Il grande romanzo della tv
La “Storia critica” di Aldo Grasso: comunque la si prenda, una meravigliosa macchina delle meraviglie
Una madeleine. Due madeleine. Tre madeleine. Un vassoio intero di madeleine. E un altro vassoio ancora, il cofanetto ne contiene tre, stracolmi (non come certe scatole di cioccolatini con uno strato goloso e il secondo di carta velina). Non fatevi sviare dal titolo, “Storia critica della televisione italiana”. Certo che lo è, una storia critica della tv nazionale: gli studenti – regolari o uditori, siamo tanti – del professor Aldo Grasso ne faranno tesoro. Ma è anche una meravigliosa macchina delle meraviglie (se non dovessero piacere i dolcetti). L’indice delle trasmissioni – nelle ultime pagine dei tre volumi appena pubblicati dal Saggiatore (bello il cofanetto, con lo schermo stondato dei primi apparecchi televisivi) – merita di essere letto come l’orario dei treni nella “Recherche” di Marcel Proust. Citiamo: “Swann sprofondava nel più inebriante dei romanzi d’amore, l’orario ferroviario”.
D’amore per la televisione ne serve parecchio – unito a decenni di lavoro certosino – per mettere insieme un numero di pagine su cui sorvoliamo per non spaventare il lettore. All’università ormai le pagine sono contingentate, lo studente non va affaticato (c’è pure il caso che si ingobbisca, come dicevano le mamme quando la lettura era un piacere proibito). I dilettanti però possono concedersi il binge-reading. Non siamo così sprovveduti da non sapere che le “Storie critiche” – di ogni cosa, non solo della televisione – solitamente si consultano, con un certo distacco. Ma esiste anche il piacere – perverso eppur sublime – di leggere le enciclopedie, i repertori, i cataloghi.
Tre corposi volumi che si possono smontare e rimontare, usando come guida gli indici o la semplice apertura di pagina
Libri come la “Storia critica della televisione italiana” si possono smontare e rimontare, a proprio insindacabile gusto, usando come guida gli indici. O la semplice apertura di pagina, come faceva il maggiordomo Gabriel Betteredge con “Robinson Crusoe” (nel giallo “La pietra di Luna” di Wilkie Collins). Apriva il romanzo a caso, trovandoci ogni volta svago, insegnamento, consolazione. Per esempio, solo sfogliando l’indice, registriamo che sei trasmissioni hanno un titolo che inizia con i puntini di sospensione: “… E la vita continua”, “… E compagnia bella”, “… E l’Italia racconta”, “… E noi qui”. (Sarebbe partita volentieri la caccia ad altri tic linguistici, se qualcuno non ci avesse ricordato la data di consegna dell’articolo).
Possiamo veleggiare tra le trasmissioni pionieristiche e recenti. Quelle che ricordiamo, quelle che piluccando mettono curiosità, quelle che non abbiamo mai sentito nominare. Si parte dal 1954 di “Attenti al fiasco”, un programma di quiz che dopo la fase sperimentale visse una sola puntata. Si arriva al 2018 di “Baby”, scritta dal collettivo Grams e in streaming su Netflix. Possiamo ricostruire tutto il trash e le bizzarrie degli ultimi decenni, impossibili da ricordare senza un aiutino. Dimentichiamo sempre qualcosa, altre non si credono finché non si rivedono. Alzi la mano chi ricorda “Ars Amanda”, talk-show erotico condotto da Amanda Lear, anno 1989. Seconda serata, ovvio, su Rai Tre di Angelo Guglielmi. Tra gli ospiti (a letto, niente divano) c’era Aldo Busi: lo ricordiamo irrompere danzando in altra trasmissione – dedicata ai libri, altra roba da letto – ricordando al pacato conduttore che “la letteratura è ritmo”.
I concorrenti di “Lascia o raddoppia?” visti da Carlo Levi come nuovi Edipi. “Costruire è facile” condotto da Bruno Munari
Possiamo tentare una storia delle trasmissioni culturali, croce e delizia del servizio pubblico. Nel 1954 i lettori che per avventura fossero riusciti a comprare un televisore (abbienti, per forza di cose, ma anche i libri erano un consumo di nicchia e non di massa) potevano contare su Franco Antonicelli, “Il commesso di libreria” che “non vende una merce come un’altra, ma qualcosa di particolare qualità, da averci mani delicate, mente svelta, buona memoria”. Quel “mani delicate” da solo incanta, come se sul bancone di vendita fossero sciorinati sete e broccati. Era l’epoca in cui dentro i volumi si trovavano cartoncini che invitavano il Cortese Lettore a non prestare la propria copia ad amici e conoscenti. Motivo: “Se il libro non Le è piaciuto, farebbe un cattivo servizio all’Amico. Se il libro Le è piaciuto farebbe un cattivo servizio all’Editore”.
