Lo spazio più freddo

C’è una serie tv che racconta la Space Force anti Cina di Trump. Dovrebbe far ridere, ma è così realistica che sembra un documentario

Giulia Pompili

Steve Carell, che interpreta Mark Naird, un generale a quattro stelle a capo della sesta armata americana, la Space Force, entra nell’ufficio della sua segretissima base in Colorado. Ci trova un ragazzo russo, Yuri, che fruga tra le sue cose: “Sto cercando le specifiche della pompa per la propulsione dell’Epsilon 6, puoi mostrarmele?”. “No”, gli dice il generale. “E dai, sono russo, mica cinese”. “Space Force”, la nuova serie tv di Netflix creata da Greg Daniels, arriva sette anni dopo la fine di una delle sue sit-com americane più famose, “The Office”, ma non è la stessa cosa. Secondo la critica “Space Force” non fa ridere, non intrattiene, e infatti pur essendo disponibile in streaming da una settimana se ne parla poco. Alan Sepinwall su Rolling Stone ha scritto che il personaggio di Naird è insopportabile, “uncomfortable to watch at best”, insomma sgradevole. E da queste parti non ci permettiamo di contraddire la critica americana, quando dice che il protagonista della serie di Daniels è troppo stupido, ottuso, bigotto e ingessato per essere realistico. Che le battute sull’Amministrazione Trump sono solo battute, restano appese, senza consegnare complessità allo spettatore.

 

Nel 2018, quando Trump ha annunciato un nuovo ramo delle Forze armate, i generali dello Stato maggiore sono saltati sulla sedia

Il problema che i recensori forse non colgono è che “Space Force” somiglia perfino troppo alla realtà, e la satira improvvisamente non sembra più satira, e fa ridere perché somiglia a un documentario. Il conflitto tra le cinque Forze armate americane (con la Guardia costiera sempre bullizzata dalla Marina, e il corpo dei Marine sempre pronto all’azione più truculenta) è roba vecchia. Ma nel marzo del 2018, quando il presidente Donald Trump, riprendendo un progetto lanciato nel 2000 dall’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, ha annunciato improvvisamente di voler trasferire il comando spaziale – che fino ad allora era inserito nel budget dell’Aeronautica – in un nuovo ramo delle Forze armate, i generali dello Stato maggiore sono saltati sulla sedia. La Space Force, quella vera, è nata in fretta e furia poco più di un anno dopo, il 20 dicembre del 2019: è il giorno in cui Trump ha firmato il National Defense Authorization Act, il bilancio del Pentagono per l’anno fiscale 2020. Una gran vittoria per il vicepresidente americano Mike Pence, un nerd di questioni spaziali che già da tre anni è a capo del Consiglio spaziale – un altro zombie abbandonato negli anni Novanta e resuscitato da Trump, dove si discutono le politiche spaziali. L’aspetto però che rende “Space Force”, la serie tv, più vicina ai tic e alle ossessioni dell’Amministrazione Trump in questa nuova, rinnovata Corsa allo spazio è, appunto, la competizione.

  

Un costosissimo satellite raggiunge finalmente l’orbita, ma viene sabotato. “I cinesi!”, dice il generale. E’ la serie o la realtà?

Nel secondo episodio della serie Netflix, un costosissimo satellite raggiunge finalmente l’orbita, ma dopo poche ore gli si avvicina un altro oggetto spaziale che lo danneggia, rendendolo inutilizzabile. “I cinesi!”, urla il generale Naird. Ed è lo stesso generale che non si fida dello scienziato di origini asiatiche perché ha un cognome cinese, Cheng: “Chi è il tuo capo? Il Partito comunista?”. Fa ridere, ma non è poi così lontano dalla realtà. Da tempo pregiudizio e sospetto guidano le politiche della Casa Bianca contro la Cina, in un modo così ossessivo da risultare a volte ridicolo. E’ più o meno quello che accadeva negli anni della Guerra fredda con la Russia, solo che dopo un lungo sonno, durante il quale Pechino ha finanziato, spiato, e si è potuta inserire in tutti i vuoti lasciati dalla distrazione americana, improvvisamente Washington si è accorta del Sogno cinese del presidente Xi Jinping e della determinazione con la quale la Cina lo insegue. Come abbiamo più volte scritto anche su queste colonne, è nel campo della tecnologia, e quindi anche nello spazio, che si è spostata la competizione. In “The Scientist and the Spy: A True Story of China, the Fbi, and Industrial Espionage”, libro appena uscito per Riverhead Books scritto dalla giornalista Mara Hvistendahl, il clima teso della competizione e della paura, a volte giustificata, a volte no, è riassunto nella storia di Robert Mo. Cittadino cinese emigrato in America, Mo diventa rappresentante negli Stati Uniti dell’azienda agricola di suo cognato. Per accelerare il processo di produzione, a un certo punto gli viene chiesto di prendere alcuni semi modificati geneticamente dai campi di grano della Monsanto, in Iowa, e di spedirli in Cina. Lui lo fa, viene beccato, e non nega mai di aver fatto quello che ha fatto. Nel 2016 viene condannato a tre anni di carcere. Mo è il simbolo della “caccia alle spie” dell’Fbi, fomentata da Trump, che accusa la Cina di portare avanti il “più grande furto del mondo”, che è stato quantificato in 150 miliardi di dollari l’anno a danno delle aziende americane.

