Fatti bello per Sanremo
Dal canzoniere del Festival sono spariti i cuori infranti. Quelli che battono sono solo per se stessi
Quando Elettra Lamborghini mercoledì pomeriggio, a una manciata di ore dal suo debutto sul palco di Sanremo, ha scritto su Facebook: “Mi sto cacando sotto” (scusatela, è giovane, è Z, è ereditiera), abbiamo capito tutto. Subito abbiamo fotografato il post e l’abbiamo mandato ai nostri cari (amanti e amiche e madri, no figli: esentare la prole, grazie), per riderne, per piangerne, e distrattamente e infinitamente dibatterne, tra il molto serio e il molto faceto, come sempre facciamo per Sanremo, ché se c’è un talento di cui disponiamo in quanto italiani, italiani veri, è l’esser seri ma non seriosi sul Festival, la quale cosa ci consente di coglierlo, allargarlo, decifrarlo per decifrare il paese e magari anche il mondo che lo accerchia.
L’antifona o se preferite la linea autoriale, la summa, la sintesi, il Geist di questa settantesima edizione, così come deducibile dalle nostre e vostre conversazioni private (ce lo hanno detto gli hacker russi, non tiratevi indietro, vi abbiamo letti), è la libera e sfrenata espressione di sé, l’abbattimento d’ogni pudore, limite, filtro, condizionamento, specie se imposto da quell’inferno che sono gli altri, e tutto ciò che ne consegue, e cioè l’amore single, l’amore di sé e per sé e con sé, ma pure, in seconda istanza, il piacere della solitudine, della sconfitta che sconfitta non è, del fallimento che fallimento non è, della rinuncia, del passo indietro, dell’isolamento. E se siete contrari all’amore, chiamatelo, se volete, benessere. In sintesi, l’obiettivo ultimo di una buona psicoterapia: imparare a non preoccuparsi e venerare la bomba che ci portiamo dentro, chissenefrega se, esplodendo, lascia feriti gli altri. Siano maledetti gli altri.
La linea autoriale, la summa di questa Settantesima edizione è la libera e sfrenata espressione di sé, l’abbattimento d’ogni pudore
Vi torna come registrazione dello spirito del tempo? Luigi Manconi ha scritto su Robinson di Repubblica che da qualche anno il festival è incapace di “registrare i cambiamenti profondi che conosce la società italiana”, e che è diventato “un piccolo fenomeno di costume come tanti altri, futile e vanitoso”.
Ci permettiamo di dissentire. Lasciamo da parte il testo per un momento e badiamo soltanto al contesto, che all’Ariston sulle canzoni esercita un bizzarro potere tale per cui quelle che sottofestival detestiamo, verso maggio ci stregano irrimediabilmente, e passiamo l’estate a cantarle, e a chiederci sotto quale potente sostanza psicotropa fossimo quando, ascoltate in diretta su Raiuno, non ci erano sembrate altro che diari di adolescenti musicati. E invece il contesto quest’anno ha restituito agli italiani almeno tre delle cose che stanno diventando: patriarchi minori, ovverosia capi deleganti, di quelli che “cara adesso fai tu, così poi è colpa tua, vedi che succede a non fare un passo indietro”, di quelli che ti cedono la responsabilità ma non il posto (e non è l’epitome di Di Maio e di tutta la reazione grillina alla crisi del grillismo?); unisessuali (sul palco le femmine son state con le femmine e i maschi coi maschi, Fiorello ha giocato soltanto con Amadeus; Tiziano Ferro ha duettato con Massimo Ranieri; i contenuti impegnati se li son smazzati le signore, a eccezione del teatrino sulla malattia motivazionale, quando la Rai ha pensato di mostrare la performance musicale di un ragazzo malato di Sla: lì erano tutti maschi); giovanili (a Sanremo s’è sempre dato tutto alle vecchie glorie, ma più come garanti dell’ordine costituito che come figli di una nuova era, scopritori delle nuove possibilità che all’umano si dischiudono soltanto con il sopraggiungere della quinta età – e questo è un filone internazionale, al quale il nostro paese s’accoda da poco). Ma andiamo al testo e anzi ai testi, perché sono ciò che veramente resterà di questi anni Settanta, e non sarà male, anzi: siamo ancora un popolo di cantautori, e le belle canzoni, ma belle bellissime, stavolta, si contavano sulle dita di molte mani. Canzonette, nel senso peggiore del termine, quasi non ne sono pervenute. Rivoluzione.
