“Vi avviso, gli archivi non possono essere il rifugio di questi tempi infelici”
Fuga dal presente. Parla Maria Pia Ammirati, signora di Rai Teche
Roma. La signora delle teche Rai non sopporta la lacrimuccia. Non pensa che il meglio è passato, (“E però, i varietà di Antonello Falqui…”), non crede che bisogna rifugiarsi nei ricordi, tanto più in quelli felici (“Anche io riguardo i Fratelli Karamazov di Sandro Bolchi, ma non toglietemi la Casa di Carta”). Insomma, la signora della televisione carillon non ama la polvere anche se è quella della storia. Si chiama Maria Pia Ammirati e dal 2014 è la direttrice di Rai Teche che è ormai la tana dei quarantenati, l’altro irresistibile palinsesto.
A marzo, il portale web, che taglia, cuce, incolla e ripropone, e dunque riavvolge il rullino Italia, è stato visitato da quasi mezzo milione di utenti. Mentre scriviamo, ci colleghiamo anche noi e rivediamo la tribuna politica del 1987 di Paolo Villaggio che presenta la sua candidatura a Democrazia Proletaria. E’ nella tendina “i più popolari”. “E non si contano i visitatori di Rai Play che mescola i vecchi contenuti con i nuovi” risponde la direttrice che è anche scrittrice (è stata finalista al premio Strega), ma in passato autrice, anzi, “autoricino” e poi giornalista (“A Diario, Paese Sera”). Laurea? “In Lettere a La Sapienza con una tesi sul romanzo degli anni ’80. I miei professori sono stati Natalino Sapegno, Alberto Asor Rosa. E pensare che volevo prendere pure un’altra laurea in Filosofia del Linguaggio. Tullio De Mauro mi sconsigliò: ‘Inizia a lavorare. Lascia perdere’”.
In Rai come è entrata? “Nel 1989. Precaria, autore radio. Poi il primo contratto, ma non da giornalista. Impiegata”. Sotto la sua direzione lavorano centocinquanta tecnici che ogni giorno conservano tutto quello che la Rai trasmette e digitalizzano quanto è stato già trasmesso (“Tre milioni di cassette che significa due milioni di pellicole da sedici millimetri e da trentacinque”). Nel ruolo che oggi occupa l’ha chiamata il vecchio dg (ma quanti altri dg dopo di lui?) Antonio Campo Dall’Orto. Ci è rimasta da allora. Diciamo come un topo in biblioteca? “Diciamo che le nostre biblioteche sono i capannoni. Le teche sono conservate in una grande struttura a Roma, sulla Salaria. Ma abbiamo anche un ricovero che si trova a Torino nel caso in cui andassero perduti i supporti. Vengono a farci visita dall’estero e poi registi, attori per consultare il catalogo. Gli ultimi sono stati Ridley Scott e Pierfrancesco Favino per interpretare il suo ‘traditore’” ricorda la direttrice che è la bella anomalia Rai, e non solo per il curriculum, ma per cortesia che è quella antica dell’azienda davvero culturale. E infatti, la tv di stato, per colpa del virus, è tornata alle teche e non si creda come operazione solamente di recupero. Senza ospiti e senza produzioni, la teca è il rimedio finale, il paracetamolo dei direttori di rete che, in verità, sono sempre in crisi di fantasia.
Gli archivi televisivi, non solo in Italia, registrano il loro rinascimento dato che il passato, soprattutto adesso, finisce per essere preferito al presente. “Io credo che faccia parte della cultura latina. In tempi di magra si va a riprendere ciò che è rimasto in cantina. E non c’è dubbio che farlo non costa. E’ economico. Oltre all’effetto madeleine…” risponde la signora delle teche che non ha la presunzione di avere un suo modello, ma forse un po’ si. “In Rai si è cominciato a conservare negli anni ottanta. I più bravi sono forse i giapponesi. Ma oggi, e non certo per me, ma per merito dei professionisti che ci lavorano, siamo ritenuti campioni di questa speciale archeologia industriale”. In queste ore di ricerca, e non solo di personali ricordi, scavando sono tornati, e vengono condivisi sui social, i match di Alberto Arbasino scrittore che profetizzava: “Dopo i grandi balzi in avanti seguono i grossi zompi indietro”. E poi c’è Raitre che si è inventata una striscia quotidiana e ripropone le interviste di Enzo Biagi.
Ma non è che siamo condannati al ricordo? “A questo ci arriveremo dopo. Per una volta possiamo dire che la Rai oltre ai tanti difetti, e sono la prima a saperlo, ha anche dei pregi. Prendiamo le sedi locali tanto criticate. In questo percorso di recupero, una delle sedi che più si è distinta è stata la sede di Palermo. Ha digitalizzato l’intero maxi processo e ora è a disposizione di chiunque”. A disposizione soprattutto di registi (Nanni Moretti è tra più assidui frequentatori), fino a pochi anni fa, le teche erano l’evasione estiva del programma di successo Techetecheté. Non è questa l’ambizione della Ammirati convinta che anche il ricordo vada rimodulato, riproposto, offerto sul web. Nella speciale classifica non dei più visti, ma dei più ri-visti, c’è oggi “la Piovra”, seguito dagli altri sceneggiati in costume e dai varietà come “Studio Uno”.
Gli utenti sono giovani, trentenni, e non i nostalgici. La signora delle teche rivede invece, e volentieri, “Quelli della notte” di Renzo Arbore. “E’ sicuramente il prodotto che tutti ci chiedevano di digitalizzare. Avevano ragione. Ma rimango legata anche a ‘Mille Luci’ per l’eleganza delle scene”. Per la Rai potrebbe essere pericoloso. Sono già molti gli spettatori che si stanno iscrivendo al partito del rimpianto. Rai Play offre ‘La notte della repubblica” di Sergio Zavoli, “Le lotte contadine” di Giorgio Bocca, “Linea rovente” di Giuliano Ferrara, le “Cartoline” di Andrea Barbato, gli “Incontri” di Indro Montanelli … “E però, questo dimostra che tutti i grandi giornalisti sono passati dalla Rai. Certo, molti matrimoni sono finiti e anche male, ma alla fine la loro impronta è rimasta” risponde la direttrice che ha imparato l’arte degli irregolari. In pratica, ci vuole lasciare smontando il mito della teca. “E’ stato bello chiacchierare con voi, ma da custode vi devo avvisare. Gli archivi non possono diventare il rifugio di questi tempi. Vi immaginate che noia? Ci vuole una giusta dose. Bisogna cominciare a fare anche nuova televisione altrimenti si finisce per somministrare anestesie locali”. Siamo partiti dalla lacrimuccia e per fortuna, anche noi, come Giuseppe Conte, abbiamo riposto la pochette nel taschino.
Politicamente corretto e panettone