Poi verrà “L’approdo”, nel 1966, singolare caso di (serissima e pensosa) collaborazione tra programma televisivo (notturno e sul secondo canale), rubrica radiofonica, rivista pubblicata dalla Eri - Edizioni Rai. Lì fu trasmessa l’intervista a Carlo Emilio Gadda – più una tortura, in verità – che si trova su internet. Manca però l’esilarante contorno raccontato da Giulio Cattaneo (nella sezione “A video spento”, dopo un’intervista di Umberto Eco al professor Adorno, tornato dagli Stati Uniti carico di disprezzo per la tv commerciale). Culmina con lo sventurato Carlo Emilio Gadda che, sorpreso su una poltrona d’albergo in abbiocco postprandiale, “riuscì a ricacciare nella strozza un irresistibile ‘Puttana il diavolo!’”. Era in albergo per sfuggire al suo editore (il resto, fino alle parrucche della presentatrice, leggetelo da voi: il saccheggio, pur fatto a fin di bene e con le migliori intenzioni, sempre saccheggio resta).
Possiamo ricostruire tutto il trash e le bizzarrie degli ultimi decenni. Alzi la mano chi ricorda il talk-show erotico “Ars Amanda”
Possiamo ritrovare nella “Storia” le trasmissioni prima esecrate e poi celebrate: per esempio, certi spettacoli del sabato sera, quando gli autori facevano gli autori, mentre i cantanti e gli attori “stavano sui segni tracciati per terra e dicevano le loro battute”. Altro non serve, suggerisce la regola numero uno dello spettacolo americano, fatto da professionisti e non da artisti (con una frecciatina ai fuoriusciti dall’Actors Studio). Venivano fuori capolavori pop come “La biblioteca di Studio Uno”: otto romanzi – dal “Conte di Montecristo” a “Dr Jekyll & Mr Hyde”, pure l’“Odissea” per non fermarsi davanti a nulla – tradotti in musica leggera, ovvero canzonette, con 160 attori e cantanti e 400 brani cantati e recitati dal Quartetto Cetra. Parodie spudorate e geniali, a rifarle c’è riuscito solo Fiorello, quando – ancora con i capelli raccolti in una lunga coda – canta “San Martino” di Giosuè Carducci: “La nebbia agli irti colli…” e via con l’elettronica.
Non è la nostalgia a far belle le cose. Funziona al contrario: le cose belle durano e non invecchiano, anche se il contesto cambia. Resta lo stupore per i molti contemporanei che non si erano accorti di nulla. Neppure della forte vocazione pedagogica coltivata dalla televisione italiana degli inizi. Quando, fa notare Aldo Grasso, era più avanti dei suoi spettatori: Mario Soldati faceva il suo “Viaggio nella valle del Po alla ricerca di cibi genuini”. Ma per gran parte degli italiani la genuinità non esisteva; era esistita la fame, ed esisteva la miseria. Per lo scrittore-conduttore-viaggiatore anche uno spiacevole incidente, perfidamente registrato da Achille Campanile critico televisivo: un pollo guasto mangiato in treno (ci possiamo fidare di uno che non riconosce un pollo guasto? era la domanda retorica). Lasciando il pollo e parlando di critica, la cosa più difficile al mondo è riconoscere il nuovo e meritevole quando appare (grazie al film “Ratatouille” di Brad Bird per averlo spiegato bene, tutto vorremmo essere tranne gente incattivita che vive in una casa a forma di bara).
Il “Cartellone” illustra le trasmissioni, lo “Scenario” illustra l’anno a grandi linee (con dettagli tecnologici all’inizio, poi nel disegno entra prepotente la politica). La sezione “A video spento” riporta critiche e giudizi. Spesso d’autore, e con una certa frequenza di cantonate: il contesto non era per nulla favorevole al nuovo mezzo. Perfino Beniamino Placido – bravissimo critico televisivo su Repubblica, fin dal primo numero, con la rubrica “A parer mio” – farà autocritica. Parole sue, riportate da Aldo Grasso nel capitolo “Cose mai viste”: “Non volevo avere la televisione in casa, come tutti gli altri intellettuali (si fa per dire) colpiti dal morbo”. Una malattia che si chiama misoneismo, primo sintomo l’orrore per il nuovo – e di converso, una passione esagerata per “le cose che c’erano già quando sono venuto al mondo”.
Un’idea su “Lascia o raddoppia?” – il programma “che ha unificato l’Italia”, scrive Aldo Grasso – più o meno l’abbiamo (altro che Garibaldi, Mike Bongiorno va paragonato a Pellegrino Artusi, che in “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” mette il pomodoro sugli spaghetti: prima a Napoli si mangiavano in bianco, conditi con il formaggio). Un’idea sul programma in onda dal 1955 – prima al sabato sera, e poi al giovedì per non svuotare cinema e teatri – l’abbiamo perché il signor Mike ha avuto la sua “Fenomenologia” firmata Umberto Eco. E perché il programma si incunea nella trama di “C’eravamo tanto amati”, diretto da Ettore Scola (con bisticci sulla risposta giusta, la materia era “neorealismo italiano”, il film “Ladri di biciclette”). Certo non sapevamo (noi, magari voi sì, chi può dirlo? “mai scommettere la testa con il diavolo” suggeriva Edgar Allan Poe) che Carlo Levi – lo scrittore di “Cristo si è fermato a Eboli”, romanzi più lontani dalla tv è difficile trovarne – vedeva i concorrenti come “Mille e mille nuovi Edipi che affrontano la Sfinge” e “Si sentono testimoni del valore assoluto del sapere. Nessun’altra esperienza potrebbe essere più viva, più trionfale”.