Le ragazze hanno soprattutto cantato il piacere della solitudine, dell’essere imperdonabili e il rifiuto, molto netto, dei filtri
E magari è successo perché dal bel canto è sparito quasi del tutto l’amore. Non che sia un inedito, anche l’anno scorso ce n’era stato poco, e tuttavia qualche bella canzonetta d’incoraggiamento, di flirt, di cena fuori, di corna e d’illusione, c’era stata. Quest’anno niente. A meglio guardare, tuttavia, più che l’amore è scomparso l’altro: l’oggetto d’amore è stato assorbito e sostituito dal soggetto che ama. Il punto non è il loveless, ma cosa fai con quel che resta del giorno e di te quando perdi l’altro, rimani coi mostri e per venirne fuori ti viene somministrata la ricetta del “centrarti su di te”, liberarti dalle sovrastrutture, stare bene prima di tutto con la sola persona dalla quale non puoi divorziare (tu) e allora tanto vale cominciare a esercitarti nella di essa sopportazione, che poi alla fine ti disabitua agli altri così meravigliosamente da renderti capace di dir loro “se mi ami mi segui sennò arrivederci”. Inni all’emancipazione da quello che ti ruba spazio sul divano, ti tira via la coperta, ti chiede conto di tutto anche del caffè e nel farlo ti argina la fantasia, l’allegria, i carboidrati, la rabbia, e che sia esso uomo, donna, convenzione, successo, patriarcato, politicamente corretto, codice penale, social network: ben otto.
Irene Grandi, in “Finalmente io”, ha cantato i prodigiosi effetti dell’aver capito che la sola cosa veramente importante per lei è che quando canta sta da Dio, e chissenefrega se perde le chiavi di casa ed è disordinata e sbagliata: non era mai stata tanto viva, “viva più della vita”: nulla la pacifica più del non sentirsi più in difetto, del non doversi più scusare per aver esagerato. Sembra un manifesto di solipsismo e invece racconta una reazione esemplare, forse l’unica possibile, all’imperativo morale del nostro tempo: la buona condotta.
L’anno scorso Arisa aveva cantato qualcosa di molto simile, ritornellando con insistenza un “mi sento bene” non supportato dai fatti, che comunque su un palco hanno la loro rilevanza (s’era presentata piuttosto malconcia, poverina, una sera febbricitante, un’altra sera depressa, un’altra malvestita, e un’altra tutte e tre le cose insieme). Irene Grandi, invece, ha cantato con la grinta che aveva al Festivalbar, cielo azzurro fatto persona, vestita male ma con decisione, del resto come gli altri (non s’è visto un bel vestito neanche quando s’è cambiato canale durante la pubblicità, incredibile, un’epidemia di pessimo gusto e libertà d’esprimerlo il cui virus difficilmente verrà isolato da qualche ricercatore sottopagato). Una parte consistente di questo “se mi ami bene, altrimenti meglio così, arrivederci” prende linfa dall’accettazione di chi siamo, così come siamo, dalla pretesa che gli altri non arginino mai le nostre uscite, posizioni, sentenze, potenze, lagnanze. Tutto ha diritto d’asilo e risonanza, perché tu vali e, soprattutto, “Vai bene così”, che oltre a essere il mantra che la vostra psicoterapeuta vi ripete mentre le dite che iò vostro amore v’ha mollati per qualcuno di più rassicurante e le chiedete come accidenti si faccia a essere o almeno sembrare rassicuranti, è anche il titolo dell’orribile canzone di Leo Gassman, che quando l’ha scritta evidentemente ha dimenticato d’essere il nipote di uno che in “C’eravamo tanto amati” si domandava: “Sceglieremo di essere onesti o felici?”. Direte che sui figli non cadono, dei padri, né le colpe né i meriti, e che questa è una legge che vale ancora di più fra nipoti e nonni. Avete ragione, siete molto corretti. Però.
Irene Grandi ha cantato i prodigiosi effetti dell’aver capito che la sola cosa importante per lei è che quando canta sta da Dio
Però, ammetterete che un Gassman che ci canta “tu sei così, non ti devi arrabbiare per quello che non sai fare per ciò che non sai dare” è uno choc culturale notevole, sia per via di quello che dai Gassman adulti abbiamo imparato, sia perché è piuttosto difficile credere che tutto questo accogliere i propri limiti come fossero pregi, tutto questo rivendicare l’autenticità non come dato di fatto e condizione di partenza ma piuttosto come approdo, ecco, tutto questo, a noi devastati dal Novecento e dal suo ulissismo, francamente, terrorizza, però poiché siamo giovanili e ci piacciono gli Z, ecco, ci manteniamo sorvegliati, ben disposti, perfino ottimisti.
D’altronde, se tra felicità e onestà ha scelto onestà uno come Anastasio, e lo ha fatto non per campare bene ma per dare di più, non possiamo che ben sperare. Anastasio, vincitore di due “X-Factor” fa, che su questo giornale avevamo investito della carica di imperatore dell’universo, tanto infinita sembrava la sua bravura con le parole, ha portato a Sanremo una stupenda confessione su come il successo e pure l’ipersensibilità dell’umanità lo abbiano infiacchito e, per un lungo tratto di strada, impoverito e derubato della sua ira, del suo fuoco, della guerriglia urbana che aveva dentro al cuore, e di tutte quelle cose violente ma innocue che ci avevano fatto sbavare per lui.
