L'amore nudo
“Naked Attraction”, il dating show che dimostra come il corpo sia l’unica cosa vera, la sola di cui ci si possa innamorare
C’innamoriamo di dettagli. Di una fossetta, d’un naso, d’un polso, d’un ginocchio, d’un dito. Le idee di mondo, le passioni, gli interessi, le storie di famiglia, gli amici, i vestiti vengono dopo, forse mai, o magari sono alibi, tentativi di razionalizzare, come se l’amore conoscesse ragioni, come fosse un datore di lavoro.
Non è del tutto vero che usiamo le app di dating perché non siamo in grado di parlare, sedurre, tollerare il rifiuto: lo facciamo perché su Tinder è lecito, anzi inevitabile, lasciarsi intrigare da un dito, o da un polso, o da un piede. Su un’app, anche se siamo avatar, siamo più nudi che altrove. Più franchi, più onesti, a volte anche più schifosi, bugiardi, truffaldini. Il dating, tuttavia, è intermediazione pura, e l’uso massiccio che ne facciamo ci dice che, pur essendo liberi di scegliere un partner, o un amico di una sera, contingentiamo quella libertà in tutti i modi possibili. I nostri appuntamenti al buio sono sorvegliati, mai e poi mai accetteremmo di uscire con un estraneo realmente estraneo, qualcuno del quale non conosciamo almeno età, professione, preferenze sessuali, studi (e questi sì che sono riflessi patriarcali).
“E se ci liberassimo di tutte le cose che ci definiscono?”, dice Anna Richardson, la conduttrice di “Naked Attraction” (dal 16 giugno ogni settimana su Dplay Plus, la piattaforma streaming pay di Discovery), un dating show, cioè un programma in cui i concorrenti cercano “l’anima gemella” (che orrida espressione, perché non la buttiamo tra i materiali non riciclabili?).
I concorrenti scelgono il partner tra sei papabili che se ne stanno in una cabina di vetro e vengono mostrati loro pezzo di carne dopo pezzo di carne: prima le parti basse, quindi gambe e zona pelvica, poi torace, infine viso. A ogni disvelamento c’è un’eliminazione. Non si conversa mai ma alla fine, quando i vetrinati sono a volto scoperto, la conduttrice chiede loro quali siano le parti del loro corpo che amano e quelle che detestano. La conduttrice e la selezionatrice o il selezionatore si muovono da una teca all’altra, discutono di come il candidato uno abbia le cosce, il culo, il pene, i polpacci (mai sottovalutare i polpacci: “Cara, come hai potuto stare con un uomo che aveva polpacci così ridicoli?”, ha chiesto una volta Sarkozy a Carla Bruni, parlando di Mick Jagger), di come la candidata due abbia la vagina, le tette, la voce. Non c’è niente di disgustoso e le ragazze lo sanno bene: si può parlare di corpo come si parla di storia, di culo come si parla d’intelligenza, di tette come si parla dell’ultimo romanzo letto. Per amore di contestualizzazione, compaiono infografiche che spiegano come le donne preferiscano la larghezza alla lunghezza, che recenti studi rilevano che un uomo con un viso proporzionato è più fertile di chi ne ha uno picassesco. Il corpo ci spiega, ci racconta, ci dona all’altro più di quello che siamo disposti ad accettare, e allora non è per forza un palo, una gabbia, una menzogna: forse, è l’unica cosa vera che abbiamo, ed è per questo che non ce ne dobbiamo vergognare.
In una delle favole de “Lo Cunto de Li Cunti”, il “Buonanotte per bambine ribelli” del Seicento italiano, un re sente una voce che lo incanta, va a bussare alla porta dalla quale proviene e chiede un incontro alla sua proprietaria, che però è una vecchia mostruosa e malandata, la quale gli propone di mostrargli, dal giorno dopo, soltanto un dito. Quello accetta e lei passa la notte a succhiarsi il mignolo per renderlo più bianco e sottile. Il re, naturalmente, per quel dito farà follie. A voi la morale.
Politicamente corretto e panettone