Sempre nel 1955 furono trasmesse in televisione le nozze di Ranieri di Monaco e Grace Kelly, primi in una lista di matrimoni principeschi che si interrompe a Noto, con le nozze Chiara Ferragni-Fedez: “Il primo grande evento mediatico celebrato senza la tv generalista, eppure visto da una platea mondiale: tre milioni di persone in diretta su Instagram”. Tornando all’epoca che conosceva un solo canale in bianco e nero, e che per molte ore al giorno trasmetteva soltanto il monoscopio (risparmiamo i merletti e i centrini, la Torre di Pisa, la gondola veneziana, la foto del figliolo in servizio militare: racconta tutto magnificamente Aurelio Picca in “Tuttestelle”) andava in onda un programma per ragazzi intitolato “Costruire è facile”, condotto da Bruno Munari (lui, proprio lui). Fabbricava modellini di gomma, cartoncino, plastica, metallo, e intanto spiegava un po’ di fisica e di chimica. L’anno prima, per spettatori adulti, c’era “Finanziateli senza paura”: lasciati da parte per un po’ i santi, i navigatori, i poeti, il programma era rivolto agli inventori. di gomme che non si bucano e ombrelli che non gocciolano, problemi che ancora tormentano il genere umano.
Nell’introduzione, una citazione da Robert Walser subito azzoppa gli apocalittici e i contrari, e tutti quelli che ancora si vantano di “non guardare la televisione”. Come se fosse una patente di superiorità intellettuale, e come se fossero ancora gli anni in cui la televisione si guardava solo sullo schermo dell’apparecchio apposito, tutti insieme appassionatamente. Scrive Robert Walser: “Bisogna imparare a dire cose belle sull’oggetto più infimo, ciò sarebbe meglio che esprimersi liberamente su un ricco pretesto”. Tutti sistemati, chi teme l’elettrodomestico e chi in nome e per conto della cultura – per essere precisi: usando la Cultura come scudo – pronuncia banalità e sciocchezze. (La lezione non vale soltanto per la televisione.)
Aldo Grasso ricorda le pionieristiche scatole da scarpe, divise per anni, con le schedine tratte dal Radiocorriere e da qualsiasi testo si riuscisse a scovare. Meritava la televisione una storia, come quella del teatro e della letteratura? Come la si sarebbe potuta scrivere, visto che i programmi andavano in diretta, e quando arrivò la possibilità tecnica di registrare le trasmissioni andate in onda nessuno pensava che fossero meritevoli di conservazione?
Nessuno immaginava che in un futuro neppure tanto lontano – oggi – avremmo avuto a disposizione le Teche, i player per vedere i programmi quando vogliamo, un’immensa quantità di materiale disponibile a distanza di click. Nessuno immaginava le televisioni private, con la loro rivoluzione pubblicitaria e politica. Nessuno immaginava i canali tematici, e i palinsesti dove – per dirne una – le serie venivano prese sul serio, non usate come riempitivo da spostarsi a piacere. Le piattaforme streaming, cominciando con Netflix ma ora anche Disney e Apple hanno la loro – sono state le ultime a cambiare il panorama, mentre la tv generalista ha esaurito il suo compito
Il sabato sera venivano fuori capolavori pop come “La biblioteca di Studio Uno”: otto romanzi tradotti in musica leggera
Rivoluzioni tecnologiche. E rivoluzioni culturali. Abbiamo visto “Il Grande Fratello”, i reality, le isole della tentazione, i collegi per tornare indietro nel tempo, la proliferazione dei talk-show – sembra di stare nelle famiglie numerose di una volta, riunite per la festa: in un angolo c’era sempre qualcuno che litigava con qualcun altro. Abbiamo usato la televisione come radio, con Mtv (oppure come acquario, azzerando l’audio e dando ogni tanto un’occhiata). Memorie e prodotti dell’industria culturale – oltre agli spettacoli, ci sono i telegiornali, e le grandi tragedie – che Aldo Grasso cataloga, contestualizza, commenta.
Noi ci siamo divertiti a saltellare, un grado di separazione dopo l’altro, tra i primi anni della televisione (quella che allora fu sdegnata, e ora viene rimpianta con la venerazione che Harold Bloom portava al suo Canone occidentale). Il lettore potrà fare lo stesso per tutti gli anni a venire, in un labirinto – o un caleidoscopio – che varia a seconda dei gusti personali. In apertura – esposte con la lucidità di chi la televisione la guarda, prima di studiarla – le coordinate che servono per orientarsi. La paleo-tv e la neo-tv. L’età della scarsità, l’età della disponibilità, l’età dell’abbondanza. La preistoria. Una storia istituzionale tracciata con ironia: “L’età dei padri”, “I corsari bianchi”. “L’opus Bernabei”. “L’impero di sua Emittenza”. E come nei migliori romanzi popolari, “continua alla prossima puntata”.
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