A X Factor arrivano i capelloni

Simonetta Sciandivasci

Il talent ne è uscito migliore, ma magari è un abbaglio della pandemia e del trasloco a Roma. Intanto, godiamoci la piazza pulita del motivazionale

Noi no, ma X Factor sì, ne è uscito migliore. E dire che soltanto l’anno scorso, e per la verità da qualche edizione, lo davamo per semi morto, bloccato, inguaribile, attaccato a quella grande macchina misteriosa che è l’abitudine del pubblico, che a volte tiene in vita programmi zombie per il semplice gusto del comfort, anche se li odia, anche se sono noiosi e insensati e forse proprio per questo. E invece, sorpresa. Mai abituarsi alla fine. Mai. La filmografia di Woody Allen è lì a dimostrarlo: quando lo dai per esaurito, il genio è soltanto in agguato. Chissà cos’è stato, se un ingrediente segreto, un nuovo autore, il tempo sospeso, la pandemia, Roma. Roma senz’altro (quest’anno si registra qui): a Milano fa bene venirci, lasciare sull’alta velocità Instagram e l’engagement e l’entusiasmo e l’inglese commerciale e lo sprint e la smania e la produttività e lo sponsor e la salubrità e il think positive e il tapis roulant. E finalmente mangiare in pausa pranzo e fare tutto senza fare sul serio. Un po’ di Roma ci vuole. Un pochino.

 

  

A metterci quel pizzico di Roma ci pensa prima Cattelan, che inizia il programma prendendolo in giro, dicendone le ipocrisie, con candore e malizia ben distribuiti, e poi Emma, che dice più parolacce di Mara Maionchi e le dice con gusto, affogandoci dentro come il caffè nel gelato alla panna che rende la panna diversa e unica, da ordinaria che è. Questa seconda puntata di audition è tutto un dire: ma che ce frega, ma che ce importa, e dirlo con molti accenti diversi, nessuno dei quali romano, perché è il solo modo per dirlo senza che sia stucchevole, protervo, bolso, vecchio, fesso. E infatti ci sono molti capelloni, quasi tutti bravi o bravissimi, giovani o giovanissimi di quelli che ti aspetti che salgano sul palco e facciano la trap, al massimo il rap, e invece no, fanno Sufjan Stevens  (Daria Huber, 16 anni, jeans e maglietta con sopra scritto che le donne muovono le montagne: brava bravissima), una volta hanno suonato con Bruce Springsteen che hanno visto 39 volte in concerto, hanno un gruppo hard rock anni Settanta e sono venuti con i loro papà, sono cresciuti ascoltando i dischi dei genitori, pensano che la felicità sia “alzarsi la mattina, affacciarsi alla finestra, vedere il sole e pensare, no, scusate, niente”.

 

C’era così pieno di capelloni vestiti anche da capelloni che quasi sembrava un dietro le quinte di Almost Famous (che quest’anno fa vent’anni: sono invecchiati non solo gli anni Settanta, ma pure i film che li celebrano, perbacco!). Ed erano tutti molto fichi, per nulla agè, e neppure vintage, niente mercatini e nostalgia e Baustelle e secolo scorso, al massimo i rimandi erano i Guano Apes e i Rage Against The Machine, che saranno attuali anche nel 2040, se ancora ci sarà il mondo (ma certo che ci sarà). L’umore della puntata era tutto nella performance di un rapper non proprio rapper napoletano, ventunenne con quell’aspetto da vecchio precoce, da Lello Arena, che ha cantato quanto sono tristi i compleanni, le feste, le ricorrenze, quanto è faticoso l’entusiasmo, quanto è odioso doverne simulare sempre, quanto si sta bene nelle nebulose, quant’è sana la pigrizia. Un suo coetaneo che, dopo non molto, è salito sul palco col sorriso affettato, la voce impostata, il pezzo che sembrava un esordio Feltrinelli, e per prima cosa ha detto che ficata essere qui, lo sognavo da sempre, è stato molto redarguito, come lo sarebbe stato in una periferia, o in un bagno di liceo: che liberazione. Poi è stato anche ammesso, perché a volte gli affettatissimi sono anche bravi: bisogna solo liberarli dall’American dream

 

 

Orgoglio capellone ne ha ostentato ed esibito anche Manuel Agnelli, che per tutta la puntata ha parlato dei suoi bicipiti, ogni tanto giocando a fare il sessista – Emma è stata al gioco, ogni tanto urlando, più spesso ridendo. Bravo Tha Genio il rapper di Napoli che ha fatto una canzone sul consenso, “Sì m vuliv”, cui è sottesa anche la regola che nessuna ragazza impara e cioè che se non ti cerca, non è che gli è morta la zia, è che non gli piaci. Bizzarri individui sono saliti a un certo punto sul palco filosofeggiando di un rock anti rock, di uno stile di vita tutto “gattini, tisane, arcobaleno” e sono stati spazzati via come e peggio dei Gazzosa (li ricordate? Quelli di www mi piaci tu, tu tu tu, tu tu tu). Splendido Vergo, il portinaio che a Milano scrive canzoni da anni, riponiamo in lui le speranze di un “eleganza del ricco” trap, magari con meno autotune. Ha cantato un suo pezzo, Bomba, vestito di plastica blu e colletto giallo di lana, ballando come George Michael. Splendido il teatro canzone di Michelangelo, che ha chiuso la puntata con un pezzo su quanto è complicato star dietro a tutto, in questo nostro mondaccio dove ogni giorno c’è una nuova stella da seguire. Se gli adolescenti o giù di lì sono tutti come questi anelanti a X Factor, facciamoci crescere i capelli e sbrighiamoci ad andare tutti in pensione, il mondo è loro, faranno bene senza di noi.

 

Ps. Un grazie particolare a Emma, per aver sollevato finalmente l’imbarazzante problema delle mani sul pacco: maschi che attendete la sentenza come se doveste prepararvi alla guerra degli inguini, siete stati scoperti, smettetela, basta, riponete gli arti superiori dietro la schiena, come usa fare nel meridione durante lo struscio domenicale. Grazie.

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