavano e oggi si comprano”, Bonolis trova anche il modo di soffermarsi su una cosa che raramente si trova nei libri dei conduttori televisivi, e cioè la televisione, la scrittura dei format, la loro ideazione e gestione. Si lancia infine in una formidabile e improbabile rilettura biopolitica e vagamente kubrickiana di “Ciao Darwin”. Dopo aver rimproverato la critica televisiva di non aver ravvisato i due binari dove “corre il giocoso trenino dello spettacolo”, spiega al lettore che le due “masse” che si sfidano rappresentano “la volontà antinomica del potere”, l’acqua che sale nel cilindrone simboleggia invece “il liquido amniotico dell’utero materno”, la prova “a spasso nel tempo”, il cronosisma e il “collasso temporale” delle civiltà, mentre il culo di “Madre Natura” è proprio un culo. Come capita spesso di dire uscendo dal cinema, è meglio il libro che la trasmissione.
Tutti i libri dei conduttori corrono sul doppio binario della presentazione televisiva e dell’evento mondano e glamour con parata di vip e mogli e mariti e politici al seguito. Una presentazione pubblica modellata sulla madre di tutte le presentazioni, vale a dire la presentazione del libro di Vespa. Perché il libro di Vespa resta il modello originale e inarrivabile, praticamente un format che si autogenera sempre più a ridosso delle repentine trasformazioni della politica e della cronaca, con la stessa rapidità di un tweet di Renzi o Salvini ma a forma di libro di trecentosessanta pagine. Perché non importa che tu abbia scritto un thriller, un’autobiografia, una vibrante denuncia sociale, un grande affresco storico del paese, una graffiante satira del costume o un saggio sul nostro tempo. La verità è che tutti quanti vogliono essere un libro di Bruno Vespa a Natale.