Grazie Mancuso delle magnifiche serie
Me le ha spiegate per anni, mi sono convertito e ora sono un divoratore di tv
Ora non spiegherò le serie a Mariarosa (Mancuso), perché nel cambiare opinione, nel convertirmi, ho maturato nel tempo una certa tecnica. E spiegare quel che si è capito a chi te lo ha spiegato è grottesco. Convertirsi d’altra parte non è solo un mesto cambiar d’animo, una metanoia, una rigenerazione, e nemmeno necessariamente un gesto di volgare opportunismo, dipende dal senso della cosa, dal suo significato implicito e esplicito, e dalle forme, dai tempi; infine non dipende solo dai modi, e i miei sono coriacei, a volte, ma in fondo sempre gentili: importa l’obiettivo, e l’obiettivo perseguito è sempre l’ecce homo, come si diventa ciò che si è.
Insomma avete capito: con modestia, senso del tirocinio, e un pizzico di volontà di potenza, mi sono iscritto a Netflix, ho approfittato dell’Amazon Prime di mia moglie Selma, e sono diventato un divoratore seriale e appassionato di serie. Per merito, ovviamente, di Mariarosa, che per anni qui me le ha paragonate al meglio della letteratura classica, e ha cantato la loro capacità di rendere conto con l’immaginazione dello stato del mondo e della lingua attraverso le storie, la parola, le situazioni, una tranche di torta hitchcockiana dopo l’altra regolarmente tagliata a favore del Foglio dal migliore connaisseur possibile della materia.
Se percepisci una gioia, diceva Shakespeare nel “Sogno di una notte di mezza estate” (traggo la citazione dalla stupenda antologia di Allie Esiri pubblicata in italiano da quei geniacci di Neri Pozza), ecco che l’immaginazione “subito concepisce qualcosa che l’arreca”. Così, percepita la gioia di Mariarosa, spadaccina e crociata di Netflix et altera, ho fatto lavorare l’immaginazione in modalità conversione e prima come riassunto mi sono visto il “Guerra e pace” della Bbc, che ha fatto da ponte di passaggio come i vecchi rotocalchi drammatici della Rai di quando ero piccolo (“I Giacobini”, per esempio); poi, con l’aiuto di Riccardo Tozzi come Cicerone, sono passato su Netflix alla lunga serie documentaria sulla guerra del Vietnam di Ken Burns e Lynn Novik, giustificandomi nel caso di Tolstoj con l’amore dei classici e nel caso della guerra con l’amore retrospettivo per una parte ingente della mia vita di baby boomer, ma alla fine, e non poteva essere altrimenti, mi hanno segnalato “Il metodo Kominsky”, con Michael Douglas e Alan Arkin, e sono diventato dipendente, tanto che ho passato il Santo Natale appresso alla “Meravigliosa Mrs Maisel”, esaurita tutta in un contesto familiare e benedicente, per finire, provvisoriamente, con “Fleabag”, la genialata ipercontemporanea sulla Londra del sesso, della nevrosi, dell’occhiolino al pubblico e delle strampalerie Kensington style.
Così, in men che non si dica, si è aperta una finestra, per me, su modi di raccontare poi non molto diversi da Balzac, come dice Mariarosa, e nemmeno molto diversi da Ludovico Ariosto, se proprio vogliamo fare esercizio di trasversalismo rinascimentale e comparare certe godurie di sceneggiatura alla pazzia di Orlando e agli amori di Angelica nelle quartine d’oro. Mantenendo fermo il tempo dedicato a queste colonne, alle bassotte, all’organizzazione della casa, alla tenerezza del vivere libero da responsabilità, ma non solo per gli altri, ci mancherebbe, in tutto questo trasformismo seriale un po’ di tempo per la lettura maiuscola mi è venuto a mancare, e recupero il ritardo nella “Fiera delle vanità” (o di vanità come vuole la traduzione recente Mondadori) con passo lento. Ma tutto sommato, anzi senza tutto sommato, ne vale la pena, se ridere e piagnucolare sono parti ormai acquisite della giornata seriale in cui l’immaginazione scova nelle serie la gioia appena percepita, e l’arreca. Grazie Mancuso.
Politicamente corretto e panettone