Diodato premiato a Sanremo (foto LaPresse)

Passato Sanremo, faremo rumore

Simonetta Sciandivasci

Diodato ha cantato l'irreparabilità dell'amore quando finisce, e il Festival è finito in un patetico, irresistibile caos all'italiana

Cerchiamo di capire com’è stato possibile che abbia vinto Diodato, cioè la canzone più bella del festival. Inedito assoluto, ché quando mai Sanremo l’ha vinto il pezzo migliore. Che emozione, è come fare (guardare, via) la Rivoluzione francese però da casa, sul divano e con la radio accesa. Allora.

  

 

Gli altri sono l’inferno. Ci scottano, e bruciano, e dannano, e condannano. Poi la fiamma s’estingue, il dolore passa e, specie se lo abbiamo sofferto da giovani, non ne resta “neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore di essercela tanto presa per così poco” (Aldo Busi, “Seminario sulla gioventù”, capolavoro assoluto, vent’anni per scriverlo, venti, e noi idioti leggiamo gli instant book, bravi). Rassicurante? E no. È tremendo, invece. Primo, perché “ma io sto male adesso” (Jannacci) e dopo di adesso si può anche morire, non per forza guarire; secondo, perché delle centinaia di immeritevoli, stronzi, egomaniaci, passivo aggressivi, patriarchi minori che in tutta una vita ci amano male o non ci amano affatto, ci abbandonano o non ci lasciano in pace, ci sopportano o ci tradiscono, e insomma ci fanno male, ci fanno vivere, di tutta questa massa di dannati che fa dei nostri giorni un inferno irresistibile, ce n’è sempre uno (a volte più d’uno, porca miseria) che ci rimane dentro e fa rumore. Rumore, sì. Non ferita che sgorga e poi non sgorga più e allora resta la cicatrice e poi ci fai sopra un tatuaggio e poi ti levi il tatuaggio col laser e poi per fortuna ti svegli che hai ottant’anni e sei armato fino ai denti della sola arma che uccide il dolore e cioè il rimbambimento.

 

 

Diodato canta di questo, di quel rumore che tutti noi ci portiamo dentro, seppellito come una mina che poi esplode inaspettatamente, quando andiamo “in certi posti che dovrei evitare”, o anche di punto in bianco, mentre mangiamo un panino, o siamo a letto con un estraneo che magari abbiamo anche sposato (bravi, qualcuno dovrà pur dare da mangiare agli avvocati). Perdi l’amore e non è vero che resta una cicatrice: resta il rumore. Diodato ci ha fatto vedere una cosa importante, e le canzoni sono canzoni nello stesso modo in cui i romanzi sono romanzi: quando danno il nome a una cosa che hai sempre sotto gli occhi ma non vedi finché non arriva qualcuno a dirti cos’è e come si chiama. Non le ferite e poi le cicatrici, signori, ma il rumore. Avete amato se lo avvertite. Provate, sforzatevi. Andatelo a cercare. Dice ma se è rumore non lo dovrei sentire e basta? E no. Perché quel rumore non fa sempre decibel, a volte è solamente un ronzio, un fastidio, un tinnito a cui ci abituiamo fino a non sentirlo più. A volte, quel rumore è un silenzio. E noi passiamo la vita a fare come la signora Dalloway di Virginia Woolf: a dar feste per coprire il silenzio. Il rumore si può accogliere oppure no, naturalmente. Avete amato chi vi fa rumore dentro: diteglielo, o almeno ditevelo. Speriamo che molti italiani, questa notte, abbiano ricevuto un WhatsApp che diceva: “Fai rumore”. E non per andarsi a riprendere il mittente, ma per capire che il senso di questo pezzo, che parla di un modo di stare al mondo molto preciso e cioè evitando di ripararsi, è: non c’è modo di levare di mezzo chi abbiamo amato, smettiamola di andare dalla psicoterapeuta (che peraltro ci fornisce di una serie di tattiche nucleari per voltare pagina che funzionano pure, ma non sono vere), smettiamola di vivere di esorcismi, lasciamo sul tavolo i libri aperti alla pagina dolorosa che vorremmo voltare e leggiamola tutte le volte che fa rumore.