 

Anche questa sembra la storia di un film, ma al di là della vicenda di Mo, nel libro Hvistendahl spiega bene il contesto di competizione, di rivincita, e di corsa al dominio: “Mi sono trasferita a Shanghai nel 2004, avevo ventiquattro anni. Quando sono arrivata la Cina era nel pieno della sua ascesa scientifica. Le riforme economiche avevano trasformato la stagnante economia statale in un vibrante mercato dei consumi, intimamente legato ai finanziamenti alla scienza e alla tecnologia. Il primo salto di qualità della ricerca arrivò nel 1986. E’ l’anno in cui la Cina si dota del Programma 863, che mette soldi nel programma spaziale e nell’information technology nel momento in cui per molte famiglie delle campagne anche avere il frigorifero era un lusso. Ma nei decenni successivi, il budget per la ricerca e lo sviluppo sono aumentati in modo esponenziale, tra il 1991 e il 2016 di almeno un terzo”, scrive Hvistendahl. “Nel 2006 la Cina ha superato il Giappone diventando il secondo paese al mondo per budget destinato alla ricerca e sviluppo, subito dietro agli Stati Uniti. La Cina tende a dominare certe classifiche anche perché ha una popolazione enorme, ma non c’è dubbio che il paese si è posizionato al centro della ricerca di alta qualità”. Negli ultimi anni sono aumentate le pubblicazioni in inglese, e oggi la Cina è prima per numero di paper scientifici e tecnologici, seconda per brevetti. “E’ in possesso di diversi supercomputer, del primo satellite di comunicazione quantistica. Un istituto a Pechino vorrebbe costruire il supercollisore più grande del mondo, un progetto che se approvato potrebbe portare a numerose scoperte nel settore della fisica”.

 

La spinta di Trump a rinnovare l’attenzione sullo spazio è giustificata. Lo spiega perfino “Space Force” – ma lo fa dire al capo ricercatore, il dottor Adrian Mallory interpretato da John Malkovich, e non al generale che “vuole militarizzare lo spazio”. Durante la discussione sul budget, Malkovich dice in modo molto chiaro che i satelliti in orbita servono ad aiutarci a vivere, certo, ma possono essere usati anche per obiettivi molto meno pacifici. E dunque vanno difesi. E’ il grande slogan di Trump: abbiamo le Forze armate più forti del mondo, pure nello spazio.

 

Il lancio di SpaceX è una rivoluzione scientifica, di modello economico, ma cambia anche tutti gli equilibri geopolitici

Se l’Amministrazione Trump ha avuto un merito, è stato quello di aver accelerato il coinvolgimento delle compagnie private alle missioni spaziali: è una cosa mai provata prima ed è soprattutto un modello opposto a quello di Russia e Cina, i cui programmi spaziali sono esclusivamente militari. In America è la Nasa a essere responsabile del programma spaziale, ed è un’agenzia governativa civile. E ora arrivano pure i privati visionari. E’ anche per questo che il lancio del 1° giugno scorso di SpaceX, come hanno titolato molti giornali, ha “inaugurato una nuova èra”. E’ l’inizio dei voli umani commerciali, ma soprattutto il ritorno in campo dell’America, che dopo aver abbandonato il progetto Space Shuttle non lanciava un essere umano dal proprio territorio da quasi dieci anni. “Per recuperare la possibilità di tornare nello spazio, nel 2010 la Nasa ha avviato il Commercial Crew Program: anziché fare come sempre, e cioè appaltare ad aziende la costruzione di nuovi razzi che poi sarebbero diventati di suo possesso, l’agenzia americana ha deciso di responsabilizzare i privati e di giocare sulla competizione. Ha dato 2,6 miliardi di dollari a SpaceX e 4,2 miliardi a Boeing e ha detto: riportatemi i lanci spaziali in America, noi ci mettiamo l’esperienza e gli astronauti, e i razzi che costruirete restano vostri”, ha scritto Eugenio Cau sul Foglio. La SpaceX di Elon Musk, in tutto sommato poco tempo, ha provveduto al lancio di due astronauti statunitensi verso la Stazione spaziale internazionale.

