(foto LaPresse)

Prove di autarchia in Rai, ripartita quando eravamo tutti fermi

Marianna Rizzini

Gli effetti della pandemia sulla tv di stato e la riforma Salini. Parlano Giovanni Minoli, Aldo Grasso e Andrea Minuz

Roma. I tempi che corrono, e i tempi che corrono in Rai. La nouvelle vague della “policy” proposta dall’ad Fabrizio Salini – che sembra puntare a una Rai autarchica che contingenta il potere degli agenti tv e valorizza le risorse interne – e l’eterno ritorno delle discussioni di giugno-luglio attorno ai palinsesti (che verranno presentati alla stampa tra venti giorni). Chi fa cosa, chi sparisce dalla prima serata, chi ci entra, quanto potere hanno i sovranisti, quanto i non sovranisti. Come ogni anno, anche se questo non è un anno qualsiasi neanche per la Rai: durante l’emergenza-pandemia la tv di stato ha guadagnato in share e in immagine. Come non sprecare quel patrimonio e rilanciare? E’ utile dibattere come sempre sul peso specifico dei partiti in Rai quando il lockdown ha mostrato paradossalmente altre potenzialità e altre strade?

 

Intanto il cda Rai ha approvato la suddetta “riforma Salini” (entrerà in vigore fra circa novanta giorni), quella che recepisce le indicazioni della commissione di Vigilanza e dell’Agcom: un singolo agente non potrà essere il rappresentante di più del 30 per cento degli artisti che rientrano in una stessa produzione realizzata dall’azienda televisiva pubblica né potrà curare gli interessi di artisti in programmi da lui prodotti.

 

Salini ha poi mandato una lettera ai direttori di rete, lettera in cui ha chiesto esplicitamente di utilizzare le risorse interne, con ricaschi su compensi e costi. I fan della riforma dicono: nel 2019 si sono già visti risultati positivi in questa direzione. I detrattori temono per la qualità e il lavoro (poi c’è il tema ricorrente: e se gli artisti non accettano la riduzione?). Intanto Fabio Fazio è insorto a proposito del divieto di doppio ruolo (conduttore e produttore). Intervistato dal Fatto, ha detto di sentirsi “nel campo dell’inaccettabile: da tempo mi viene riservato un trattamento che non ha eguali né precedenti… Tre anni fa, quand’ero già serenamente avviato altrove, la Rai mi chiese di restare. Mi scappò detto che la politica non doveva più entrare nella tv. Da allora iniziò la guerra, perché quella mia frase fu letta come una questione personale”. Che fare? Come uscire dal loop Rai-partiti-partiti-Rai? “Prima si decida che cosa si intende per servizio pubblico, che cosa si vuole essere, poi si pensi al piano industriale, non viceversa”, dice Giovanni Minoli, che in Rai ha visto altre stagioni (quando, per esempio, ci si poteva ritrovare a discutere con Pippo Baudo dell’opportunità di sperimentare nuovi format in seconda serata). Per il critico televisivo ed editorialista del Corriere della Sera Aldo Grasso “quello che manca, per mettere nella giusta prospettiva il ruolo degli agenti, è la vera priorità alla linea editoriale. Diversamente resta un arcipelago di isoloti dove ognuno fa come gli pare. Ci vuole una visione. Ci vuole, come un tempo, anche il dirigente capace di andare dalla superstar dei talk-show a dire: ‘Mi scusi non riesce a essere un po’ meno antipatica?’”.

 

Ma quali effetti reali ha avuto e potrebbe avere sulla tv pubblica il ribaltamento di percezione causato dalla pandemia? Per il giornalista e docente di Storia del cinema Andrea Minuz “la pandemia ha ribadito la forza della televisione generalista, data per morta, finita, tramontata ormai da vent’anni. Eppure, è sempre lì. Il Covid è stato (anche) un grande evento mediatico che ha riportato la gente davanti alla tv o comunque l’ha spinta a seguire dirette sui canali della Rai (le dirette di Conte, la Protezione civile). Numeri e share impensabili fino a pochi mesi prima. E’ chiaro che è stata una situazione eccezionale. Ma è deprimente che non si parta da qui per ragionare sul futuro della Rai, che non si sfrutti neanche questo passaggio epocale per immaginare quale possa essere il senso della tv di stato nei prossimi anni”. Due gli esempi, dice Minuz: “RaiPlay e Rai Scuola. La prima si è rivelata decisiva nel lancio di film italiani che erano stati pensati per la sala. Dopo ‘Viva RaiPlay’ di Fiorello si è trattato di una grande, ulteriore operazione di lancio di una piattaforma che potrebbe rivelarsi un supporto decisivo per la circolazione dei film italiani. Rai Cinema che si sposta su RayPlay è un’operazione su cui puntare. Allo stesso tempo, Rai Scuola è stata preziosa nel supporto alla didattica a distanza, quasi riprendendo l’antica missione pedagogica della Rai degli inizi, aggiornata a un’esigenza molto pratica. Una Rai che nel futuro potrebbe rivelarsi decisiva”. E che però rischia di rimanere imbrigliata nel concetto – eterno pure quello – di “prosecuzione della battaglia politica con altri mezzi”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.