“Come ti senti? Disinnescato! Ma dimmi come posso io che sono una bomba a orologeria sentire fermarsi quel ticchettio, se muore la minaccia muore pure la magia, sono nato per esplodere, comincia a correre”. Strepitoso inno antisardinesco, scomposto, vitale, febbrile, c’è l’amore per sé e per le proprie bestie, i propri demoni, la propria distruttività che nel distruggere conserva e trasforma. Quando mai un ventenne è salito sul palco dell’Ariston e ha dato in consegna agli adulti non una canzonetta d’amore ma un encomio della rabbia come condizione artistica e creativa fondamentale? Quando mai un giovane ha portato un testo che, in controluce e in senso nient’affatto negativo, ha parlato del connotato politico dell’ira? Quando mai sui social e la censura che esercitano su di noi, anziché un reprimenda dei peggiori istinti, siamo stati caldamente invitati a usare le spade come labbra?
E politico senza averne l’aria è stato anche Achille Lauro, che ha cantato di e con la soave incuranza che soltanto i poeti e i naviganti sanno riservare alle scemenze, amore senza spargimento di sangue incluso. Achille Lauro ha portato la luccicante “Me ne frego”, che quando è stata presentata la prima volta ha ghiacciato le prime file dell’Ariston perché la reductio ad Hitlerum ha di molto abbassato la tolleranza verso i rimandi, anche giocosi, all’estremismo destro, e che tuttavia niente di niente ci ha a che fare e sospironi di sollievo per tutti prima ancora del ritornello. “Tu sei mia tu sei tu tu sei più già lo so che poi lì che non so più poi chi trovo, chi trovo, sono qui, fai di me quel che vuoi, fallo davvero, sono qui”, che è una lettera d’amore a qualcuno cui si vuole regalare il solo amore veramente possibile: la libertà (d’essere incostante – non so poi più chi trovo – e d’esser veleno e strega e favola e sogno e inconsistenza e brivido). E, soprattutto, è una dichiarazione di disponibilità al martirio. Fammi tutto, me ne frego delle conseguenze, l’amore o è guerra o non è. E chi lo sa se il non detto è: tanto non puoi ferirmi, perché io il cuore ce l’ho impegnato in altro. Chissà.
Politico senza averne l’aria è stato anche Achille Lauro che ha cantato la soave incuranza che riserva alle cose poco importanti
Di cuori infranti o battenti a Sanremo non ce n’è stata neppure l’ombra, non un singulto, anche se Francesco Gabbani ha cantato che “l’amore di normale non ha neanche le parole” e tutto un invito a lasciarsi andare che soltanto in tempi di recessione sessuale, sentimentale, emozionale come i nostri poteva trovar auspicato spazio in una canzone pop. Gabbani per il sociale? Forse. Solo che Gabbani si sopravvaluta. Se c’è un’educazione che ci aspettiamo dalle canzoni è quella al potere, alla scelta migliore anziché a quella giusta. Nessuno ritiene di dover imparare ad amare perché nessuno vuole amare: vogliamo essere amati. Ci ama chi non ci ferma, chi ci vuole stanotte, adesso, sì.
“Volevo fare il cantante delle canzoni inglesi così nessuno capiva che dicevo, vestirmi male e andare sempre in crisi e invece faccio sorrisi a ogni scemo, sono sincero me lo hai chiesto tu”. Senza musica, e letta d’un fiato, la canzone di Bugo e Morgan sembra la storia di due uomini che s’incontrano in una casa famiglia per divorziati e forse un pochino anche questo è, ma soprattutto è una canzone fenomenale sul liberarsi dalle finte emancipazioni che ci vengono somministrate e che anziché allargarci ci restringono, anziché ispirarci ci inducono, anziché farci essere ci fanno soltanto dire. L’inibizione che incontriamo negli altri è un punto forte del canzoniere del festival, così come del nostro tempo, per paradossale che possa sembrare, visto che niente sembra esserci precluso, niente, a parte l’approvazione degli altri, che cerchiamo affinché siano compagnia, pubblico, ma mai incontro.
L’altro è un guastafeste. E' l’ennesimo “cabron” di cui Elettra Lamborghini s’innamora e che non le dice mai che è bella e che lei dimentica in un niente, in un ritornello: “Musica e resto scompare”. Ameremo ancora, a patto che gli amati siano impossibilitati a farci soffrire. “E se potessi parlare con lei da solo cosa le direi, di dimenticare quel frastuono tra gli errori suoi e gli errori miei e guardare avanti, senza l’ansia di una gara, camminare sotto questa luce chiara”. Rancore, che sospettiamo sia stato il migliore (ne riparliamo a maggio, quando gli influssi malefici della diretta Rai saranno svaniti), dice che può esserci un modo nuovo di darsi all’altro, senza sottometterlo a un compromesso, senza chiedergli d’incaricarsi dei nostri limiti o non limiti, dei nostri appetiti o delle nostre astinenze. Perché Rancore, come Diodato, sa che vivere per sé non dura mai troppo, e quel rumore fastidioso che fanno gli altri, quando ci tirano la coperta o ci chiedono di non urlare, finisce sempre, immancabilmente per mancarci e farci dire che “Non ne voglio fare a meno oramai di quel bellissimo rumore che fai”.
La felicità, senz’altro, fa rumore. Canta. L’onestà no. Lasciatela perdere.
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