 

“Ho capito che per quanto fugga, torno sempre a te”.

“Non lo so se il tuo rumore mi conviene” (e certo che no, certo che no).

“Non lo posso sopportare questo silenzio innaturale tra me e te”.

 

Perdi l’amore e chiude un giornale. Una voce si spegne. E il male che fa come possiamo davvero farci raccontare che sia curabile? Non lo è. Si sopravvive, certo, però. Però si perde. Né vincitori né vinti, come cantava Arisa ne “La Notte”. E invece noi facciamo i guerrieri e combattiamo per uscire vincenti da una storia che finisce, e diciamo stupidaggini che, come la psicoterapia, funzionano ma non sono vere.

 

Francesco Gabbani è arrivato secondo. La sua canzone è orrenda. E’ un non richiesto manuale d’amore che dice cose condivisibili: l’amore non ha logica, non ha freni, non ha senso, e per provarlo ci si deve lasciare andare. Il punto è che lui l’ha cantata con la faccia e la prossemica di Zoolander e siccome anche l’interpretazione è importante, non soltanto le parole, non ci lascia niente, se non il sollievo derivante dal fatto che ci siamo fatti piacere una canzone che c’invita non a star bene per conto nostro, come tutte le altre del Festival, ma ad innamorarci senza colpo risparmiare.

 

 

 

I Pinguini Tattici Nucleari (complimenti per il nome, è un franchising di animatori turistici?) sono arrivati terzi e speriamo che sia stato soltanto per l’orecchiabilità e freschezza del pezzo, che è praticamente l’inno del maschio millennial ben contento della propria medietà, grande atto di resistenza alla coazione all’eccellenza che ha bombardato una generazione di trentaquarantenni al buio, l’inno dell’uno vale uno cantato da uno con la faccia da sardina. Però, accipicchia, ha vinto un altro millennial, un altro tipo di millennial (Diodato ha quasi quarant’anni, ed è l’ex di Levante, ed è originario di Taranto, ed è indie, e quando canta i Radiohead se chiudi gli occhi ti sembra di ascoltare Tom Yorke – le biografie sono importanti). Meno male. Naturalmente, il fatto che sul podio non siano arrivate donne ha scatenato polemiche cancellettiste, e denunce di patriarcato e sessismo, e “lo vedete che servono le quote rosa?”, e quindi non ci godremo questa stupenda vittoria di Diodato, interferendo in modo persino più insensato ma ugualmente trascurabile di come ha interferito il rallentamento della proclamazione del vincitore, ieri sera, in coda al festival (alle due e un quarto del mattino, signore e signori, e meno male che Sky ha pensato bene di diffondere la notizia prima), al culmine di un caos che sembrava una seduta di laurea alla Sapienza o anche la votazione di una legge in Parlamento durante il Conte1.

 

È stato un festival molto sanremese, né sessista né femminista, né strepitoso né orrendo, surreale e noioso, patetico ma perdonabile e con le sue buone ragioni come il brutto discorso di Tiziano Ferro per i suoi 40 anni – “Dio non commette errori. E non credo abbia iniziato il 2 febbraio 1980. Non sono sbagliato. Nessuno lo è. Non accetto speculazioni sul tema”. Ma chi è il ghost, Raffaele Morelli?

 

 

 

È stato, soprattutto, un festival che ha mostrato che non nuoce alle donne l’Amadeus che ritiene che è capace di fare la valletta una che sa stare un passo indietro rispetto al suo uomo. Nuoce alle donne ciò che nuoce agli uomini, e cioè credere che per aggiustarne la relazione si debbano censurare i rapper, boicottare i festival, rinunciare alla guerra e alle ferite che lascia e al rumore che fa. È stato comunque bello. Come Tosca, abbiamo amato tutto, anche quello che abbiamo odiato. 

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