Vedete, è come per la mozzarella, specie se di bufala, come per il cannolo, o il panzerotto, o il culatello: puoi mangiarne di buonissimi, talvolta persino eccezionali, più o meno dappertutto nel mondo, meno che in Siberia e in qualche altro luogo splendidamente ostile all’essere umano, ma da nessuna parte avranno il gusto che hanno a casa loro. Il venerato panzerotto di Luini, a Milano, non vale un tredicesimo di un qualsiasi panzerotto di Bari Vecchia. Sarà l’aria, sarà l’acqua, saranno i batteri. Per X Factor è la stessa cosa: ieri sera è tornato a Milano, perché sono cominciati i live, e tutte le puntate precedenti a Roma dove Roma s’era sentita e aveva allentato e abbracciato Milano, sono svanite, evaporate, Bye Bye Bombay. Il format, almeno quello italiano, è nato e cresciuto a Milano e quindi ieri è rientrato a casa dopo un campeggio a Cinecittà, lavato via con una doccia veloce. È stato chiaro sin dalla sigla iniziale, una specie di cerimonia di apertura delle Olimpiadi in Cina, dove tutto era perfetto e serio e scintillante e internazionale, e naturalmente un tantino esagerato, con i samurai (erano samurai?) e Cattelan 50 percento crooner e 50 percento Justin Timberlake nel 2003, e i concorrenti smaglianti e fichi come i Five o una qualsiasi boy band non italiana quando c’erano le boy band. A Roma non ce l’avrebbero fatta: non così, almeno. A Roma avrebbero avuto problemi a trovare un palco adatto, figurarsi il resto. Comunque. C’era il pubblico in carne e ossa, non di cartone, ed era gente di Milano, che significa gente di tutta Italia, e questo è stato bello, capiamo l’emozione, e chissà se tra due settimane sarà ancora così, se potranno ancora essere ammessi esseri umani sugli spalti (e voi che vi lamentate di non poter programmare un matrimonio: ricordatevi che c’è chi non può programmare un programma tv, che è un casino e sembra una barzelletta già solamente a scriverlo).
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