Distanziati dal comico
Un’ora di stand up con Jerry Seinfeld in attesa del suo tv show. Ma le battute non sopravvivono fuori dal loro habitat
Preso atto del distanziamento sanitario che d’ora in poi ci tocca (“sociale” non sembra l’aggettivo adatto, neanche per zuccherare la pillola) bisognerà calcolare il distanziamento che provocherà tra noi e le cose che ci piacevano prima del virus. Jerry Seinfeld, per esempio. L’inventore di “Seinfeld”: lo “show sul nulla” trasmesso in televisione dal 1989 al 1998, vincitore di 10 Emmy e tre Golden Globe. Netflix ha comprato a caro prezzo i diritti in scadenza, ma lo metterà in streaming nel 2021. Troppo tardi per venirci in soccorso anti noia: paturnie nostre contro paturnie di Jerry e compagnia, divano nostro (distanziati) e divano loro (appiccicati). Unica donna ammessa, Elaine – era Julie Louis-Dreyfus, con Amy Schumer nella gag sul “last fuckable day”: il fulmine che incenerisce le attrici al compimento dei 40 anni.
In cambio – svantaggioso per noi – ha benevolmente concesso “23 Hours To Kill”, un’ora di stand up con Jerry Seinfeld. Da subito abbiamo cominciato a misurare il distanziamento vero, la sfasatura che smorza le gag e mette tristezza. Il comico è a bordo di un elicottero che sorvola New York, il pilota pronuncia la parola “traffico” (traffico? ma ormai andiamo a curiosare dalla finestra, se solo sentiamo un colpo di clacson, già pregustiamo un bell’ingorgo). Detto e fatto, Jerry indossa la tuta da sub e si tuffa dall’elicottero. Ancora gocciolante arriva in camerino. Sotto ha l’abito da sera, e lo spettacolo comincia. Dopo un inizio così è difficile rimontare.
Soprattutto se il primo numero riguarda l’uscire di casa con gli amici e i parenti a cui vogliamo un bene non disgiunto dall’irritazione (“mi passi a prendere? dove hai messo i biglietti? sbrigati che siamo in ritardo”). Per andare a vedere lo spettacolo di Jerry Seinfeld al Beacon Theatre e scoprire che anche il comico avrebbe preferito restare a casa: la gente gli piace vederla da lontano. E via così. Pure con l’assembramento: perché tutti stiamo a New York quando intorno ci sono posti bellissimi? Una risposta l’avremmo: perché a New York si scrivono e si producono cose come “Seinfeld”, inimmaginabile fuori da Manhattan. Il borbottio dell’asociale, che ci deliziava prima del virus, ora somiglia ai deliri da decrescita felice, e mette voglia di forcone (non per tirare su il fieno). Il tragico è universale, il comico presuppone un sistema di riferimenti comuni: quasi mai le battute sopravvivono, fuori dal loro habitat. Quel sistema è scardinato, speriamo non per sempre. Ma al momento toglie la terra sotto i piedi perfino a uno come Jerry Seinfeld. Passiamo al capitolo ristoranti: “Non mi interessano i piatti che fanno il provino per entrare in lista”. Anche noi abbiamo sempre odiato i “fuori menu”, però di questi tempi solo la parola ristorante e il ricordo di certe cene accalcate e ridanciane fanno venire i lucciconi. E via così, sempre più in salita – ma a Netflix non hanno qualcuno che controlla la qualità del prodotto? “Seinfeld” la serie dovrebbe reggere meglio, se nel frattempo non avranno vietato i divani.
Recensire Upas