 

Questo è un risvolto geopolitico fondamentale: finora per mandare i propri astronauti sulla Stazione spaziale chiunque era dipendente dal monopolio della Russia, e dalla sua navicella Soyuz – una navicella vecchia di sessant’anni. Il biglietto staccato per ogni passaggio verso la cittadella spaziale arriva a costare anche 80 milioni di dollari: “Per far partire i suoi uomini con la Soyuz, dal 2017 al 2019, la Nasa ha speso circa un miliardo di dollari, ma se i progetti di SpaceX dovessero andare in porto, gli Stati Uniti prevedono di interrompere il rapporto con la Russia, o meglio di trasformarlo in una collaborazione senza l’acquisto di voli. I russi non hanno potuto fare a meno di contare immediatamente quanto la nuova èra americana nello spazio potrebbe incidere sul loro bilancio e la risposta non è stata delle migliori: il budget dell’agenzia Roscosmos subisce tagli continui, nel 2014 prevedeva 5 miliardi di dollari e per il 2020 è di 1,7 miliardi e senza il contributo degli americani rischia di contrarsi sempre di più anche a causa del disinteresse del presidente Vladimir Putin, e se i lanci di SpaceX si fanno regolari, le perdite annuali potrebbero superare i 200 milioni di dollari”, ha scritto Micol Flammini su queste colonne. La Stazione spaziale internazionale, il grande progetto post Guerra fredda che doveva dimostrare al mondo quanto fosse più facile collaborare che farsi la guerra, in realtà non è mai stata così competitiva. Perché se l’India, che pure ha un programma spaziale di tutto rispetto, non ha mai avuto vere velleità di cooperazione internazionale, la grande esclusa dai giochi spaziali è la Cina. Che nel frattempo, però, ha fatto da sola.

 

Con enormi budget, proprio come scrive Hvistendahl, si è inserita nei programmi di ricerca di praticamente tutte le agenzie spaziali del mondo. Ha spiato, osservato, ma soprattutto ha formato una nuova classe di scienziati che hanno a disposizione tutto ciò che gli serve per raggiungere gli obiettivi. E gli obiettivi del programma spaziale di Pechino coincidono con quelli di Washington. Il lancio di SpaceX è anche questo: sancisce la fine della competizione con la Russia, ma apre definitivamente quella con la Cina.

 

La Cina sta costruendo la sua stazione spaziale che si chiama Tiangong e che presto potrebbe ospitare astronauti di “paesi amici”

A fine maggio la China Aerospace Science and Technology Corporation, la più importante impresa pubblica che si occupa del programma spaziale di Pechino, ha annunciato che a luglio partirà la missione su Marte. Si chiama Tianwen (vuol dire Domande celesti, come un famoso poema cinese), porterà sul pianeta rosso sia un orbiter sia un rover attraverso il lanciatore Lunga Marcia, arrivato alla quinta generazione. Nonostante gli anni di ritardo sul programma di lanciatori, il Lunga Marcia 5 è stato testato qualche settimana fa dallo spazio porto dell’isola di Hainan (che sta subendo negli ultimi mesi una rivoluzione infrastrutturale) ed è stato un successo. Ma non c’è solo Marte: dopo il successo della missione che ha permesso di arrivare sul lato oscuro della Luna, la Cina sta espandendo il suo programma lunare e vorrebbero avere “una presenza permanente” sulla Luna entro il 2024 – un progetto al quale stanno lavorando anche Nasa, Roscomos e Agenzia spaziale europea. E poi c’è la Stazione spaziale. Quella internazionale, grande conquista del mondo che collabora dopo la Guerra fredda, è vecchia, e potrebbe presto cadere in disuso. La Cina, mai invitata a partecipare nonostante numerose richieste arrivate nel corso degli anni, sta costruendo la sua stazione spaziale che si chiama Tiangong, Palazzo celeste, e che presto potrebbe ospitare anche astronauti di “paesi amici”. Il 5 maggio scorso è stata testata una nuova navicella per il trasporto umano – di cui ancora non si conosce il nome – e che dovrebbe sostituire la vecchia Shenzhou cinese. Dopo il test di successo del lanciatore, ieri Pechino ha dato alcuni dettagli su Tiangong: secondo i media ufficiali, la stazione spaziale definitiva (della Tiangong 1 avevano perso il controllo, la 2 fu fatta rientrare lo scorsa estate) sarà completata entro la fine del 2022 e orbiterà attorno alla Terra a un’altitudine compresa tra i 340 e i 450 chilometri. Sarà attiva per almeno dieci anni e nei moduli verranno eseguiti esperimenti scientifici e tecnologici. L’equipaggio sarà composto di tre astronauti che potranno restare in orbita fino a sei mesi. Entro luglio saranno selezionati 18 nuovi taikonauti (gli astronauti cinesi). La determinazione solenne con la quale la Cina prosegue a tappe forzate il suo programma spaziale spaventa gli Stati Uniti.

 

Anche perché dall’altra parte del mondo, come spesso succede negli ultimi tempi, la realtà supera la sceneggiatura. Quando il 24 gennaio scorso Trump ha pubblicato su Twitter il logo della sua Space Force, un razzo stilizzato diretto verso l’alto al centro di un cerchio, tutti hanno notato una inquietante somiglianza con il Comando della flotta stellare di Star Trek. A metà maggio, nello Studio Ovale, Trump ha svelato la bandiera nera della sua Space Force, la prima nuova Forza armata che si costituisce ufficialmente da 72 anni. E ha commentato: “L’America sta costruendo un missile super-duper. Siamo i più forti”. Avrebbe potuto essere una scena di “Space Force”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.